lunedì 29 luglio 2013

Rapporto Svimez sui principali dati di andamento economico disaggregati per il Mezzogiorno e il Centro-Nord e per le singole regioni per il 2012, e di previsione per il 2013 e 2014

Venerdì 26 luglio alle 15,30 presso la SVIMEZ, in via di Porta Pinciana 6 a Roma, conferenza stampa di anticipazione dei principali dati di andamento economico disaggregati per il Mezzogiorno e il Centro-Nord e per le singole regioni per il 2012, e di previsione per il 2013 e 2014, del “Rapporto SVIMEZ 2013 sull’economia del Mezzogiorno” in presentazione alla fine di settembre. In particolare, con riferimento alle previsioni, si illustreranno gli effetti sul Mezzogiorno e sul Centro-Nord delle manovre di politica economica del Governo relativi al 2013 e 2014.
Presente il Ministro per la Coesione Territoriale Carlo Trigilia.
Sono stati invitati a partecipare anche i Presidenti degli Istituti meridionalisti firmatari insieme alla SVIMEZ del Documento – Agenda per il Sud “Una politica di sviluppo del Sud per riprendere a crescere”. 

Fonte: Svimez

Un Mezzogiorno sempre più spopolato, da cui entro il 2065 spariranno due milioni di under 44, tra denatalità, disoccupazione e nuove emigrazioni. Una terra a rischio desertificazione industriale, dove crollano consumi e investimenti, risale la disoccupazione ufficiale, ma dove in cinque anni le famiglie povere sono aumentate del 30%, pari a 350mila nuclei.
In base a stime SVIMEZ, inoltre, nel 2013 il Pil italiano dovrebbe far registrare una contrazione dell’1,9%, quale risultato tra il -1,7% del Centro-Nord e il -2,5% del Sud. Mentre nel 2014 si prevede un timido segno positivo.
Questa la fotografia che emerge dalle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2013 diffuse oggi a Roma.
2013 07 26 03
Da sinistra: Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Carlo Trigilia (Ministro per la Coesione Territoriale), Riccardo Padovani (Direttore della SVIMEZ)

2013 07 26 01 
Da sinistra: Stefano Prezioso (Ricercatore della SVIMEZ), Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Riccardo Padovani (Direttore della SVIMEZ)

2013 07 26 02

Carlo Trigilia (Ministro per la Coesione Territoriale)










Materiali
pdf"Anticipazioni sui principali andamenti economici dal Rapporto SVIMEZ 2013
sull'economia del Mezzogiorno"
pdfIntervento del Direttore Riccardo Padovani (testo) | Slides
pdfRapporto di previsione territoriale 2013 (testo) Slides
Area stampa
pdfComunicato anticipazioni
pdfComunicato previsioni
pdfComunicato impatto manovra



Fonte: Svimez
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Venerdì 26 luglio alle 15,30 presso la SVIMEZ, in via di Porta Pinciana 6 a Roma, conferenza stampa di anticipazione dei principali dati di andamento economico disaggregati per il Mezzogiorno e il Centro-Nord e per le singole regioni per il 2012, e di previsione per il 2013 e 2014, del “Rapporto SVIMEZ 2013 sull’economia del Mezzogiorno” in presentazione alla fine di settembre. In particolare, con riferimento alle previsioni, si illustreranno gli effetti sul Mezzogiorno e sul Centro-Nord delle manovre di politica economica del Governo relativi al 2013 e 2014.
Presente il Ministro per la Coesione Territoriale Carlo Trigilia.
Sono stati invitati a partecipare anche i Presidenti degli Istituti meridionalisti firmatari insieme alla SVIMEZ del Documento – Agenda per il Sud “Una politica di sviluppo del Sud per riprendere a crescere”. 

Fonte: Svimez

Un Mezzogiorno sempre più spopolato, da cui entro il 2065 spariranno due milioni di under 44, tra denatalità, disoccupazione e nuove emigrazioni. Una terra a rischio desertificazione industriale, dove crollano consumi e investimenti, risale la disoccupazione ufficiale, ma dove in cinque anni le famiglie povere sono aumentate del 30%, pari a 350mila nuclei.
In base a stime SVIMEZ, inoltre, nel 2013 il Pil italiano dovrebbe far registrare una contrazione dell’1,9%, quale risultato tra il -1,7% del Centro-Nord e il -2,5% del Sud. Mentre nel 2014 si prevede un timido segno positivo.
Questa la fotografia che emerge dalle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2013 diffuse oggi a Roma.
2013 07 26 03
Da sinistra: Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Carlo Trigilia (Ministro per la Coesione Territoriale), Riccardo Padovani (Direttore della SVIMEZ)

2013 07 26 01 
Da sinistra: Stefano Prezioso (Ricercatore della SVIMEZ), Adriano Giannola (Presidente della SVIMEZ), Riccardo Padovani (Direttore della SVIMEZ)

2013 07 26 02

Carlo Trigilia (Ministro per la Coesione Territoriale)










Materiali
pdf"Anticipazioni sui principali andamenti economici dal Rapporto SVIMEZ 2013
sull'economia del Mezzogiorno"
pdfIntervento del Direttore Riccardo Padovani (testo) | Slides
pdfRapporto di previsione territoriale 2013 (testo) Slides
Area stampa
pdfComunicato anticipazioni
pdfComunicato previsioni
pdfComunicato impatto manovra



Fonte: Svimez

mercoledì 20 febbraio 2013

GRAFICI SILENZIOSI - (3) PRIMA IL NORD...PRIMI NEI FONDI PER EDILIZIA SCOLASTICA


Elaborazione grafica by Rosanna Gadaleta


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Elaborazione grafica by Rosanna Gadaleta


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martedì 19 febbraio 2013

GRAFICI SILENZIOSI - (2) PRIMA IL NORD....PRIMI PER EVASIONE FISCALE


Elaborazione grafica by Rosanna Gadaleta





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Elaborazione grafica by Rosanna Gadaleta





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lunedì 18 febbraio 2013

GRAFICI SILENZIOSI - (1) PRIMA IL NORD...PRIMI PER BABY PENSIONATI




Elaborazione grafica by Rosanna Gadaleta



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Elaborazione grafica by Rosanna Gadaleta



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mercoledì 26 settembre 2012

Svimez "Necessari 400 anni per recuperare il divario fra Nord e Sud". Emergenza occupazionale nel Meridione


"Ci vorrebbero 400 anni per recuperare lo svantaggio che separa il Sud dal Nord": è dello Svimez, l'istituto che monitora lo sviluppo nel Mezzogiorno, la durissima sentenza che condanna il Meridione a eterno fanalino di coda dell'Italia. E la Calabria è – fra le regioni del Sud – ancora una volta in fondo a tutte le classifiche.

Stando ai dati dello Svimez infatti, in termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2011 ha confermato lo stesso livello del 57,7% del valore del Centro Nord del 2010. In un decennio il recupero del gap è stato soltanto di un punto e mezzo percentuale, dal 56,1% al 57,7%.
In valori assoluti, a livello nazionale, la Calabria con 16.603 euro l'anno, si attesta al penultimo posto. Peggio, fa solo la Campania.

E anche sul fronte occupazione le cose vanno tutt'altro che bene. Secondo lo Svimez, gli irregolari in Italia arrivano a 2 milioni 900mila unità, di cui 1 milione e 200mila al Sud. A livello di settore, nel 2011 al Sud è irregolare un lavoratore su 4 in agricoltura (25%), il 22% nelle costruzioni, il 14% nell'industria. E se è vero che la Calabria fa registrare un dato positivo sul fronte dell'aumento degli occupati, 185mila di questi lavorano a nero.
"E' vera emergenza occupazionale nel Mezzogiorno soprattutto per i giovani: in particolare -, segnala la Svimez -, "in tre anni, dal 2008 al 2011, gli under 34 che hanno perso il lavoro al Sud sono stati 329mila". Nel 2011 il tasso di occupazione in eta' 15-64 e' stato del 44% nel Mezzogiorno e del 64% nel Centro-Nord. A livello regionale il tasso piu' alto si registra in Abruzzo (56,8%), il più basso in Campania, dove continua a lavorare meno del 40% della popolazione in eta' da lavoro. In valori assoluti, crescono gli occupati in Abruzzo (+13.300), Puglia (+11.600), Sardegna (+8.300), Calabria (+3.900) e Basilicata (+2.500). In calo invece in Molise (- 1.100), Sicilia (-7.300) e Campania (-16.700).
Nel Mezzogiorno, il tasso di occupazione giovanile per la classe 25-34 anni è giunto nel 2011 ad appena il 47,6%, pari cioè a meno di un giovane su due, a fronte del 75% del Centro-Nord, cioè di 3 impiegati su 4. Situazione drammatica per le giovani donne meridionali, ferme nel 2011, al 24%, pari a meno di una su quattro in età lavorativa, che spinge le stesse di fatto a una segregazione occupazionale rispetto sia ai maschi che alle altre donne italiane.

Fonte: Il Dispaccio
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"Ci vorrebbero 400 anni per recuperare lo svantaggio che separa il Sud dal Nord": è dello Svimez, l'istituto che monitora lo sviluppo nel Mezzogiorno, la durissima sentenza che condanna il Meridione a eterno fanalino di coda dell'Italia. E la Calabria è – fra le regioni del Sud – ancora una volta in fondo a tutte le classifiche.

Stando ai dati dello Svimez infatti, in termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2011 ha confermato lo stesso livello del 57,7% del valore del Centro Nord del 2010. In un decennio il recupero del gap è stato soltanto di un punto e mezzo percentuale, dal 56,1% al 57,7%.
In valori assoluti, a livello nazionale, la Calabria con 16.603 euro l'anno, si attesta al penultimo posto. Peggio, fa solo la Campania.

E anche sul fronte occupazione le cose vanno tutt'altro che bene. Secondo lo Svimez, gli irregolari in Italia arrivano a 2 milioni 900mila unità, di cui 1 milione e 200mila al Sud. A livello di settore, nel 2011 al Sud è irregolare un lavoratore su 4 in agricoltura (25%), il 22% nelle costruzioni, il 14% nell'industria. E se è vero che la Calabria fa registrare un dato positivo sul fronte dell'aumento degli occupati, 185mila di questi lavorano a nero.
"E' vera emergenza occupazionale nel Mezzogiorno soprattutto per i giovani: in particolare -, segnala la Svimez -, "in tre anni, dal 2008 al 2011, gli under 34 che hanno perso il lavoro al Sud sono stati 329mila". Nel 2011 il tasso di occupazione in eta' 15-64 e' stato del 44% nel Mezzogiorno e del 64% nel Centro-Nord. A livello regionale il tasso piu' alto si registra in Abruzzo (56,8%), il più basso in Campania, dove continua a lavorare meno del 40% della popolazione in eta' da lavoro. In valori assoluti, crescono gli occupati in Abruzzo (+13.300), Puglia (+11.600), Sardegna (+8.300), Calabria (+3.900) e Basilicata (+2.500). In calo invece in Molise (- 1.100), Sicilia (-7.300) e Campania (-16.700).
Nel Mezzogiorno, il tasso di occupazione giovanile per la classe 25-34 anni è giunto nel 2011 ad appena il 47,6%, pari cioè a meno di un giovane su due, a fronte del 75% del Centro-Nord, cioè di 3 impiegati su 4. Situazione drammatica per le giovani donne meridionali, ferme nel 2011, al 24%, pari a meno di una su quattro in età lavorativa, che spinge le stesse di fatto a una segregazione occupazionale rispetto sia ai maschi che alle altre donne italiane.

Fonte: Il Dispaccio

lunedì 2 luglio 2012

I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte terza.

A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.
Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.
Questa è l’ultima delle tre parti in cui è diviso l’articolo. Nel caso non abbiate letto le parti precedenti, esse  ancora disponibili ai seguenti link.

  1. I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte prima
  1. I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte seconda.

