giovedì 23 giugno 2011

Le risorse del Sud


B R I G A N T A G G I O Politico e Sociale

Rivista trimestrale storico culturale

Anno I - Marzo 2011 - n. 1



di Pino Aprile


C’è un Sud che fermenta sottotraccia; e nessuno se ne accorge, perché il Sud non fa notizia e non ha voce, quindi non sa di se stesso. E allora, come lo so? Perché godo della doppia (pur se faticosa) condizione di essere meridionale che si occupa del Sud e lo percorre, ma vivendo altrove. Così, il confronto è continuo e le variazioni, le sensazioni si colgono più facilmente.

Ma non l’ho fatto apposta! Diciamo che il “cosa” non mi sfuggiva; ma il “quanto”, la sua dimensione, sì; e per certi versi, pure il “come”, perché non avevo afferrato la vastità di espressioni del risorgente interesse dei meridionali per la propria terra e la propria storia.

E' successo che ho sbagliato i conti: avevo deciso, finito Terroni, di fare una quindicina di presentazioni, nei primi mesi dall’uscita del libro; e di premiarmi con una lunga estate di vela e di mare: in fondo, non facevo vacanze da qualche anno e non vedevo la mia barca da cinque! Invece, il libro mi ha messo il guinzaglio e portato in giro ovunque, in Italia e all’estero.

Ho tentato di difendere il mio diritto alla proprietà della mia vita, ho rifiutato, con educazione, tutto quello che potevo rifiutare, ma alla fine mi sono ritrovato con quasi duecento presentazioni in sette mesi, che sarebbero circa una al giorno; per evitare una denuncia per abbandono del tetto coniugale e ottimizzare i tempi, ne ho infilate sino a quattro al giorno. Ma per Stoccolma, Londra, Manchester, Zurigo (e poi Bruxelles, New York...), fra andata, dibattito, rientro, un paio di giorni se ne vanno; e così per il Salone del libro di Torino, gli incontri nelle università... Non era mai successo nella storia della casa editrice, e sì che non è delle più giovani, né delle più piccole. E non so cosa fare per gli altri scarsi cinquecento inviti ancora inevasi.

Questa strapazzata, se avessi dovuto preventivarla, non l’avrei mai fatta: perché andare in paesini di cui ignoravi pure l’esistenza, sino a che non ci hai messo piede? Cosa credi di trovare in borghi persi nelle montagne lontane dall’autostrada, dove ci va solo chi deve andare proprio là? Beh, spesso, era giusto lì quello che c’era da sapere. C’è un Sud che sta perdendo la sua subalternità e lo si deve: 1) alla tenacia con cui una sparuta generazione di padri (oggi anziani) ha inseguito la sua storia denigrata e nascosta, incurante dell’idea di inutilità (e persino derisione) che la circondava; 2) alla modernità e alla naturalezza, con cui la successiva generazione di cosmopoliti figli vede o vuol vedere una possibilità di futuro a casa sua, riscoprendone valori sottovalutati; e, con quelli, un passato negletto.

E' un fenomeno figlio di necessità (tira brutt’aria un po’ ovunque, andarsene non è più una soluzione certa, come prima) e di cultura più ampia (sono ragazzi cresciuti in una Europa senza frontiere, con una sola moneta, il viaggio facile ed economico: hanno visto come i localismi possano produrre lavoro, ricchezza, anche con molto meno di quello che una regione antica come il Mezzogiorno possiede e spesso non sa di avere. Insomma: guardano alla propria terra, con lo stesso sguardo di uno straniero, apprezzandone quello a cui non fa caso chi è qui da sempre, perché ce l’ha sotto gli occhi. Sono gente pratica, questi ragazzi, con buoni, spesso ottimi studi, i 110 e qualche lode, le Bocconi e i Politecnici, i master wow!, e come il giovanotto che stava all’università di Bari, poi «ho preso un Ryan air», London School of Economics, e conquistato il titolo, rifiuta le offerte made in England, torna al suo paese murgiano e si inventa un lavoro...

