venerdì 8 febbraio 2013

Borse di Studio, il Ministro fa un passo indietro, ma il problema è un altro


Proviamo a fare un ragionamento, il Ministro Profumo, o qualcuno del ministero aveva messo su un Decreto legge in cui per accedere al bando per ottenere Borse di Studio i ragazzi italiani dovevano presentare la documentazione con l’indicazione del reddito che non doveva superare il massimo ISEE previsto dal decreto stesso. Tutto normale si dirà. Si assolutamente normale e di prassi se non fosse per un particolare i diritti degli italiani sono stati divisi dal decreto per aree geografiche. Un Italiano del nord poteva essere considerato benestante e quindi non in grado di partecipare al bando se il suo reddito superava i 20000 €, un italiano del centro 17.000 €, un italiano del sud 14.000 €. In pratica la repubblica Italiana stabiliva per legge che a sud si può, anzi si deve campare con 14.000 euro, al nord con 20.000 €. Si rende legge quindi una discriminazione.
Giustamente gli studenti innanzitutto, ma anche movimenti meridionalisti e partiti politici hanno fatto presente con vibrate proteste questa stortura, diremmo questa aberrazione del sistema tecnocratico che guida il Paese per il quale la legge dei numeri e delle statistiche prevarica su qualsiasi cosa.
Il ministro Profumo ha fatto un passo indietro, è vero, ma il problema è che un modo di pensare discriminatorio non dovrebbe essere assunto neanche per sbaglio come ipotesi di una legge di uno stato che si vanta di essere unitario.
L’idea che si possa legiferare ipotizzando diritti differenziati geograficamente è sbagliata, è assurda e mette questa si in discussione l’unità di Italia.
Non si vogliono differenziare le politiche a seconda delle necessità e delle peculiarità dei territori e si differenziano i diritti dei cittadini che, fino a prova contraria sono tutti italiani…
O no ?
Michele Dell’Edera

Fonte: Sud24.it

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Proviamo a fare un ragionamento, il Ministro Profumo, o qualcuno del ministero aveva messo su un Decreto legge in cui per accedere al bando per ottenere Borse di Studio i ragazzi italiani dovevano presentare la documentazione con l’indicazione del reddito che non doveva superare il massimo ISEE previsto dal decreto stesso. Tutto normale si dirà. Si assolutamente normale e di prassi se non fosse per un particolare i diritti degli italiani sono stati divisi dal decreto per aree geografiche. Un Italiano del nord poteva essere considerato benestante e quindi non in grado di partecipare al bando se il suo reddito superava i 20000 €, un italiano del centro 17.000 €, un italiano del sud 14.000 €. In pratica la repubblica Italiana stabiliva per legge che a sud si può, anzi si deve campare con 14.000 euro, al nord con 20.000 €. Si rende legge quindi una discriminazione.
Giustamente gli studenti innanzitutto, ma anche movimenti meridionalisti e partiti politici hanno fatto presente con vibrate proteste questa stortura, diremmo questa aberrazione del sistema tecnocratico che guida il Paese per il quale la legge dei numeri e delle statistiche prevarica su qualsiasi cosa.
Il ministro Profumo ha fatto un passo indietro, è vero, ma il problema è che un modo di pensare discriminatorio non dovrebbe essere assunto neanche per sbaglio come ipotesi di una legge di uno stato che si vanta di essere unitario.
L’idea che si possa legiferare ipotizzando diritti differenziati geograficamente è sbagliata, è assurda e mette questa si in discussione l’unità di Italia.
Non si vogliono differenziare le politiche a seconda delle necessità e delle peculiarità dei territori e si differenziano i diritti dei cittadini che, fino a prova contraria sono tutti italiani…
O no ?
Michele Dell’Edera

Fonte: Sud24.it

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giovedì 15 novembre 2012

L’Isvap conferma le discriminazioni ai danni dei meridionali

 A conferma della sensazione comune che ci siano discriminazioni ai danni dei meridionali in genere c’è anche il fatto che se guardiamo la seconda posizione, negli 11 profili di guidatori presi in considerazione, troviamo ben 8 volte Reggio Calabria come la provincia con le tariffe peggiori, e 3 volte Bari (il capoluogo della Puglia, guardando l’indagine nel dettaglio, si conferma il secondo luogo più caro per assicurare un motociclo, mentre il capoluogo della Calabria ha la poco invidiata palma di eterno secondo per le automobili e i ciclomotori).