8 - È stato il primo intervento di programmazione che ha interessato tutto il territorio dello stato:

La differenza sostanziale tra l’intervento straordinario partito negli anni ‘50 rispetto all’insieme delle leggi speciali per Napoli e per il Mezzogiorno, che si sono succedute dagli anni ‘80 dell’Ottocento fino al fascismo, e dagli interventi dell’immediato dopoguerra è legata alla presenza, per la prima volta, di un organico sistema

che impegnava lo Stato italiano ad affrontare con ampia visione la “questione meridionale”, con un primo tentativo di rottura dello schema tradizionale dell’intervento rivolto frammentariamente ad ovviare alle più palesi insufficienze nel campo delle opere pubbliche.” [17]
In altri termini, le legislazioni speciali dell’Ottocento si limitarono a provvedimenti che tutelassero particolari aree geografiche e particolari aspetti di esse. Si pensi ad esempio, alla Legge per risanamento di Napoli del 1885, a carattere prettamente urbanistico [18] o alla Legge sulla Sardegna del 1897, con finalità prettamente agricole. [17] Nei primi anni del XX secolo si susseguirono leggi anche a carattere più generale, ma che riguardarono sempre interventi isolati rispetto alla programmazione a carattere nazionale. [17]
Dopo una fase di interventi atti a tamponare situazioni di emergenza durante la seconda metà degli anni ‘40, le leggi degli anni ‘50, che segnarono l’inizio dell’intervento straordinario, stabilirono apertamente la necessità di includere il Mezzogiorno nel circuito economico del Paese. [17]
L’ente Cassa, inoltre, non si riferì tassativamente ai confini dell’area del Mezzogiorno, così come è definita attualmente, ma incluse nei suoi provvedimenti anche le province di Latina e Frosinone, alcuni comuni delle province di Rieti e di Ascoli Piceno, al confine con gli Abruzzi, e le isole dell’Arcipelago Toscano.7
Inoltre, per controbilanciare la spesa della Cassa, fu istituita una forma di spesa a carattere straordinario anche nelle aree del Centro e del Nord - Est, considerate, al pari del Mezzogiorno, aree depresse da integrare nell’economia del Paese.
Notevoli furono le differenze tra i due interventi, riassumibili nei seguenti punti: [19]

  • Nel Nord - Est, in particolare, era già presente una, seppur debole, realtà industriale, formata dal polo industriale di Marghera e dal distretto tessile dell’alto vicentino. Inoltre, il territorio era in una situazione di vantaggio relativamente alle opere del Genio Civile rispetto al Mezzogiorno;
  • L’intervento per il Centro e il Nord - Est fu attuato nella seconda fase dell’intervento straordinario, realizzatosi con l’erogazione di incentivi. Ciò ha permesso alle imprese di scegliere liberamente su cosa e come investire;
  • Gli investimenti furono assegnati dallo Stato centrale direttamente ai Comuni considerati in ritardo con lo sviluppo. Ciò ha di fatto annullato le ingerenze esterne sulla localizzazione degli investimenti, anche se non sono mancate distorsioni legate alla disponibilità di risorse aggiuntive da parte degli stessi Comuni. Inoltre, l’assenza di un Ente con l’onere di coordinare tutte le operazioni, rese indubbiamente più snella la procedura di accesso alle risorse;
  • Le imprese del triangolo industriale erano interessate allo sviluppo dell’area ed investirono lì già in precedenza. L’area di Marghera, composta da capitale prevalentemente del triangolo, era considerata un corpo estraneo di sviluppo di tipo ottocentesco, che riuscì ad integrarsi perfettamente nella Terza Italia, attraverso la spinta ricevuta dalle imprese locali attraverso gli incentivi;
Quindi, il successo della nascita della Terza Italia, oltre ad essere legato ad una situazione di partenza migliore, è sostanzialmente frutto di una politica di sviluppo dal basso, che nel Mezzogiorno fu di fatto bloccata.

9 - La scelta del nome “Cassa” è stato oggetto di un acceso dibattito:

Necessario punto di cronaca rosa. La scelta del nome dell’ente avvenne durante la consultazione tra Alcide De Gasperi, Donato Menichella e Pietro Campilli. Indubbiamente, esso avrebbe dovuto essere indicativo delle funzioni e finalità dell’ente e quindi ci si affidò
all’intenzione di evocare la disponibilità di un consistente e ininterrotto flusso di risorse destinato al Mezzogiorno.” [10]
Tuttavia fu lo steso De Gasperi a mostrare perplessità sulla possibilità di fraintendimento dell’operato dell’ente. “Cassa”, secondo lui, era un nome troppo allettante per chi volesse approfittare di un’ingente disponibilità di risorse pubbliche, ma non ottenne ascolto.
Meridionale io sentivo che i miei conterranei, sempre delusi per la mancata attuazione delle promesse che erano state loro fatte, avrebbero particolarmente apprezzato la novità che si presentava con un nome Cassa il quale attestava da solo che questa volta c’erano i «denari». De Gasperi, che si rendeva conto dello sforzo che nelle condizioni di allora lo Stato si apprestava a compiere, ebbe la preoccupazione che il nome attirasse troppe «cupidigie», e incaricò Vanoni, poiché aveva studiato con me il progetto, di trovarne uno meno sonante. Gli disubbidimmo.” [20]
In realtà nessuno avrebbe avuto da ridire sul nome dell’ente se esso avesse svolto con diligenza il suo operato. La cattiva fama dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno è frutto della sua apparente cattiva gestione, perché lo scopo reale di risollevare la stagnante economia del Centro - Nord fu raggiunto e anche eccellentemente.
E fu così che si sprecarono studi a favore dell’eliminazione della spesa in conto capitale nell’area che, evitandone volutamente una rassegna, raggiunge l’apice in tempi moderni nel teorema meridionale del post - meridionalista8 Gianfranco Viesti.
Il problema principale dell’Italia è che il Sud cresce da sempre meno del resto del paese. Questo accade nonostante le colossali risorse, per investimenti o per spesa corrente, trasferite dal resto del paese, prelevate dalle tasche degli italiani che lavorano e producono. Queste risorse sono sempre, sistematicamente, sprecate, disperse in mille rivoli improduttivi e assistenziali o preda della criminalità organizzata, da parte della classe dirigente meridionale, corrotta e incapace.” [21]
Il diffondersi di un pensiero così saggiamente enunciato nelle menti di molti abitanti della penisola italica ha autorizzato, oltre all’annullamento di fatto di ogni possibile politica industriale sana nel Mezzogiorno, alla depredazione delle risorse ad esso spettanti negli ultimi venti anni.

10 - Ha sofferto della presenza di un forte coordinamento centrale delle politiche di sviluppo:

L’intervento straordinario, così come fu concepito, non avrebbe potuto funzionare. Non era possibile, da parte di un ente che osservava la situazione dalla lontana Roma, scegliere le misure giuste per ogni angolo di depressione economica che formava il Mezzogiorno d’Italia in quel periodo.
Fu per questa ignoranza che l’ente si pose l’improbabile obiettivo di annullare completamente il divario tra Nord e Sud. La convergenza di un’area che non poteva certo definirsi di antica industrializzazione non poteva avvenire in soli quarant’anni e perseverando su un’ottica centralistica che si rivelò fallimentare fin dall’inizio. Inoltre, si programmarono politiche di intervento uniformi su tutto il territorio in cui la Cassa operò, cosa che causò, oltre la mancata convergenza, l’accentuazione dei divari all’interno della stessa area. Restarono infatti escluse dall’intervento tutta l’area degli Abruzzi e del Molise9, l’area appenninica e le aree interne della Sicilia. [22]
Ma non solo. Gran parte delle scelte relative agli investimenti e alla colleconoocazione delle imprese pubbliche furono condizionate fortemente dagli interessi nazionali piuttosto che locali. Ne sono un esempio, la costruzione della centrale nucleare del Garigliano e delle centrali elettriche a carbone che non risposero certo ad un fabbisogno energetico del Mezzogiorno. Si pensi oppure ai poli di sviluppo degli anni ‘60 e ‘70 che sorsero in riferimento ad idee di sviluppo già superate, secondo cui l’industria pesante avrebbe dovuto fare da traino agli altri settori, senza occuparsi della disoccupazione del Mezzogiorno, che avrebbe richiesto  investimenti in imprese ad alta intensità di lavoro.
Questa politica apportò più inquinamento che benefici economici all’area ed un enorme utile agli industriali del Nord che vi insediarono gli stabilimenti.

Il ricorso ad un ente coordinatore che doveva comunque rispondere alle amministrazioni centrali prima, e anche a quelle locali poi, con l’istituzione dell’Agensud, rese le politiche di intervento lente e farraginose, al punto che molto spesso, le imprese locali preferirono investire senza ricorrere agli incentivi messi loro a disposizione. [23] Piuttosto esse soffrirono della ormai cronica carenza infrastrutturale, data l’inadeguatezza degli investimenti durante tutto l’intervento e successivamente ad esso, e della pressione delle imprese del triangolo che ostacolarono durante tutto questo periodo la nascita di un settore secondario autonomo. [3]
Infine, l’eccesso di discrezionalità da parte delle amministrazioni, la lentezza e la difficoltà di comunicazione tra gli enti fecero prosperare le politiche clientelari, forse l’unico effetto negativo di questo intervento che è stato messo in luce, probabilmente perché è l’unico per il quale si possa individuare una responsabilità più a Sud di Roma.

Riferimenti:

[17] Pescatore, G., “I caratteri della Questione Meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[18] Festa, G., “Questione meridionale, legislazione speciale e dibattito storiografico.”, in De Vivo, P., Iaccarino, L., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo delle aree interne. Questioni aperte, nodi irrisolti e prospettive di analisi.”, su “Akiris, II, numeri 4 - 5”, 2006.
[19] Fontana, G. L., Roverato, G., “Processi di settorializzazione e di distrettualizzazione nei sistemi economici locali: il caso Veneto.”, in Amatori, F., Colli, A., “Comunità di imprese. Sistemi locali in Italia tra Otto e Novecento.”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[20] Menichella, D., “Intervento in memoria di Alcide De Gasperi.”, in D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.
[21] Viesti, G., “Il teorema meridionale.”, in “Incontro Nazionale di Area Democratica”, Cortona, 8 Maggio 2010.
[22] Giustizieri, D., “Dualismo territoriale all’interno del Mezzogiorno.”, in “Rivista Apulia, numero II - 76”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Giugno 1976.
[23] Giustizieri, D., “Brambilla terroni.”, in “Rivista Apulia, numero II - 84”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Giugno 1984.

7 Quindi un’area più estesa del territorio che fu del Regno Napoli.
8 Ammetto di avere inventato il termine, ma è indubbio che gli studiosi più recenti non possono essere considerati né classicineomeridionalisti, essendo fortemente critici nei confronti di questi ultimi riproponendo il concetto di sviluppo in autonomia del Mezzogiorno.
9 La convergenza delle regioni Abruzzo e Molise ha avuto inizio negli anni ‘90 grazie al ricorso ai fondi europei e alle esternalità legate alla vicinanza ad un’area maggiormente sviluppata.
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A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.
Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.
Questa è l’ultima delle tre parti in cui è diviso l’articolo. Nel caso non abbiate letto le parti precedenti, esse  ancora disponibili ai seguenti link.

  1. I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte prima
  1. I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte seconda.