Non sono idealisti come i padri, non si fanno illusioni, hanno poca stima nelle possibilità, negli spazi, nell’attenzione al merito che questo Paese offre loro (la Gelmini è ministro della Pubblica istruzione, che gli racconti?); ma hanno più fiducia in se stessi, creano un festival del cinema; una cooperativa fra produttori di formaggio; per volontariato, dotano il paesello di pescatori di una stagione letteraria nazionale; con in tasca una laurea al Dams e l’amico bocconiano, avviano, nel Vallo di Diano, un allevamento di maiali per la produzione di salumi tradizionali; o, con laurea in antropologia, recuperano canti e detti del paese, e ne fanno uno spettacolo itinerante, con uso di strumenti musicali antichi; o si riuniscono per tutelare la sorgente che dà nome anche alla cittadina e farne una miniera culturale; o si ritrovano ogni fine settimana nel paese da cui si è partiti, per far nascere iniziative che gli ridiano vita, riportino a casa gli emigrati...

Ma sempre, in tutti questi casi, e molti altri ancora, domina la fame di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e rinascita personale. Una tale quantità di convegni, dibattiti, mostre sul tema credo non si sia vista mai! E lì, le generazioni si incontrano, ma la differenza si vede: i padri si dividono sulle idee (sono cresciuti in un mondo ideologizzato); i figli si uniscono sui progetti. I padri hanno dovuto scrollarsi il peso del pregiudizio; i figli ne sono privi. La parola e la figura del brigante, per dire: erano vergogna celata nel passato delle famiglie meridionali; oggi sono motivo di fierezza e rivendicazione identitaria. “Brigante”, al Sud, suona un complimento, adesso; come una volta, quando le mamme vezzeggiavano i loro figli, chiamandoli “brigantiello mio”.

Fonte : Brigantaggio.eu


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B R I G A N T A G G I O Politico e Sociale

Rivista trimestrale storico culturale

Anno I - Marzo 2011 - n. 1



di Pino Aprile


C’è un Sud che fermenta sottotraccia; e nessuno se ne accorge, perché il Sud non fa notizia e non ha voce, quindi non sa di se stesso. E allora, come lo so? Perché godo della doppia (pur se faticosa) condizione di essere meridionale che si occupa del Sud e lo percorre, ma vivendo altrove. Così, il confronto è continuo e le variazioni, le sensazioni si colgono più facilmente.

Ma non l’ho fatto apposta! Diciamo che il “cosa” non mi sfuggiva; ma il “quanto”, la sua dimensione, sì; e per certi versi, pure il “come”, perché non avevo afferrato la vastità di espressioni del risorgente interesse dei meridionali per la propria terra e la propria storia.

E' successo che ho sbagliato i conti: avevo deciso, finito Terroni, di fare una quindicina di presentazioni, nei primi mesi dall’uscita del libro; e di premiarmi con una lunga estate di vela e di mare: in fondo, non facevo vacanze da qualche anno e non vedevo la mia barca da cinque! Invece, il libro mi ha messo il guinzaglio e portato in giro ovunque, in Italia e all’estero.

Ho tentato di difendere il mio diritto alla proprietà della mia vita, ho rifiutato, con educazione, tutto quello che potevo rifiutare, ma alla fine mi sono ritrovato con quasi duecento presentazioni in sette mesi, che sarebbero circa una al giorno; per evitare una denuncia per abbandono del tetto coniugale e ottimizzare i tempi, ne ho infilate sino a quattro al giorno. Ma per Stoccolma, Londra, Manchester, Zurigo (e poi Bruxelles, New York...), fra andata, dibattito, rientro, un paio di giorni se ne vanno; e così per il Salone del libro di Torino, gli incontri nelle università... Non era mai successo nella storia della casa editrice, e sì che non è delle più giovani, né delle più piccole. E non so cosa fare per gli altri scarsi cinquecento inviti ancora inevasi.