La parità tra uomo e donna sta già scattando

Mentre non abbiamo problemi a parlare di discriminazioni ai danni dei meridionali, possiamo altresì affermare che va scomparendo: l’assicurazione RC Auto delle donne sta infatti già aumento più di quella degli uomini, sia a nord che a sud, con punte rilevate a Campobasso, Palermo, Bari e Napoli.

Si auspica un intervento della Corte di Giustizia Europea

Dal momento che questa indagine svolta da Isvap finirà sui tavoli della Corte di Giustizia Europea, la speranza è che questa prenda finalmente decisioni chiare in merito alle discriminazioni ai danni dei meridionali, suggerendo all’Italia i correttivi da adottare e sanzionando chi di dovere.
Facciamo presente che il dossier dell’Isvap non menziona discorsi relativi a truffe, frodi o anche maggiore frequenza di incidenti a Napoli o in altre città del sud rispetto ad altre del nord, non dando dunque espliciti appigli all’Ania per controbattere … che sia un passo avanti nella lotta che da diverso tempo stanno portando avanti associazioni come Mo Bast! o Napoli Virtuosa?

nella speranza che la risposta sia positiva vi invitiamo a scrivere il vostro parere nell’apposita area commenti sottostante.

Fonte: ASSICURI.COM
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 A conferma della sensazione comune che ci siano discriminazioni ai danni dei meridionali in genere c’è anche il fatto che se guardiamo la seconda posizione, negli 11 profili di guidatori presi in considerazione, troviamo ben 8 volte Reggio Calabria come la provincia con le tariffe peggiori, e 3 volte Bari (il capoluogo della Puglia, guardando l’indagine nel dettaglio, si conferma il secondo luogo più caro per assicurare un motociclo, mentre il capoluogo della Calabria ha la poco invidiata palma di eterno secondo per le automobili e i ciclomotori).

La parità tra uomo e donna sta già scattando

Mentre non abbiamo problemi a parlare di discriminazioni ai danni dei meridionali, possiamo altresì affermare che va scomparendo: l’assicurazione RC Auto delle donne sta infatti già aumento più di quella degli uomini, sia a nord che a sud, con punte rilevate a Campobasso, Palermo, Bari e Napoli.

Si auspica un intervento della Corte di Giustizia Europea

Dal momento che questa indagine svolta da Isvap finirà sui tavoli della Corte di Giustizia Europea, la speranza è che questa prenda finalmente decisioni chiare in merito alle discriminazioni ai danni dei meridionali, suggerendo all’Italia i correttivi da adottare e sanzionando chi di dovere.
Facciamo presente che il dossier dell’Isvap non menziona discorsi relativi a truffe, frodi o anche maggiore frequenza di incidenti a Napoli o in altre città del sud rispetto ad altre del nord, non dando dunque espliciti appigli all’Ania per controbattere … che sia un passo avanti nella lotta che da diverso tempo stanno portando avanti associazioni come Mo Bast! o Napoli Virtuosa?

nella speranza che la risposta sia positiva vi invitiamo a scrivere il vostro parere nell’apposita area commenti sottostante.

Fonte: ASSICURI.COM

domenica 11 novembre 2012

Donatella Galli, bacheca Facebook chiusa: “Non tolleriamo messaggi di odio”

Facebook ha chiuso la pagina bacheca della consigliera provinciale leghista Donatella Galli. La Galli negli ultimi giorni è stata al centro di polemiche per un commento in cui aveva scritto “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili“. Il commento faceva da corredo a una cartina dell’Italia in cui il Sud era totalmente coperto dall’acqua.

La motivazione del social network sarebbe stata la seguente: “Facebook non tollera i discorsi contenenti messaggi di odio. Se da un lato incoraggiamo la gente a discutere e condividere idee, eventi e linee di condotta, la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia rappresenta una grave violazione delle nostre condizioni”.