8 - È stato il primo intervento di programmazione che ha interessato tutto il territorio dello stato:

La differenza sostanziale tra l’intervento straordinario partito negli anni ‘50 rispetto all’insieme delle leggi speciali per Napoli e per il Mezzogiorno, che si sono succedute dagli anni ‘80 dell’Ottocento fino al fascismo, e dagli interventi dell’immediato dopoguerra è legata alla presenza, per la prima volta, di un organico sistema

che impegnava lo Stato italiano ad affrontare con ampia visione la “questione meridionale”, con un primo tentativo di rottura dello schema tradizionale dell’intervento rivolto frammentariamente ad ovviare alle più palesi insufficienze nel campo delle opere pubbliche.” [17]
In altri termini, le legislazioni speciali dell’Ottocento si limitarono a provvedimenti che tutelassero particolari aree geografiche e particolari aspetti di esse. Si pensi ad esempio, alla Legge per risanamento di Napoli del 1885, a carattere prettamente urbanistico [18] o alla Legge sulla Sardegna del 1897, con finalità prettamente agricole. [17] Nei primi anni del XX secolo si susseguirono leggi anche a carattere più generale, ma che riguardarono sempre interventi isolati rispetto alla programmazione a carattere nazionale. [17]
Dopo una fase di interventi atti a tamponare situazioni di emergenza durante la seconda metà degli anni ‘40, le leggi degli anni ‘50, che segnarono l’inizio dell’intervento straordinario, stabilirono apertamente la necessità di includere il Mezzogiorno nel circuito economico del Paese. [17]
L’ente Cassa, inoltre, non si riferì tassativamente ai confini dell’area del Mezzogiorno, così come è definita attualmente, ma incluse nei suoi provvedimenti anche le province di Latina e Frosinone, alcuni comuni delle province di Rieti e di Ascoli Piceno, al confine con gli Abruzzi, e le isole dell’Arcipelago Toscano.7
Inoltre, per controbilanciare la spesa della Cassa, fu istituita una forma di spesa a carattere straordinario anche nelle aree del Centro e del Nord - Est, considerate, al pari del Mezzogiorno, aree depresse da integrare nell’economia del Paese.
Notevoli furono le differenze tra i due interventi, riassumibili nei seguenti punti: [19]

  • Nel Nord - Est, in particolare, era già presente una, seppur debole, realtà industriale, formata dal polo industriale di Marghera e dal distretto tessile dell’alto vicentino. Inoltre, il territorio era in una situazione di vantaggio relativamente alle opere del Genio Civile rispetto al Mezzogiorno;
  • L’intervento per il Centro e il Nord - Est fu attuato nella seconda fase dell’intervento straordinario, realizzatosi con l’erogazione di incentivi. Ciò ha permesso alle imprese di scegliere liberamente su cosa e come investire;
  • Gli investimenti furono assegnati dallo Stato centrale direttamente ai Comuni considerati in ritardo con lo sviluppo. Ciò ha di fatto annullato le ingerenze esterne sulla localizzazione degli investimenti, anche se non sono mancate distorsioni legate alla disponibilità di risorse aggiuntive da parte degli stessi Comuni. Inoltre, l’assenza di un Ente con l’onere di coordinare tutte le operazioni, rese indubbiamente più snella la procedura di accesso alle risorse;
  • Le imprese del triangolo industriale erano interessate allo sviluppo dell’area ed investirono lì già in precedenza. L’area di Marghera, composta da capitale prevalentemente del triangolo, era considerata un corpo estraneo di sviluppo di tipo ottocentesco, che riuscì ad integrarsi perfettamente nella Terza Italia, attraverso la spinta ricevuta dalle imprese locali attraverso gli incentivi;
Quindi, il successo della nascita della Terza Italia, oltre ad essere legato ad una situazione di partenza migliore, è sostanzialmente frutto di una politica di sviluppo dal basso, che nel Mezzogiorno fu di fatto bloccata.

9 - La scelta del nome “Cassa” è stato oggetto di un acceso dibattito:

Necessario punto di cronaca rosa. La scelta del nome dell’ente avvenne durante la consultazione tra Alcide De Gasperi, Donato Menichella e Pietro Campilli. Indubbiamente, esso avrebbe dovuto essere indicativo delle funzioni e finalità dell’ente e quindi ci si affidò
all’intenzione di evocare la disponibilità di un consistente e ininterrotto flusso di risorse destinato al Mezzogiorno.” [10]
Tuttavia fu lo steso De Gasperi a mostrare perplessità sulla possibilità di fraintendimento dell’operato dell’ente. “Cassa”, secondo lui, era un nome troppo allettante per chi volesse approfittare di un’ingente disponibilità di risorse pubbliche, ma non ottenne ascolto.
Meridionale io sentivo che i miei conterranei, sempre delusi per la mancata attuazione delle promesse che erano state loro fatte, avrebbero particolarmente apprezzato la novità che si presentava con un nome Cassa il quale attestava da solo che questa volta c’erano i «denari». De Gasperi, che si rendeva conto dello sforzo che nelle condizioni di allora lo Stato si apprestava a compiere, ebbe la preoccupazione che il nome attirasse troppe «cupidigie», e incaricò Vanoni, poiché aveva studiato con me il progetto, di trovarne uno meno sonante. Gli disubbidimmo.” [20]
In realtà nessuno avrebbe avuto da ridire sul nome dell’ente se esso avesse svolto con diligenza il suo operato. La cattiva fama dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno è frutto della sua apparente cattiva gestione, perché lo scopo reale di risollevare la stagnante economia del Centro - Nord fu raggiunto e anche eccellentemente.
E fu così che si sprecarono studi a favore dell’eliminazione della spesa in conto capitale nell’area che, evitandone volutamente una rassegna, raggiunge l’apice in tempi moderni nel teorema meridionale del post - meridionalista8 Gianfranco Viesti.
Il problema principale dell’Italia è che il Sud cresce da sempre meno del resto del paese. Questo accade nonostante le colossali risorse, per investimenti o per spesa corrente, trasferite dal resto del paese, prelevate dalle tasche degli italiani che lavorano e producono. Queste risorse sono sempre, sistematicamente, sprecate, disperse in mille rivoli improduttivi e assistenziali o preda della criminalità organizzata, da parte della classe dirigente meridionale, corrotta e incapace.” [21]
Il diffondersi di un pensiero così saggiamente enunciato nelle menti di molti abitanti della penisola italica ha autorizzato, oltre all’annullamento di fatto di ogni possibile politica industriale sana nel Mezzogiorno, alla depredazione delle risorse ad esso spettanti negli ultimi venti anni.

10 - Ha sofferto della presenza di un forte coordinamento centrale delle politiche di sviluppo:

L’intervento straordinario, così come fu concepito, non avrebbe potuto funzionare. Non era possibile, da parte di un ente che osservava la situazione dalla lontana Roma, scegliere le misure giuste per ogni angolo di depressione economica che formava il Mezzogiorno d’Italia in quel periodo.
Fu per questa ignoranza che l’ente si pose l’improbabile obiettivo di annullare completamente il divario tra Nord e Sud. La convergenza di un’area che non poteva certo definirsi di antica industrializzazione non poteva avvenire in soli quarant’anni e perseverando su un’ottica centralistica che si rivelò fallimentare fin dall’inizio. Inoltre, si programmarono politiche di intervento uniformi su tutto il territorio in cui la Cassa operò, cosa che causò, oltre la mancata convergenza, l’accentuazione dei divari all’interno della stessa area. Restarono infatti escluse dall’intervento tutta l’area degli Abruzzi e del Molise9, l’area appenninica e le aree interne della Sicilia. [22]
Ma non solo. Gran parte delle scelte relative agli investimenti e alla colleconoocazione delle imprese pubbliche furono condizionate fortemente dagli interessi nazionali piuttosto che locali. Ne sono un esempio, la costruzione della centrale nucleare del Garigliano e delle centrali elettriche a carbone che non risposero certo ad un fabbisogno energetico del Mezzogiorno. Si pensi oppure ai poli di sviluppo degli anni ‘60 e ‘70 che sorsero in riferimento ad idee di sviluppo già superate, secondo cui l’industria pesante avrebbe dovuto fare da traino agli altri settori, senza occuparsi della disoccupazione del Mezzogiorno, che avrebbe richiesto  investimenti in imprese ad alta intensità di lavoro.
Questa politica apportò più inquinamento che benefici economici all’area ed un enorme utile agli industriali del Nord che vi insediarono gli stabilimenti.

Il ricorso ad un ente coordinatore che doveva comunque rispondere alle amministrazioni centrali prima, e anche a quelle locali poi, con l’istituzione dell’Agensud, rese le politiche di intervento lente e farraginose, al punto che molto spesso, le imprese locali preferirono investire senza ricorrere agli incentivi messi loro a disposizione. [23] Piuttosto esse soffrirono della ormai cronica carenza infrastrutturale, data l’inadeguatezza degli investimenti durante tutto l’intervento e successivamente ad esso, e della pressione delle imprese del triangolo che ostacolarono durante tutto questo periodo la nascita di un settore secondario autonomo. [3]
Infine, l’eccesso di discrezionalità da parte delle amministrazioni, la lentezza e la difficoltà di comunicazione tra gli enti fecero prosperare le politiche clientelari, forse l’unico effetto negativo di questo intervento che è stato messo in luce, probabilmente perché è l’unico per il quale si possa individuare una responsabilità più a Sud di Roma.

Riferimenti:

[17] Pescatore, G., “I caratteri della Questione Meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[18] Festa, G., “Questione meridionale, legislazione speciale e dibattito storiografico.”, in De Vivo, P., Iaccarino, L., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo delle aree interne. Questioni aperte, nodi irrisolti e prospettive di analisi.”, su “Akiris, II, numeri 4 - 5”, 2006.
[19] Fontana, G. L., Roverato, G., “Processi di settorializzazione e di distrettualizzazione nei sistemi economici locali: il caso Veneto.”, in Amatori, F., Colli, A., “Comunità di imprese. Sistemi locali in Italia tra Otto e Novecento.”, Il Mulino, Bologna, 2001.
[20] Menichella, D., “Intervento in memoria di Alcide De Gasperi.”, in D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.
[21] Viesti, G., “Il teorema meridionale.”, in “Incontro Nazionale di Area Democratica”, Cortona, 8 Maggio 2010.
[22] Giustizieri, D., “Dualismo territoriale all’interno del Mezzogiorno.”, in “Rivista Apulia, numero II - 76”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Giugno 1976.
[23] Giustizieri, D., “Brambilla terroni.”, in “Rivista Apulia, numero II - 84”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Giugno 1984.

7 Quindi un’area più estesa del territorio che fu del Regno Napoli.
8 Ammetto di avere inventato il termine, ma è indubbio che gli studiosi più recenti non possono essere considerati né classicineomeridionalisti, essendo fortemente critici nei confronti di questi ultimi riproponendo il concetto di sviluppo in autonomia del Mezzogiorno.
9 La convergenza delle regioni Abruzzo e Molise ha avuto inizio negli anni ‘90 grazie al ricorso ai fondi europei e alle esternalità legate alla vicinanza ad un’area maggiormente sviluppata.

lunedì 25 giugno 2012

I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte seconda

A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso. Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati. L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.

Questa è la seconda delle tre parti in cui è diviso l’articolo.

La prima parte, è disponibile al seguente link: I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte prima.

5 - Quanto è stato stanziato?

148.243,132 miliardi di Lire correnti o 340.271,765 milioni di Euro a prezzi concatenati al 2008 dal 1951 al 1993, comprensivi degli sgravi contributivi. [12] Ma scritto così significa ben poco. Facendo riferimento alle quantità effettivamente erogate ogni anno è possibile calcolarne l’incidenza sul PIL, riportate nel seguente grafico.