Questa strapazzata, se avessi dovuto preventivarla, non l’avrei mai fatta: perché andare in paesini di cui ignoravi pure l’esistenza, sino a che non ci hai messo piede? Cosa credi di trovare in borghi persi nelle montagne lontane dall’autostrada, dove ci va solo chi deve andare proprio là? Beh, spesso, era giusto lì quello che c’era da sapere. C’è un Sud che sta perdendo la sua subalternità e lo si deve: 1) alla tenacia con cui una sparuta generazione di padri (oggi anziani) ha inseguito la sua storia denigrata e nascosta, incurante dell’idea di inutilità (e persino derisione) che la circondava; 2) alla modernità e alla naturalezza, con cui la successiva generazione di cosmopoliti figli vede o vuol vedere una possibilità di futuro a casa sua, riscoprendone valori sottovalutati; e, con quelli, un passato negletto.

E' un fenomeno figlio di necessità (tira brutt’aria un po’ ovunque, andarsene non è più una soluzione certa, come prima) e di cultura più ampia (sono ragazzi cresciuti in una Europa senza frontiere, con una sola moneta, il viaggio facile ed economico: hanno visto come i localismi possano produrre lavoro, ricchezza, anche con molto meno di quello che una regione antica come il Mezzogiorno possiede e spesso non sa di avere. Insomma: guardano alla propria terra, con lo stesso sguardo di uno straniero, apprezzandone quello a cui non fa caso chi è qui da sempre, perché ce l’ha sotto gli occhi. Sono gente pratica, questi ragazzi, con buoni, spesso ottimi studi, i 110 e qualche lode, le Bocconi e i Politecnici, i master wow!, e come il giovanotto che stava all’università di Bari, poi «ho preso un Ryan air», London School of Economics, e conquistato il titolo, rifiuta le offerte made in England, torna al suo paese murgiano e si inventa un lavoro...

Non sono idealisti come i padri, non si fanno illusioni, hanno poca stima nelle possibilità, negli spazi, nell’attenzione al merito che questo Paese offre loro (la Gelmini è ministro della Pubblica istruzione, che gli racconti?); ma hanno più fiducia in se stessi, creano un festival del cinema; una cooperativa fra produttori di formaggio; per volontariato, dotano il paesello di pescatori di una stagione letteraria nazionale; con in tasca una laurea al Dams e l’amico bocconiano, avviano, nel Vallo di Diano, un allevamento di maiali per la produzione di salumi tradizionali; o, con laurea in antropologia, recuperano canti e detti del paese, e ne fanno uno spettacolo itinerante, con uso di strumenti musicali antichi; o si riuniscono per tutelare la sorgente che dà nome anche alla cittadina e farne una miniera culturale; o si ritrovano ogni fine settimana nel paese da cui si è partiti, per far nascere iniziative che gli ridiano vita, riportino a casa gli emigrati...

Ma sempre, in tutti questi casi, e molti altri ancora, domina la fame di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e rinascita personale. Una tale quantità di convegni, dibattiti, mostre sul tema credo non si sia vista mai! E lì, le generazioni si incontrano, ma la differenza si vede: i padri si dividono sulle idee (sono cresciuti in un mondo ideologizzato); i figli si uniscono sui progetti. I padri hanno dovuto scrollarsi il peso del pregiudizio; i figli ne sono privi. La parola e la figura del brigante, per dire: erano vergogna celata nel passato delle famiglie meridionali; oggi sono motivo di fierezza e rivendicazione identitaria. “Brigante”, al Sud, suona un complimento, adesso; come una volta, quando le mamme vezzeggiavano i loro figli, chiamandoli “brigantiello mio”.

Fonte : Brigantaggio.eu


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1 commento:

Anonimo ha detto...

...mi sono già abbonata ..ben vengano queste iniziative che non sono esclusivamente culturali ma possono incidere profondamente nella pratica sudista .E poi ho visto che a questo primo numero hanno partecipato meridionali di tutte le idee...
Bravo Rocco Biondi che ha costruito l'unità virtuale di tutto il Sud .

Costanza Castellano

 
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