Non è stata dunque la Galli a chiudere di propria volontà la sua bacheca. Ma come si è arrivati a questa misura presa poco fa dallo staff di Facebook? Tutto nasce dalla segnalazione inviata dal fondatore della pagina Facebook “Polizia Postale Web Site Fans”, Andrea Mavilla, abitante anche lui nel Monzese come la Galli. Ecco il testo della segnalazione inviata da Mavilla:

Buongiorno Staff, volevo avvisarti che in queste ore il profilo seguente https://www.facebook.com/lellagalli ha commentato una foto all’interno del vostro Social Network, la quale chiede la distruzione dell’intero Sud Italia. Vi prego di prendere procedimenti per la grave violazione commessa all’interno di Facebook, il quale vieta in maniera assoluta queste azioni.

Grazie di cuore. Andrea Mavilla fondatore della pagina Polizia Postale Web SIte Fans
”.

La risposta non s’è fatta attendere: dopo le doverose verifiche, alle 12,23 dell’11 novembre l’User Operations Facebook ha risposto annunciando l’avvenuta chiusura d’autorità, con le motivazioni citate.


Fonte: Blizquotidiano



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Facebook ha chiuso la pagina bacheca della consigliera provinciale leghista Donatella Galli. La Galli negli ultimi giorni è stata al centro di polemiche per un commento in cui aveva scritto “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili“. Il commento faceva da corredo a una cartina dell’Italia in cui il Sud era totalmente coperto dall’acqua.

La motivazione del social network sarebbe stata la seguente: “Facebook non tollera i discorsi contenenti messaggi di odio. Se da un lato incoraggiamo la gente a discutere e condividere idee, eventi e linee di condotta, la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia rappresenta una grave violazione delle nostre condizioni”.

Non è stata dunque la Galli a chiudere di propria volontà la sua bacheca. Ma come si è arrivati a questa misura presa poco fa dallo staff di Facebook? Tutto nasce dalla segnalazione inviata dal fondatore della pagina Facebook “Polizia Postale Web Site Fans”, Andrea Mavilla, abitante anche lui nel Monzese come la Galli. Ecco il testo della segnalazione inviata da Mavilla:

Buongiorno Staff, volevo avvisarti che in queste ore il profilo seguente https://www.facebook.com/lellagalli ha commentato una foto all’interno del vostro Social Network, la quale chiede la distruzione dell’intero Sud Italia. Vi prego di prendere procedimenti per la grave violazione commessa all’interno di Facebook, il quale vieta in maniera assoluta queste azioni.

Grazie di cuore. Andrea Mavilla fondatore della pagina Polizia Postale Web SIte Fans
”.

La risposta non s’è fatta attendere: dopo le doverose verifiche, alle 12,23 dell’11 novembre l’User Operations Facebook ha risposto annunciando l’avvenuta chiusura d’autorità, con le motivazioni citate.


Fonte: Blizquotidiano



martedì 21 febbraio 2012

Sud Italia, questo non è un Paese per donne

Nel Meridione italiano oltre mezzo milione di donne sfugge alle statistiche della disoccupazione ufficiale, così da portare il tasso di disoccupazione corretto nel 2010 al 30,6 percento. A queste vanno aggiunte 575mila persone disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro. Mentre le poche assunte regolarmente (tra le giovani meno di una su quattro) hanno uno stipendio inferiore di oltre il 30 percento rispetto a un uomo del Centro-Nord.

I dati di una ricerca condotta dallo Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) rivelano in maniera preoccupante come, in due anni, in Italia, dal 2008 al 2010, oltre centomila donne hanno perso il posto di lavoro. Il Mezzogiorno è un caso unico: il tasso di occupazione femminile raggiunge appena il 30,4 percento, rispetto al 54,8 percento del Centro-Nord. Un divario dal resto d’Europa di quasi trenta punti (la media europea nel 2010 è 58,2 percento).