Incidenza sul PIL dell’intervento straordinario. Anni 1951 - 1993. Elaborazione mia. [12]

Come precedentemente scritto, la prima fase di intervento riguardava solo gli investimenti diretti nel Mezzogiorno, quindi sono gli unici ad essere considerati fino al 1967. Come si può notare gli investimenti superano l’1% del PIL solo in un anno, il 1975 (1,23%), anno in cui anche la spesa totale per l’intervento straordinario raggiunge il massimo, con l’1,73% del PIL. Nei due anni successivi la spesa per investimenti sfiora l’1%, così come nel 1954. L’andamento della serie appare stazionario attorno alla sua media dello 0,73% circa.
La spesa per gli sgravi fiscali ha invece un andamento crescente, partendo dalla mastodontica cifra dello 0,01% del PIL erogata nel 1968, ma che non raggiunge mai lo 0,6% del PIL.
Infine il totale ha un andamento stazionario attorno alla sua media dell’1% circa, e le cui oscillazioni sono influenzate da quelle degli investimenti, con cui condivide il massimo, e le elevate osservazioni immediatamente successive, in cui raggiunge l’1,49% del PIL.
C’è da sottolineare che non si tratta di spesa aggiuntiva, come ha denunciato più volte la Corte dei Conti.3 Per tutta la loro esistenza, la Cassa prima e l’Agensud poi sono stati gli unici enti ad erogare fondi atti allo sviluppo del Mezzogiorno, in assenza di una politica ordinaria di spesa di cui lo Stato avrebbe dovuto farsi carico, in aggiunta e in completa indipendenza da questi enti. [12]
Per avere un’idea dell’effettiva magnitudo di quanto investito è doveroso citare un articolo di Pasquale Saraceno, relativo alla prima fase di preindustrializzazione:

Da tempo si è […] mostrato che il valore economico della protezione consentita dagli incentivi è inferiore a quello della protezione doganale al cui riparo è sorta l’industria delle regioni nord-occidentali del Paese. E notisi che quella industria ha fruito di altri benefici: i profitti straordinari consentiti dalle commesse belliche conseguenti alle due grandi guerre e poi il pratico annullamento dei debiti delle imprese reso possibile dalle due inflazioni postbelliche. E ciò non è neppure bastato: per il sostegno del sistema industriale che si andava formando sono infatti occorsi anche i ripetuti salvataggi industriali effettuati nel ventennio tra le due guerre, un tipo di intervento che è poi continuato anche dopo l’ultima guerra, con un ritmo e per entità che non trovano esempi nel resto del mondo occidentale. A fronte di questa vicenda si collocano i 1.100 miliardi, in lire 1972, di contributi in conto capitale impegnati e ancora in parte non erogati all’industria meridionale a tutto il 1974. Si tratta di un importo probabilmente minore dei sopraprofitti di una sola delle due guerre conseguiti dalle industrie del triangolo; lo stesso può dirsi per ciascuna delle due inflazioni belliche di cui hanno beneficiato gli investitori in impianti industriali del tempo che, come era normale, si fossero largamente finanziati con prestiti bancari. Non vi è modo ovviamente di procedere a valutazioni anche approssimate di tali benefici. Questa possibilità esiste però nei riguardi dei salvataggi bancari: la perdita assunta dallo Stato a seguito dei salvataggi bancari effettuati dopo la prima guerra mondiale fino all’operazione di risanamento effettuata dall’IRI nel 1934 è stata valutata in 10,5 miliardi del tempo, importo che si può far corrispondere a 1.400 miliardi del 1972. I contributi in conto capitale dati all’industria meridionale durante tutto l’intervento straordinario, ammontanti come detto sopra a 1.100 miliardi, sono dunque inferiori al costo dei soli salvataggi bancari, un costo, notisi, sopportato da una economia italiana certo molto più povera di quella odierna.” [13]
Pur non potendo stimare le quantità, di certo non è stato solo il Mezzogiorno ad usufruire dell’intervento pubblico per l’industrializzazione.4 L’area del Nord Ovest fu, fino agli anni ‘60 del secolo scorso, l’unica in cui ci fosse una notevole presenza del settore secondario. Per questo motivo fu l’unica area che poté godere di tutte le politiche di incentivi e protezione doganale. E di certo gli interventi a favore dell’industria padana non cessarono con l’avvio della politica di intervento del Mezzogiorno. Per poterlo affermare serenamente è sufficiente contare tutte le volte in cui si è evitato il fallimento della FIAT.

6 - Fu un intervento di programmazione dall’alto.

Si distingue, all’interno delle politiche di sviluppo, lo sviluppo dall’alto e lo sviluppo dal basso, il primo realizzato attraverso politiche standardizzate e controllate da organismi centrali, l’altro, invece, realizzato attraverso politiche di incentivi generalizzati atti a favorire la natalità e la competitività delle imprese locali. [3]
Durante i quarant’anni dell’intervento straordinario si sono alternate fasi di sviluppo dall’alto e dal basso [3]:

  • La fase di preindustrializzazione è stata una politica di sviluppo dall’alto, essendo stata realizzata attraverso una serie di investimenti stabiliti dalla Cassa;
  • La fase degli incentivi è stata una politica di sviluppo dal basso;
  • La fase dell’industrializzazione esterna è stata una politica di sviluppo dall’alto, in quanto le scelte relative alla localizzazione delle imprese pubbliche erano prese a livello centrale;
  • La fase di sviluppo assistito è stata una politica di sviluppo dal basso.
Il ritorno allo sviluppo dall’alto nella terza fase dell’intervento, non fu legato al fallimento della politica dello sviluppo dal basso, piuttosto alla pressione esercitata dalla classe imprenditoriale del Nord per limitare lo sviluppo del Mezzogiorno:

Che gli industriali del Nord favorissero […] lo sviluppo dall’alto è […] chiaro solo se si consideri che lo sviluppo dall’alto favorisce le grandi imprese e che le grandi imprese settentrionali hanno interesse […] che al Sud non cresca un tessuto ricco di imprese industriali che faccia ad esse concorrenza; e hanno interesse, pertanto, che siano esse a «conquistare» i mercati del Sud, e non siano invece le imprese meridionali a sottrarre ad esse mercati.” [3]
Lo sviluppo dall’alto, inoltre, è una politica di intervento che richiede un notevole intervento discrezionale da parte dell’amministrazione pubblica. È stato infatti proprio nelle due fasi dello sviluppo dall’alto, in particolare quella dell’industrializzazione esterna, che si sono verificate tutte le inefficienze legate all’ingerenza della classe politica nella politica industriale, quali la creazione di clientele e di favoritismi elettorali. Ciò garantì il consenso di questo tipo di intervento anche da parte degli esponenti politici locali, in una logica di convenienza personale e di classe a scapito dell’interesse pubblico. Grazie all’accordo tra la classe industriale del Nord e la classe politica del Mezzogiorno, l’intervento straordinario divenne uno strumento di consenso politico piuttosto che di sviluppo delle aree depresse. [3]

7 - Ha apportato maggior crescita economica al Nord che al Sud.

Il condizionamento della classe imprenditoriale del Nord delle scelte di intervento per lo sviluppo del Mezzogiorno ha comportato una distorsione della natura dello stesso tale da apportare, nel lungo periodo, maggiori vantaggi al Nord rispetto al Sud.
La SVIMEZ, già nelle stime preliminari relative alla fase di preindustrializzazione, aveva previsto che gli effetti dell’intervento, così come definiti, sarebbero stati maggiormente favorevoli per il Nord.

La Svimez, applicando la teoria del moltiplicatore agli investimenti previsti per il primo biennio, era giunta alla conclusione che la spesa della Cassa avrebbe generato una domanda di beni di investimento e di consumo pari al 69% del suo ammontare; sarebbe avvenuta la localizzazione al Nord del 55% dei consumi, del 118% dei risparmi, del 51% dei tributi (indiceSud=100). L’incremento del reddito sarebbe stato più alto al Sud solo nel primo ciclo, mentre già al quinto ciclo sarebbe stato più alto al Nord” [11]
Questa fase che, come riportato in precedenza, ha determinato la creazione di un mercato di consumo nel Mezzogiorno il quale, unito alla emigrazione di massa, legata sostanzialmente allo spopolamento delle zone rurali, fece da traino al “miracolo economico5 verificatosi nel Centro - Nord nel decennio successivo. [14] Le politiche della prima fase di intervento, infatti, furono collocate nell’ottica dell’urbanizzazione dell’area e dell’abbandono delle campagne al fine di colmare lo squilibrio esistente nel mercato del lavoro. E poco importava la totale assenza di industrie nei centri urbani. Il fine dell’intervento era il raggiungimento della piena occupazione, che si poteva realizzare in entrambe le aree che formavano l’economia dualistica attraverso l’emigrazione di massa. [15] Pur non volendo enfatizzarne il ruolo si può affermare che il vero miracolo del Nord sia stato l’istituzione della Cassa.
Ma non è tutto. Le opere pubbliche, piccole o grandi che siano, devono essere realizzate da imprese private. E di certo le opere di preindustrializzazione del Mezzogiorno non erano realizzabili da imprese locali, semplicemente perché esse non esistevano.
Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, quindi, rappresentarono una ghiotta occasione di crescita per le imprese del Nord le quali, oltretutto, ebbero la possibilità di ottenere i finanziamenti senza gara d’appalto e di essere esonerate dall’obbligo di spendere l’intero importo erogato per la realizzazione dell’opera. [14] L’eccesso di discrezionalità da parte della Pubblica Amministrazione, a queste condizioni, appare evidente. Esse avevano la possibilità di scegliere arbitrariamente l’importo da erogare, le imprese appaltatrici e la localizzazione delle infrastrutture. Ciò ha comportato la nascita di opere inutili, quando completate, a costi abnormi e localizzate in ragione di convenienza politica.
Relativamente agli incentivi, nel seguente grafico sono riportati i valori medi per regione della ripartizione negli anni dal 1953 al 1970.

Incentivi. Valori medi per anno e regione. Anni 1953 - 1970. Elaborazione mia. [16]

Dal grafico è possibile notare un aumento nel tempo dell’erogazione degli incentivi per tutte le ripartizioni, ma, in tutti gli intervalli di tempo considerati, le imprese situate nel Nord - Ovest ne hanno usufruito in misura maggiore rispetto al resto del Paese.
In particolare nel primo periodo gli incentivi erogati mediamente in questa ripartizione furono in misura più che doppia rispetto alle altre ripartizioni. Nel secondo periodo, che indica il passaggio dalla prima alla seconda fase dell’intervento straordinario, ci fu un livellamento delle proporzioni degli incentivi nelle varie ripartizioni. Nel terzo intervallo di tempo considerato, infine, ci fu un nuovo dislivello a favore del Nord - Ovest e del Mezzogiorno, anche se in misura minore per quest’ultimo.
Quindi, anche sotto questo aspetto, è l’area del Nord - Ovest ad aver usufruito maggiormente delle politiche di intervento pubblico a favore dello sviluppo. Infatti nonostante nel Mezzogiorno si applicarono tassi di interesse agevolati, le imprese dell’area godettero di una quantità modesta di incentivi.6 Ciò era dovuto sostanzialmente alla delega alla Cassa di tutte le politiche di intervento, che permise all’amministrazione centrale di occuparsi quasi esclusivamente delle altre ripartizioni. [16]

Riferimenti:

[12] Soriero, G., “È stato giusto chiudere l’intervento straordinario? Alcune riflessioni sul dibattito parlamentare e culturale.”, in “Nord e Sud a 150 anni dall’Unità di Italia”, SVIMEZ, Roma, Marzo 2012.
[13] Saraceno, P., “È ancora valida la concezione del meridionalismo apparso nell’ultimo dopoguerra?”, in “Rivista Apulia, numero III - 75”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Luglio 1975.
[14] Redazione, “60 anni fa nasceva la CasMez un provvedimento proSud che ha fatto straricco il Nord.”, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 Agosto 2010.
[15] Vita, C., “I modelli dualistici di sviluppo e il dibattito sul Mezzogiorno.”, in Realfonzo, R., Vita, C., “Sviluppo dualistico e Mezzogiorni d’Europa.”, Franco. Angeli, Milano 2006.
[16] Spadavecchia, A., “Regional and national industrial policies in Italy, 1950s – 1993. Where did the subsidies flow?”, in “University of Reading Working Paper No. 48. Sutcliffe, B.”, 2004.

3 Nella “Relazione sul Rendiconto generale dello Stato” del 1992 la Corte dei Conti fa notare di averlo già denunciato in precedenza.
4 Spesso si asserisce che la quota di investimenti destinata al Centro - Nord nel periodo dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno sia stata in media del 35% del PIL. Devo ammettere che non mi convince. Sebbene sia vero che in quel periodo si sia fatto un ampio ricorso all’indebitamento, ciò equivale ad affermare che la quasi totalità del gettito fiscale sia stata utilizzata per le spese in conto capitale.
Per gli anni dal 1996 al 2009 le spese in conto capitale sono state contabilizzate dal Dipartimento del Tesoro per adempiere ad obblighi a livello europeo. Da esse risulta che la spesa per investimenti e incentivi è stata in media del 2,78% del PIL nel Centro - Nord e dell’1,13% del PIL nel Mezzogiorno. In proporzione la spesa è stata del 29% nel Mezzogiorno e del 71% nel Centro - Nord. Volendo mantenere le stesse proporzioni per il periodo dell’intervento straordinario, si può assumere che nel Centro - Nord la spesa sia stata in media del 2,5% del PIL.
La quota del 35% è più probabilmente relativa agli investimenti fissi lordi, ovvero gli investimenti privati che concorrono alla formazione del PIL.
5 A proposito, sapevate che l’espressione “miracolo economico” fu coniata da una giornalista di The Economist che trovò lo sviluppo del Centro - Nord inspiegabile?
6 In media, nel periodo dal 1953 al 1970, la proporzione di incentivi sul totale per il Mezzogiorno fu del 30,5%. Una quota maggiore rispetto al Nord Est e al Centro, ma inferiore al peso demografico dell’area, intorno al 35%.
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A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso. Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati. L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.

Questa è la seconda delle tre parti in cui è diviso l’articolo.

La prima parte, è disponibile al seguente link: I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte prima.

5 - Quanto è stato stanziato?

148.243,132 miliardi di Lire correnti o 340.271,765 milioni di Euro a prezzi concatenati al 2008 dal 1951 al 1993, comprensivi degli sgravi contributivi. [12] Ma scritto così significa ben poco. Facendo riferimento alle quantità effettivamente erogate ogni anno è possibile calcolarne l’incidenza sul PIL, riportate nel seguente grafico.

Incidenza sul PIL dell’intervento straordinario. Anni 1951 - 1993. Elaborazione mia. [12]

Come precedentemente scritto, la prima fase di intervento riguardava solo gli investimenti diretti nel Mezzogiorno, quindi sono gli unici ad essere considerati fino al 1967. Come si può notare gli investimenti superano l’1% del PIL solo in un anno, il 1975 (1,23%), anno in cui anche la spesa totale per l’intervento straordinario raggiunge il massimo, con l’1,73% del PIL. Nei due anni successivi la spesa per investimenti sfiora l’1%, così come nel 1954. L’andamento della serie appare stazionario attorno alla sua media dello 0,73% circa.
La spesa per gli sgravi fiscali ha invece un andamento crescente, partendo dalla mastodontica cifra dello 0,01% del PIL erogata nel 1968, ma che non raggiunge mai lo 0,6% del PIL.
Infine il totale ha un andamento stazionario attorno alla sua media dell’1% circa, e le cui oscillazioni sono influenzate da quelle degli investimenti, con cui condivide il massimo, e le elevate osservazioni immediatamente successive, in cui raggiunge l’1,49% del PIL.
C’è da sottolineare che non si tratta di spesa aggiuntiva, come ha denunciato più volte la Corte dei Conti.3 Per tutta la loro esistenza, la Cassa prima e l’Agensud poi sono stati gli unici enti ad erogare fondi atti allo sviluppo del Mezzogiorno, in assenza di una politica ordinaria di spesa di cui lo Stato avrebbe dovuto farsi carico, in aggiunta e in completa indipendenza da questi enti. [12]
Per avere un’idea dell’effettiva magnitudo di quanto investito è doveroso citare un articolo di Pasquale Saraceno, relativo alla prima fase di preindustrializzazione:

Da tempo si è […] mostrato che il valore economico della protezione consentita dagli incentivi è inferiore a quello della protezione doganale al cui riparo è sorta l’industria delle regioni nord-occidentali del Paese. E notisi che quella industria ha fruito di altri benefici: i profitti straordinari consentiti dalle commesse belliche conseguenti alle due grandi guerre e poi il pratico annullamento dei debiti delle imprese reso possibile dalle due inflazioni postbelliche. E ciò non è neppure bastato: per il sostegno del sistema industriale che si andava formando sono infatti occorsi anche i ripetuti salvataggi industriali effettuati nel ventennio tra le due guerre, un tipo di intervento che è poi continuato anche dopo l’ultima guerra, con un ritmo e per entità che non trovano esempi nel resto del mondo occidentale. A fronte di questa vicenda si collocano i 1.100 miliardi, in lire 1972, di contributi in conto capitale impegnati e ancora in parte non erogati all’industria meridionale a tutto il 1974. Si tratta di un importo probabilmente minore dei sopraprofitti di una sola delle due guerre conseguiti dalle industrie del triangolo; lo stesso può dirsi per ciascuna delle due inflazioni belliche di cui hanno beneficiato gli investitori in impianti industriali del tempo che, come era normale, si fossero largamente finanziati con prestiti bancari. Non vi è modo ovviamente di procedere a valutazioni anche approssimate di tali benefici. Questa possibilità esiste però nei riguardi dei salvataggi bancari: la perdita assunta dallo Stato a seguito dei salvataggi bancari effettuati dopo la prima guerra mondiale fino all’operazione di risanamento effettuata dall’IRI nel 1934 è stata valutata in 10,5 miliardi del tempo, importo che si può far corrispondere a 1.400 miliardi del 1972. I contributi in conto capitale dati all’industria meridionale durante tutto l’intervento straordinario, ammontanti come detto sopra a 1.100 miliardi, sono dunque inferiori al costo dei soli salvataggi bancari, un costo, notisi, sopportato da una economia italiana certo molto più povera di quella odierna.” [13]
Pur non potendo stimare le quantità, di certo non è stato solo il Mezzogiorno ad usufruire dell’intervento pubblico per l’industrializzazione.4 L’area del Nord Ovest fu, fino agli anni ‘60 del secolo scorso, l’unica in cui ci fosse una notevole presenza del settore secondario. Per questo motivo fu l’unica area che poté godere di tutte le politiche di incentivi e protezione doganale. E di certo gli interventi a favore dell’industria padana non cessarono con l’avvio della politica di intervento del Mezzogiorno. Per poterlo affermare serenamente è sufficiente contare tutte le volte in cui si è evitato il fallimento della FIAT.

6 - Fu un intervento di programmazione dall’alto.

Si distingue, all’interno delle politiche di sviluppo, lo sviluppo dall’alto e lo sviluppo dal basso, il primo realizzato attraverso politiche standardizzate e controllate da organismi centrali, l’altro, invece, realizzato attraverso politiche di incentivi generalizzati atti a favorire la natalità e la competitività delle imprese locali. [3]
Durante i quarant’anni dell’intervento straordinario si sono alternate fasi di sviluppo dall’alto e dal basso [3]:

  • La fase di preindustrializzazione è stata una politica di sviluppo dall’alto, essendo stata realizzata attraverso una serie di investimenti stabiliti dalla Cassa;
  • La fase degli incentivi è stata una politica di sviluppo dal basso;
  • La fase dell’industrializzazione esterna è stata una politica di sviluppo dall’alto, in quanto le scelte relative alla localizzazione delle imprese pubbliche erano prese a livello centrale;
  • La fase di sviluppo assistito è stata una politica di sviluppo dal basso.
Il ritorno allo sviluppo dall’alto nella terza fase dell’intervento, non fu legato al fallimento della politica dello sviluppo dal basso, piuttosto alla pressione esercitata dalla classe imprenditoriale del Nord per limitare lo sviluppo del Mezzogiorno:

Che gli industriali del Nord favorissero […] lo sviluppo dall’alto è […] chiaro solo se si consideri che lo sviluppo dall’alto favorisce le grandi imprese e che le grandi imprese settentrionali hanno interesse […] che al Sud non cresca un tessuto ricco di imprese industriali che faccia ad esse concorrenza; e hanno interesse, pertanto, che siano esse a «conquistare» i mercati del Sud, e non siano invece le imprese meridionali a sottrarre ad esse mercati.” [3]
Lo sviluppo dall’alto, inoltre, è una politica di intervento che richiede un notevole intervento discrezionale da parte dell’amministrazione pubblica. È stato infatti proprio nelle due fasi dello sviluppo dall’alto, in particolare quella dell’industrializzazione esterna, che si sono verificate tutte le inefficienze legate all’ingerenza della classe politica nella politica industriale, quali la creazione di clientele e di favoritismi elettorali. Ciò garantì il consenso di questo tipo di intervento anche da parte degli esponenti politici locali, in una logica di convenienza personale e di classe a scapito dell’interesse pubblico. Grazie all’accordo tra la classe industriale del Nord e la classe politica del Mezzogiorno, l’intervento straordinario divenne uno strumento di consenso politico piuttosto che di sviluppo delle aree depresse. [3]

7 - Ha apportato maggior crescita economica al Nord che al Sud.

Il condizionamento della classe imprenditoriale del Nord delle scelte di intervento per lo sviluppo del Mezzogiorno ha comportato una distorsione della natura dello stesso tale da apportare, nel lungo periodo, maggiori vantaggi al Nord rispetto al Sud.
La SVIMEZ, già nelle stime preliminari relative alla fase di preindustrializzazione, aveva previsto che gli effetti dell’intervento, così come definiti, sarebbero stati maggiormente favorevoli per il Nord.

La Svimez, applicando la teoria del moltiplicatore agli investimenti previsti per il primo biennio, era giunta alla conclusione che la spesa della Cassa avrebbe generato una domanda di beni di investimento e di consumo pari al 69% del suo ammontare; sarebbe avvenuta la localizzazione al Nord del 55% dei consumi, del 118% dei risparmi, del 51% dei tributi (indiceSud=100). L’incremento del reddito sarebbe stato più alto al Sud solo nel primo ciclo, mentre già al quinto ciclo sarebbe stato più alto al Nord” [11]
Questa fase che, come riportato in precedenza, ha determinato la creazione di un mercato di consumo nel Mezzogiorno il quale, unito alla emigrazione di massa, legata sostanzialmente allo spopolamento delle zone rurali, fece da traino al “miracolo economico5 verificatosi nel Centro - Nord nel decennio successivo. [14] Le politiche della prima fase di intervento, infatti, furono collocate nell’ottica dell’urbanizzazione dell’area e dell’abbandono delle campagne al fine di colmare lo squilibrio esistente nel mercato del lavoro. E poco importava la totale assenza di industrie nei centri urbani. Il fine dell’intervento era il raggiungimento della piena occupazione, che si poteva realizzare in entrambe le aree che formavano l’economia dualistica attraverso l’emigrazione di massa. [15] Pur non volendo enfatizzarne il ruolo si può affermare che il vero miracolo del Nord sia stato l’istituzione della Cassa.
Ma non è tutto. Le opere pubbliche, piccole o grandi che siano, devono essere realizzate da imprese private. E di certo le opere di preindustrializzazione del Mezzogiorno non erano realizzabili da imprese locali, semplicemente perché esse non esistevano.
Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, quindi, rappresentarono una ghiotta occasione di crescita per le imprese del Nord le quali, oltretutto, ebbero la possibilità di ottenere i finanziamenti senza gara d’appalto e di essere esonerate dall’obbligo di spendere l’intero importo erogato per la realizzazione dell’opera. [14] L’eccesso di discrezionalità da parte della Pubblica Amministrazione, a queste condizioni, appare evidente. Esse avevano la possibilità di scegliere arbitrariamente l’importo da erogare, le imprese appaltatrici e la localizzazione delle infrastrutture. Ciò ha comportato la nascita di opere inutili, quando completate, a costi abnormi e localizzate in ragione di convenienza politica.
Relativamente agli incentivi, nel seguente grafico sono riportati i valori medi per regione della ripartizione negli anni dal 1953 al 1970.

Incentivi. Valori medi per anno e regione. Anni 1953 - 1970. Elaborazione mia. [16]

Dal grafico è possibile notare un aumento nel tempo dell’erogazione degli incentivi per tutte le ripartizioni, ma, in tutti gli intervalli di tempo considerati, le imprese situate nel Nord - Ovest ne hanno usufruito in misura maggiore rispetto al resto del Paese.
In particolare nel primo periodo gli incentivi erogati mediamente in questa ripartizione furono in misura più che doppia rispetto alle altre ripartizioni. Nel secondo periodo, che indica il passaggio dalla prima alla seconda fase dell’intervento straordinario, ci fu un livellamento delle proporzioni degli incentivi nelle varie ripartizioni. Nel terzo intervallo di tempo considerato, infine, ci fu un nuovo dislivello a favore del Nord - Ovest e del Mezzogiorno, anche se in misura minore per quest’ultimo.
Quindi, anche sotto questo aspetto, è l’area del Nord - Ovest ad aver usufruito maggiormente delle politiche di intervento pubblico a favore dello sviluppo. Infatti nonostante nel Mezzogiorno si applicarono tassi di interesse agevolati, le imprese dell’area godettero di una quantità modesta di incentivi.6 Ciò era dovuto sostanzialmente alla delega alla Cassa di tutte le politiche di intervento, che permise all’amministrazione centrale di occuparsi quasi esclusivamente delle altre ripartizioni. [16]

Riferimenti:

[12] Soriero, G., “È stato giusto chiudere l’intervento straordinario? Alcune riflessioni sul dibattito parlamentare e culturale.”, in “Nord e Sud a 150 anni dall’Unità di Italia”, SVIMEZ, Roma, Marzo 2012.
[13] Saraceno, P., “È ancora valida la concezione del meridionalismo apparso nell’ultimo dopoguerra?”, in “Rivista Apulia, numero III - 75”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Luglio 1975.
[14] Redazione, “60 anni fa nasceva la CasMez un provvedimento proSud che ha fatto straricco il Nord.”, su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 Agosto 2010.
[15] Vita, C., “I modelli dualistici di sviluppo e il dibattito sul Mezzogiorno.”, in Realfonzo, R., Vita, C., “Sviluppo dualistico e Mezzogiorni d’Europa.”, Franco. Angeli, Milano 2006.
[16] Spadavecchia, A., “Regional and national industrial policies in Italy, 1950s – 1993. Where did the subsidies flow?”, in “University of Reading Working Paper No. 48. Sutcliffe, B.”, 2004.

3 Nella “Relazione sul Rendiconto generale dello Stato” del 1992 la Corte dei Conti fa notare di averlo già denunciato in precedenza.
4 Spesso si asserisce che la quota di investimenti destinata al Centro - Nord nel periodo dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno sia stata in media del 35% del PIL. Devo ammettere che non mi convince. Sebbene sia vero che in quel periodo si sia fatto un ampio ricorso all’indebitamento, ciò equivale ad affermare che la quasi totalità del gettito fiscale sia stata utilizzata per le spese in conto capitale.
Per gli anni dal 1996 al 2009 le spese in conto capitale sono state contabilizzate dal Dipartimento del Tesoro per adempiere ad obblighi a livello europeo. Da esse risulta che la spesa per investimenti e incentivi è stata in media del 2,78% del PIL nel Centro - Nord e dell’1,13% del PIL nel Mezzogiorno. In proporzione la spesa è stata del 29% nel Mezzogiorno e del 71% nel Centro - Nord. Volendo mantenere le stesse proporzioni per il periodo dell’intervento straordinario, si può assumere che nel Centro - Nord la spesa sia stata in media del 2,5% del PIL.
La quota del 35% è più probabilmente relativa agli investimenti fissi lordi, ovvero gli investimenti privati che concorrono alla formazione del PIL.
5 A proposito, sapevate che l’espressione “miracolo economico” fu coniata da una giornalista di The Economist che trovò lo sviluppo del Centro - Nord inspiegabile?
6 In media, nel periodo dal 1953 al 1970, la proporzione di incentivi sul totale per il Mezzogiorno fu del 30,5%. Una quota maggiore rispetto al Nord Est e al Centro, ma inferiore al peso demografico dell’area, intorno al 35%.

domenica 24 giugno 2012

I dieci punti sull’intervento straordinario che non avevate mai osato chiedere. Parte prima.

A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.

Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.1
Esso è suddiviso in dieci punti ed è riportato in tre parti per semplificarne la lettura.

1. Determina il punto di rottura tra il meridionalismo classico e il nuovo meridionalismo:

Si definisce nuovo meridionalismo la corrente di pensiero nata nel dopoguerra e si distingue dal pensiero meridionalista fino ad allora adottato e definito classico perché ha introdotto l’importanza del coinvolgimento delle classi dirigenti del Nord allo sviluppo del Sud. In altri termini, secondo la nuova corrente, la convergenza economica delle due aree non può prescindere dalla convergenza politica.

Nel meridionalismo classico sono identificabili fondamentalmente due posizioni; secondo la prima il meccanismo di mercato porterà al superamento della situazione di dualismo e l’azione pubblica potrà facilitare quel superamento, senza che occorra far ricorso a misure che non siano proprie di quel meccanismo. L’altra posizione ha come presupposto che sia di importanza pregiudiziale, per il progresso del nostro Paese, un mutamento radicale o addirittura rivoluzionario degli equilibri politici e dell’ordinamento dello Stato; in un quadro profondamente mutato, i problemi del Paese, inclusa tra essi la questione meridionale, si sarebbero presentati in termini ovviamente del tutto nuovi e in quei termini essi sarebbero stati affrontati. Sembra evidente che le due opposte posizioni hanno come comune caratteristica un limitato interesse per l’identificazione di processi che, una volta avviati nel sistema di rapporti esistente, concorressero alla unificazione economica e sociale del Paese.” [1]
Il nuovo meridionalismo si pone in linea con due filoni di pensiero che hanno caratterizzato gli anni del dopoguerra e in contrapposizione con gli studi finora presentati sulla questione meridionale: il primo è il modello economico keynesiano, che prevedeva un intenso intervento pubblico per lo sviluppo, l’altro è il sistema politico bipolare, che ha portato alla creazione delle sfere di influenza e che ha condizionato il ripristino dei confini precedenti al 1943 onde evitare l’isolamento degli stati italici che altrimenti sarebbe avvenuto.
Il pensiero neomeridionalista fu sintetizzato da Pasquale Saraceno in due proposizioni: secondo la prima la questione meridionale era una questione nazionale e lo stato italiano non poteva esimersi dalla sua risoluzione, secondo l’altra la condizione necessaria, ma non sufficiente, per il superamento della questione meridionale era l’industrializzazione del Mezzogiorno. Ne conseguiva che lo stato italiano avrebbe dovuto farsi carico dell’industrializzazione del Mezzogiorno per garantire la sua stessa sopravvivenza. [2]
È l’incontro tra queste due correnti che permise la definizione dell’intervento straordinario. Esso, infatti, fu presentato come uno strumento di politica economica finalizzato all’intensificazione e modernizzazione del settore agricolo, alla nascita del settore industriale e allo stimolo di una domanda che potesse far fronte all’offerta così creatasi.

2. È stato realizzato attraverso quattro fasi distinte:

I quarant’anni dell’intervento straordinario possono essere approssimativamente essere suddivisi in quattro fasi: [3]
  • La prima fase, relativa all’istituzione della Cassa e allo Schema Vanoni, che ha previsto sostanzialmente gli investimenti per la preindustrializzazione delle aree depresse;
  • La seconda fase, cominciata alla fine della programmazione prevista dallo Schema Vanoni e finita negli anni ‘70, che ha previsto un notevole aumento degli incentivi per l’industrializzazione delle aree depresse;
  • La terza fase, dell’industrializzazione esterna, caratteristica degli anni ‘70 e ‘80, che ha previsto la nascita di insediamenti industriali “programmati” nell’area. Si tratta della politica dei poli di sviluppo.
  • La quarta fase, dello sviluppo assistito, istituita nella metà degli anni ‘70 fino alla chiusura dell’intervento straordinario, limitata al sostegno dei redditi delle famiglie.
L’intervento straordinario è stato legato principalmente due organismi “centrali”. Il primo è la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, un ente pubblico con sede a Roma con lo scopo di coordinare la gestione delle risorse finalizzate allo sviluppo, l’altro è Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), privata senza fini di lucro, con sede a Roma e con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Il primo intervento pubblico gestito dalla Cassa fu lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955 - 1964, noto anche come Schema Vanoni, redatto dalla SVIMEZ e che ha introdotto per la prima volta la necessità di un intervento programmatico di sviluppo. In particolare, esso era basato sull’idea che:
Lo squilibrio Nord - Sud veniva a costituire una delle principali manifestazioni di inefficienza del sistema economico italiano.” [4]
E gli investimenti, così come predisposti fino ad allora, rappresentavano un’inefficienza dell’intervento pubblico, che dovevano essere ridefiniti in un’ottica di industrializzazione del Mezzogiorno, ripartendo la spesa per la creazione di un’economia autopropulsiva nella misura del 48% al Sud e del 52% al Nord.
La novità introdotta dallo schema Vanoni fu sostanzialmente quella di considerare il Mezzogiorno in un’ottica sistemica rispetto allo stato italiano, abbandonando quell’idea di indipendenza della questione meridionale dagli obiettivi di politica economica dello stato italiano che ha caratterizzato gli interventi fino ad allora. [5]
Lo Schema Vanoni si è posto come obiettivo quello di indirizzare la spesa pubblica all’incremento della quota dei redditi privati destinata al risparmio e all’investimento piuttosto che al consumo per un periodo medio - lungo, indicato nello schema stesso in dieci anni [6]. I limiti di questo approccio risultarono evidenti dal punto di vista del pensiero neomeridionalista, secondo cui esso appariva come un mero esercizio macroeconomico che non poteva essere d’aiuto all’industrializzazione dell’area. [6]

Per questa ragione si è ritenuto necessario intervenire direttamente nel processo di industrializzazione, attraverso politiche di incentivi prima e la localizzazione di imprese pubbliche poi al fine di stimolare la nascita di distretti industriali formati da piccole e medie imprese.
Gli incentivi avevano sostanzialmente lo scopo di proteggere le imprese meridionali dall’invasione delle imprese del Centro - Nord che operavano in condizioni vantaggiose rispetto ad esse, i poli di sviluppo invece di sollecitare la nascita di sistemi distrettuali di piccole imprese. [6]
La crisi di questa fase di intervento si fece sentire presto: le ragioni del fallimento della politica di industrializzazione esterna erano sostanzialmente legate a scelte di investimento sbagliate. Sono state privilegiate grandi imprese ad alta intensità di capitale, che non hanno attenuato il problema della disoccupazione e il relativo fenomeno migratorio nell’area, con impianti spesso sottodimensionati e localizzati più in funzione di convenienza politica che di effettive opportunità di sviluppo. [7] A ciò bisogna aggiungere che gran parte delle imprese che si insediarono nel Mezzogiorno mantennero i rapporti con le case madri ed erano di fatto gestite da esse. Ciò ha impedito la creazione di un adeguato capitale umano nel Mezzogiorno e la gestione dei poli avveniva privilegiando gli interessi dell’area di origine. [7]

La crisi dei poli di sviluppo è stata poi accentuata dallo choc petrolifero, dal malcontento della gestione delle risorse pubbliche e dall’istituzione delle regioni a statuto ordinario che hanno portato, nel 1984, alla chiusura della Cassa, sostituita due anni dopo dall’Agenzia della promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (Agensud), con il compito di erogare incentivi ed approvare piani di investimento proposti dai neonati enti locali. [8] L’istituzione dell’Agensud aveva infatti lo scopo di affidare a livello locale il compito di promuovere lo sviluppo, attraverso una programmazione specifica per ogni singola regione.
In realtà questa fase dell’intervento straordinario ha messo in luce le difficoltà di comunicazione tra le istituzioni di diverso livello: le regioni si dimostrarono incapaci di gestire le risorse straordinarie a disposizione né fu data loro la possibilità di partecipare davvero alla programmazione, rimasta nelle mani dell’amministrazione centrale. [8]
Di conseguenza, le politiche attuate in quest’ultima fase di intervento furono sostanzialmente di sostegno dei redditi delle famiglie. [3]
L’intervento straordinario venne chiuso nel 1992, a causa principalmente delle politiche di revisione dei conti pubblici richieste per l’ingresso nel mercato unico europeo. La chiusura dell’intervento straordinario ha determinato una notevole riduzione della spesa pubblica nell’area che ha inevitabilmente causato la contrazione dei redditi delle famiglie, essendo venuto meno il sostegno su cui fino ad allora avevano contato. [9]

3. È stato possibile grazie all’appoggio degli organismi internazionali:

L’intervento straordinario è stato in larga parte ispirato alla New Deal, applicata negli Stati Uniti per far fronte alla grande depressione del 1929. In particolare la Cassa ricorda la Tennessee Valley Authority voluta da Roosvelt per incentivare lo sviluppo della valle del Tennesse. L’idea di fondo in entrambi i casi è stata la creazione di un unico ente che coordinasse sia gli interventi di modernizzazione del settore agricolo che quelli di sviluppo industriale atti a stimolare la crescita economica delle aree in forte ritardo con lo sviluppo. In Italia ci fu comunque una precedente esperienza di questo tipo tramite la costituzione dell’IRI. [10]
Per la realizzazione della prima fase dell’intervento, inoltre, ci fu il coinvolgimento della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), con un duplice scopo: il primo era quello di assicurarsi la creazione di un piano di sviluppo preciso ed efficace, l’altro era il consolidamento dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. [11]
L’intervento della BIRS fu visto in un’ottica di prolungamento del Piano Marshall limitatamente alle aree in ritardo con lo sviluppo e, tramite precedenti accordi con la SVIMEZ, esso si realizzò, oltre che con il finanziamento delle singole opere realizzate, con la messa in circolazione di dollari a supporto della crescita dei consumi e delle importazioni di materie prime. Ciò permise all’Italia anche di poter essere competitiva nelle esportazioni. [11]
Dal canto suo, la BIRS trovò conveniente poter prendere parte alle decisioni del più grande e attraente piano di sviluppo regionale del mondo, così come fu definito in uno dei suoi rapporti, pur contribuendo in misura minima al progetto, ovvero per circa un decimo del totale dell’importo da stanziare. [11]

4. È stata un’iniziativa proposta e approvata sia dagli studiosi del nuovo meridionalismo che dalle classi dirigenti del Nord:

La fondazione nel 1946 della SVIMEZ può essere vista come l’incontro tra il neomeridionalismo, rappresentato da Rodolfo Morandi, e le politiche di industrializzazione, rappresentate da Pasquale Saraceno. [11]
La politica della SVIMEZ si opponeva fortemente alla visione padano - centrica adottata dal primo IRI [2]. Nonostante ciò, la nascita dell’associazione non interessò solo gli USA, che intervenne attraverso i finanziamenti del Piano Marshall e la BIRS, ma anche la classe imprenditoriale del Nord, che vide nell’industrializzazione del Mezzogiorno un’opportunità per la modernizzazione dell’economia di tutto il Paese, così come auspicato dagli economisti neomeridionalisti. Alla costituzione della SVIMEZ, infatti, parteciparono anche le grandi imprese del triangolo industriale.

Alla SVIMEZ si associarono immediatamente, oltre alla Banca d’Italia e alle principali banche nazionali, la Confindustria, la Federconsorzi, tutte le imprese IRI e le principali imprese private italiane, tra cui la FIAT, la Montecatini, la Breda, la Pirelli, la Innocenti, la Olivetti, nonché il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, e alcune camere di commercio, consorzi di bonifica, banche e imprese locali.” [11]
Era l’intera economia italiana, infatti, ad essere in seria difficoltà nel dopoguerra. Il Nord, nonostante le migliori condizioni economiche che poteva vantare rispetto al Sud, era notevolmente arretrato rispetto all’Europa occidentale e gli USA. L’economia italiana ristagnava dagli inizi del XX secolo e le prospettive di crescita erano misere senza un’adeguata politica di sviluppo per tutto il Paese. Era quindi la crescita del reddito nazionale il vero obiettivo posto dall’intervento straordinario. [11]
L’intervento straordinario, quindi, divenne un accordo tra la classe imprenditoriale del Nord e gli economisti neomeridionalisti, che diede vita ad un piano di interventi che non ledesse gli interessi dei primi. La classe imprenditoriale del Nord aveva infatti interesse al mantenimento del dualismo che caratterizzava l’economia italiana e auspicava uno sviluppo nel Mezzogiorno che si limitasse al settore terziario, in modo da poter invadere il mercato che si sarebbe venuto a creare con il proprio settore secondario. [3]
Ciò si realizzò attraverso la separazione della fase degli investimenti in infrastrutture da quella dell’industrializzazione ha permesso alle imprese del Nord di insediarsi al Sud.

L’aver creato al Sud prima le infrastrutture e poi le industrie […] ha fatto sì che il processo moltiplicativo alimentato dalla spesa per opere pubbliche al Sud ha favorito l’industrializzazione al Nord, perché la maggior domanda di prodotti industriali dei meridionali dovuta alla spesa pubblica, non avendo trovato un’offerta di prodotti industriali al Sud, è rifluita al Nord, alimentando […] il dualismo.” [3]
Il successivo insediamento delle imprese pubbliche nel Mezzogiorno non è stato sufficiente allo sviluppo dell’area, dato che le neonate imprese locali non riuscirono comunque a reggere la concorrenza delle imprese del Nord.2


Riferimenti:

[1] Saraceno, P., “Il nuovo meridionalismo.”, in “Quaderni del trentennale 1975 - 2005”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005.
[2] Saraceno, P., “Morandi e il nuovo meridionalismo.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 81”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1981.
[3] Jossa, B., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo dall’alto.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[4] Alemanno, C., “Problemi dello sviluppo meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[5] Novacco, N., “Alcune scelte degli anni ’50 per il Mezzogiorno.”, in “Rivista Economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 1 - 2”, Marzo - Giugno 2001.
[6] Pica, F., “Salvatore Cafiero e la «Storia» dell’intervento straordinario.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[7] Cerrito, E., “La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica.”, in “Quaderni di Storia Economica, numero 3.”, Banca d’Italia, Giugno 2011.
[8] Trono, A., “Squilibri regionali in Italia e politiche di intervento pubblico per lo sviluppo dell’occupazione locale.”, in “Anales de Estudios Economicos Y Empresaliares”, Universidad de Valladolid, 1993.
[9] OCSE, “Assessment and Recommendations, in OECD Territorial Reviews – Italy.”, traduzione italiana, Parigi-Roma, Settembre 2001.
[10] Lepore, A., “Cassa per il Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo.”, in “SSRN working papers series”, Gennaio 2012.
[11] D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.

1 Sono ovviamente bene accette domande, suggerimenti, approfondimenti e correzioni.

2 E la situazione, ad oggi, non sembra essere migliorata.
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A cura di Maria Carannante
Fonte: Unblognormale

L’intervento straordinario per lo sviluppo delle aree depresse è stato lo strumento di politica economica di maggior interesse del secolo scorso. Durato quarant’anni e frutto dell’influenza del pensiero economico e delle condizioni socio - economiche non solo italiane, ma anche dell’Europa e degli USA di quel periodo, è di certo oggetto di un acceso dibattito che sembra non essersi ancora concluso.

Cresciuto insieme alla questione meridionale, anche se non è nato con essa, si è radicato nei ricordi attraverso giudizi poco veritieri e poco documentati.
L’articolo tenta di fare luce su alcuni punti più o meno conosciuti in modo rendere più trasparenti finalità, esecuzione ed effetti dell’intervento. L’articolo non si pone obiettivi di esaustività, rimandando a fonti più autorevoli, ma di mettere in discussione alcuni assiomi che sono nati sul tema.1
Esso è suddiviso in dieci punti ed è riportato in tre parti per semplificarne la lettura.

1. Determina il punto di rottura tra il meridionalismo classico e il nuovo meridionalismo:

Si definisce nuovo meridionalismo la corrente di pensiero nata nel dopoguerra e si distingue dal pensiero meridionalista fino ad allora adottato e definito classico perché ha introdotto l’importanza del coinvolgimento delle classi dirigenti del Nord allo sviluppo del Sud. In altri termini, secondo la nuova corrente, la convergenza economica delle due aree non può prescindere dalla convergenza politica.

Nel meridionalismo classico sono identificabili fondamentalmente due posizioni; secondo la prima il meccanismo di mercato porterà al superamento della situazione di dualismo e l’azione pubblica potrà facilitare quel superamento, senza che occorra far ricorso a misure che non siano proprie di quel meccanismo. L’altra posizione ha come presupposto che sia di importanza pregiudiziale, per il progresso del nostro Paese, un mutamento radicale o addirittura rivoluzionario degli equilibri politici e dell’ordinamento dello Stato; in un quadro profondamente mutato, i problemi del Paese, inclusa tra essi la questione meridionale, si sarebbero presentati in termini ovviamente del tutto nuovi e in quei termini essi sarebbero stati affrontati. Sembra evidente che le due opposte posizioni hanno come comune caratteristica un limitato interesse per l’identificazione di processi che, una volta avviati nel sistema di rapporti esistente, concorressero alla unificazione economica e sociale del Paese.” [1]
Il nuovo meridionalismo si pone in linea con due filoni di pensiero che hanno caratterizzato gli anni del dopoguerra e in contrapposizione con gli studi finora presentati sulla questione meridionale: il primo è il modello economico keynesiano, che prevedeva un intenso intervento pubblico per lo sviluppo, l’altro è il sistema politico bipolare, che ha portato alla creazione delle sfere di influenza e che ha condizionato il ripristino dei confini precedenti al 1943 onde evitare l’isolamento degli stati italici che altrimenti sarebbe avvenuto.
Il pensiero neomeridionalista fu sintetizzato da Pasquale Saraceno in due proposizioni: secondo la prima la questione meridionale era una questione nazionale e lo stato italiano non poteva esimersi dalla sua risoluzione, secondo l’altra la condizione necessaria, ma non sufficiente, per il superamento della questione meridionale era l’industrializzazione del Mezzogiorno. Ne conseguiva che lo stato italiano avrebbe dovuto farsi carico dell’industrializzazione del Mezzogiorno per garantire la sua stessa sopravvivenza. [2]
È l’incontro tra queste due correnti che permise la definizione dell’intervento straordinario. Esso, infatti, fu presentato come uno strumento di politica economica finalizzato all’intensificazione e modernizzazione del settore agricolo, alla nascita del settore industriale e allo stimolo di una domanda che potesse far fronte all’offerta così creatasi.

2. È stato realizzato attraverso quattro fasi distinte:

I quarant’anni dell’intervento straordinario possono essere approssimativamente essere suddivisi in quattro fasi: [3]
  • La prima fase, relativa all’istituzione della Cassa e allo Schema Vanoni, che ha previsto sostanzialmente gli investimenti per la preindustrializzazione delle aree depresse;
  • La seconda fase, cominciata alla fine della programmazione prevista dallo Schema Vanoni e finita negli anni ‘70, che ha previsto un notevole aumento degli incentivi per l’industrializzazione delle aree depresse;
  • La terza fase, dell’industrializzazione esterna, caratteristica degli anni ‘70 e ‘80, che ha previsto la nascita di insediamenti industriali “programmati” nell’area. Si tratta della politica dei poli di sviluppo.
  • La quarta fase, dello sviluppo assistito, istituita nella metà degli anni ‘70 fino alla chiusura dell’intervento straordinario, limitata al sostegno dei redditi delle famiglie.
L’intervento straordinario è stato legato principalmente due organismi “centrali”. Il primo è la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia Meridionale, un ente pubblico con sede a Roma con lo scopo di coordinare la gestione delle risorse finalizzate allo sviluppo, l’altro è Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), privata senza fini di lucro, con sede a Roma e con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo nel Mezzogiorno.
Il primo intervento pubblico gestito dalla Cassa fu lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955 - 1964, noto anche come Schema Vanoni, redatto dalla SVIMEZ e che ha introdotto per la prima volta la necessità di un intervento programmatico di sviluppo. In particolare, esso era basato sull’idea che:
Lo squilibrio Nord - Sud veniva a costituire una delle principali manifestazioni di inefficienza del sistema economico italiano.” [4]
E gli investimenti, così come predisposti fino ad allora, rappresentavano un’inefficienza dell’intervento pubblico, che dovevano essere ridefiniti in un’ottica di industrializzazione del Mezzogiorno, ripartendo la spesa per la creazione di un’economia autopropulsiva nella misura del 48% al Sud e del 52% al Nord.
La novità introdotta dallo schema Vanoni fu sostanzialmente quella di considerare il Mezzogiorno in un’ottica sistemica rispetto allo stato italiano, abbandonando quell’idea di indipendenza della questione meridionale dagli obiettivi di politica economica dello stato italiano che ha caratterizzato gli interventi fino ad allora. [5]
Lo Schema Vanoni si è posto come obiettivo quello di indirizzare la spesa pubblica all’incremento della quota dei redditi privati destinata al risparmio e all’investimento piuttosto che al consumo per un periodo medio - lungo, indicato nello schema stesso in dieci anni [6]. I limiti di questo approccio risultarono evidenti dal punto di vista del pensiero neomeridionalista, secondo cui esso appariva come un mero esercizio macroeconomico che non poteva essere d’aiuto all’industrializzazione dell’area. [6]

Per questa ragione si è ritenuto necessario intervenire direttamente nel processo di industrializzazione, attraverso politiche di incentivi prima e la localizzazione di imprese pubbliche poi al fine di stimolare la nascita di distretti industriali formati da piccole e medie imprese.
Gli incentivi avevano sostanzialmente lo scopo di proteggere le imprese meridionali dall’invasione delle imprese del Centro - Nord che operavano in condizioni vantaggiose rispetto ad esse, i poli di sviluppo invece di sollecitare la nascita di sistemi distrettuali di piccole imprese. [6]
La crisi di questa fase di intervento si fece sentire presto: le ragioni del fallimento della politica di industrializzazione esterna erano sostanzialmente legate a scelte di investimento sbagliate. Sono state privilegiate grandi imprese ad alta intensità di capitale, che non hanno attenuato il problema della disoccupazione e il relativo fenomeno migratorio nell’area, con impianti spesso sottodimensionati e localizzati più in funzione di convenienza politica che di effettive opportunità di sviluppo. [7] A ciò bisogna aggiungere che gran parte delle imprese che si insediarono nel Mezzogiorno mantennero i rapporti con le case madri ed erano di fatto gestite da esse. Ciò ha impedito la creazione di un adeguato capitale umano nel Mezzogiorno e la gestione dei poli avveniva privilegiando gli interessi dell’area di origine. [7]

La crisi dei poli di sviluppo è stata poi accentuata dallo choc petrolifero, dal malcontento della gestione delle risorse pubbliche e dall’istituzione delle regioni a statuto ordinario che hanno portato, nel 1984, alla chiusura della Cassa, sostituita due anni dopo dall’Agenzia della promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (Agensud), con il compito di erogare incentivi ed approvare piani di investimento proposti dai neonati enti locali. [8] L’istituzione dell’Agensud aveva infatti lo scopo di affidare a livello locale il compito di promuovere lo sviluppo, attraverso una programmazione specifica per ogni singola regione.
In realtà questa fase dell’intervento straordinario ha messo in luce le difficoltà di comunicazione tra le istituzioni di diverso livello: le regioni si dimostrarono incapaci di gestire le risorse straordinarie a disposizione né fu data loro la possibilità di partecipare davvero alla programmazione, rimasta nelle mani dell’amministrazione centrale. [8]
Di conseguenza, le politiche attuate in quest’ultima fase di intervento furono sostanzialmente di sostegno dei redditi delle famiglie. [3]
L’intervento straordinario venne chiuso nel 1992, a causa principalmente delle politiche di revisione dei conti pubblici richieste per l’ingresso nel mercato unico europeo. La chiusura dell’intervento straordinario ha determinato una notevole riduzione della spesa pubblica nell’area che ha inevitabilmente causato la contrazione dei redditi delle famiglie, essendo venuto meno il sostegno su cui fino ad allora avevano contato. [9]

3. È stato possibile grazie all’appoggio degli organismi internazionali:

L’intervento straordinario è stato in larga parte ispirato alla New Deal, applicata negli Stati Uniti per far fronte alla grande depressione del 1929. In particolare la Cassa ricorda la Tennessee Valley Authority voluta da Roosvelt per incentivare lo sviluppo della valle del Tennesse. L’idea di fondo in entrambi i casi è stata la creazione di un unico ente che coordinasse sia gli interventi di modernizzazione del settore agricolo che quelli di sviluppo industriale atti a stimolare la crescita economica delle aree in forte ritardo con lo sviluppo. In Italia ci fu comunque una precedente esperienza di questo tipo tramite la costituzione dell’IRI. [10]
Per la realizzazione della prima fase dell’intervento, inoltre, ci fu il coinvolgimento della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), con un duplice scopo: il primo era quello di assicurarsi la creazione di un piano di sviluppo preciso ed efficace, l’altro era il consolidamento dei rapporti tra Italia e Stati Uniti. [11]
L’intervento della BIRS fu visto in un’ottica di prolungamento del Piano Marshall limitatamente alle aree in ritardo con lo sviluppo e, tramite precedenti accordi con la SVIMEZ, esso si realizzò, oltre che con il finanziamento delle singole opere realizzate, con la messa in circolazione di dollari a supporto della crescita dei consumi e delle importazioni di materie prime. Ciò permise all’Italia anche di poter essere competitiva nelle esportazioni. [11]
Dal canto suo, la BIRS trovò conveniente poter prendere parte alle decisioni del più grande e attraente piano di sviluppo regionale del mondo, così come fu definito in uno dei suoi rapporti, pur contribuendo in misura minima al progetto, ovvero per circa un decimo del totale dell’importo da stanziare. [11]

4. È stata un’iniziativa proposta e approvata sia dagli studiosi del nuovo meridionalismo che dalle classi dirigenti del Nord:

La fondazione nel 1946 della SVIMEZ può essere vista come l’incontro tra il neomeridionalismo, rappresentato da Rodolfo Morandi, e le politiche di industrializzazione, rappresentate da Pasquale Saraceno. [11]
La politica della SVIMEZ si opponeva fortemente alla visione padano - centrica adottata dal primo IRI [2]. Nonostante ciò, la nascita dell’associazione non interessò solo gli USA, che intervenne attraverso i finanziamenti del Piano Marshall e la BIRS, ma anche la classe imprenditoriale del Nord, che vide nell’industrializzazione del Mezzogiorno un’opportunità per la modernizzazione dell’economia di tutto il Paese, così come auspicato dagli economisti neomeridionalisti. Alla costituzione della SVIMEZ, infatti, parteciparono anche le grandi imprese del triangolo industriale.

Alla SVIMEZ si associarono immediatamente, oltre alla Banca d’Italia e alle principali banche nazionali, la Confindustria, la Federconsorzi, tutte le imprese IRI e le principali imprese private italiane, tra cui la FIAT, la Montecatini, la Breda, la Pirelli, la Innocenti, la Olivetti, nonché il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, e alcune camere di commercio, consorzi di bonifica, banche e imprese locali.” [11]
Era l’intera economia italiana, infatti, ad essere in seria difficoltà nel dopoguerra. Il Nord, nonostante le migliori condizioni economiche che poteva vantare rispetto al Sud, era notevolmente arretrato rispetto all’Europa occidentale e gli USA. L’economia italiana ristagnava dagli inizi del XX secolo e le prospettive di crescita erano misere senza un’adeguata politica di sviluppo per tutto il Paese. Era quindi la crescita del reddito nazionale il vero obiettivo posto dall’intervento straordinario. [11]
L’intervento straordinario, quindi, divenne un accordo tra la classe imprenditoriale del Nord e gli economisti neomeridionalisti, che diede vita ad un piano di interventi che non ledesse gli interessi dei primi. La classe imprenditoriale del Nord aveva infatti interesse al mantenimento del dualismo che caratterizzava l’economia italiana e auspicava uno sviluppo nel Mezzogiorno che si limitasse al settore terziario, in modo da poter invadere il mercato che si sarebbe venuto a creare con il proprio settore secondario. [3]
Ciò si realizzò attraverso la separazione della fase degli investimenti in infrastrutture da quella dell’industrializzazione ha permesso alle imprese del Nord di insediarsi al Sud.

L’aver creato al Sud prima le infrastrutture e poi le industrie […] ha fatto sì che il processo moltiplicativo alimentato dalla spesa per opere pubbliche al Sud ha favorito l’industrializzazione al Nord, perché la maggior domanda di prodotti industriali dei meridionali dovuta alla spesa pubblica, non avendo trovato un’offerta di prodotti industriali al Sud, è rifluita al Nord, alimentando […] il dualismo.” [3]
Il successivo insediamento delle imprese pubbliche nel Mezzogiorno non è stato sufficiente allo sviluppo dell’area, dato che le neonate imprese locali non riuscirono comunque a reggere la concorrenza delle imprese del Nord.2


Riferimenti:

[1] Saraceno, P., “Il nuovo meridionalismo.”, in “Quaderni del trentennale 1975 - 2005”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2005.
[2] Saraceno, P., “Morandi e il nuovo meridionalismo.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 81”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1981.
[3] Jossa, B., “Il Mezzogiorno e lo sviluppo dall’alto.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[4] Alemanno, C., “Problemi dello sviluppo meridionale.”, in “Rivista Apulia, numero IV - 83”, Banca Popolare Pugliese, Lecce, Dicembre 1983.
[5] Novacco, N., “Alcune scelte degli anni ’50 per il Mezzogiorno.”, in “Rivista Economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 1 - 2”, Marzo - Giugno 2001.
[6] Pica, F., “Salvatore Cafiero e la «Storia» dell’intervento straordinario.”, in “Rivista economica del Mezzogiorno, anno XV, numero 3”, Settembre 2001.
[7] Cerrito, E., “La politica dei poli di sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica.”, in “Quaderni di Storia Economica, numero 3.”, Banca d’Italia, Giugno 2011.
[8] Trono, A., “Squilibri regionali in Italia e politiche di intervento pubblico per lo sviluppo dell’occupazione locale.”, in “Anales de Estudios Economicos Y Empresaliares”, Universidad de Valladolid, 1993.
[9] OCSE, “Assessment and Recommendations, in OECD Territorial Reviews – Italy.”, traduzione italiana, Parigi-Roma, Settembre 2001.
[10] Lepore, A., “Cassa per il Mezzogiorno e politiche per lo sviluppo.”, in “SSRN working papers series”, Gennaio 2012.
[11] D’Antone, L., “L’«interesse straordinario» per il Mezzogiorno (1943-1960).”, in “Meridiana, numero 24”, 1995.

1 Sono ovviamente bene accette domande, suggerimenti, approfondimenti e correzioni.

2 E la situazione, ad oggi, non sembra essere migliorata.

 
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