A fare la differenza tra il tasso di disoccupazione ufficiale del 15,4 percento e quello ‘corretto’ sono le donne che non risultano né tra gli occupati né tra i disoccupati, ma che “informalmente’ si barcamenano tra ricerche saltuarie e lavoro sommerso. In questo senso, includendo queste categorie, il tasso di disoccupazione corretto femminile al Sud nel 2010 schizzerebbe al 30,6 percento, il doppio di quello ufficiale. In cifre, i valori si triplicano: le 393 mila disoccupate ufficiali, unite alle 560 mila implicite, diventano 953mila.

Discorso a parte, poi, per le ‘scoraggiate’, disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro, in base alla definizione Istat. Delle 893 mila donne italiane che si trovano in questa condizione, per la ricerca Svimez 575 mila sono al Sud.

Su una popolazione di donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni al Sud solo meno di una su tre, pari al 30,5 percento, lavora regolarmente. “Situazione ancora più critica se si considerano le donne under 34: qui il tasso di occupazione crolla al 23,3 percento, pari a meno di una su quattro”, si legge nel comunicato dell’istituto di ricerca.

A complicare ulteriormente il quadro, la differenza di stipendio. In base all’analisi Svimez, a parità di qualifica, il margine tra donna del Sud e uomo del Centro-Nord supererebbe il 30 percento. In valori assoluti, a fronte di uno stipendio di un maschio del Centro-Nord di 19.149 euro, una donna del Sud porterebbe a casa solo 13.361 euro al mese.

Dallo studio dello Svimez emerge poi un altro dato preoccupante: studiare serve a poco. Nonostante sul totale della popolazione le ragazze del Sud diplomate siano passate dall’85,1 percento del 2000 al 94 percento del 2009 (circa un punto percentuale in più rispetto al Centro-Nord), e le laureate siano il 18,9 percento sul totale della popolazione tra 30 i 34 anni, quasi 7 punti in più dei maschi (12,3 percento), pur se distante dalla performance del Centro-Nord (27,1 percento), studiare non basta: tra le dipendenti sono troppo poche le dirigenti (appena il 26 percento rispetto a una quota di occupazione femminile totale del 35 percento; tra le lavoratrici autonome, sono troppo bassi i livelli di libere professioniste e lavoratrici in proprio, di associate in cooperativa, mentre spicca il livello abnorme di lavoratrici co.co.co (il 65 percento del totale è donna, contro il 55,6 nel Centro-Nord)..

Infine, il rapporto sottolinea che il sistema di welfare familiare e informale che ancora in molti casi è dominante nel Mezzogiorno si regge sulla donna, non lavoratrice, costretta ad un ruolo casalingo secondo un modello sociale tradizionale: allevare i bambini e accudire gli anziani.

Nel 2009, la percentuale di bambini da 0 a 3 anni che hanno usufruito dei servizi per l’infanzia (essenzialmente asili nido) è stata pari al 5 percento al Sud, contro il 17,9 percento del Centro-Nord.

Nel 2008, in base a elaborazioni Svimez, la spesa comunale per interventi e servizi sociali è stata al Nord Est di 155 euro pro capite, al Sud di 52 euro, tre volte di meno. Spicca su tutti il caso dell’assistenza ai disabili, che vede il Nord Est con oltre 5 mila euro a testa a fronte dei 657 del Sud.

Se vogliono trovare maggiori possibilità di impiego, le donne sono costrette ad emigrare. Nel 2010, 55.500 donne hanno lasciato il Sud trasferendo la residenza al Centro-Nord, pari al 48 percento del totale emigrante.

A cura di: Luca Galassi
Fonte: eilmensile.it
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Nel Meridione italiano oltre mezzo milione di donne sfugge alle statistiche della disoccupazione ufficiale, così da portare il tasso di disoccupazione corretto nel 2010 al 30,6 percento. A queste vanno aggiunte 575mila persone disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro. Mentre le poche assunte regolarmente (tra le giovani meno di una su quattro) hanno uno stipendio inferiore di oltre il 30 percento rispetto a un uomo del Centro-Nord.

I dati di una ricerca condotta dallo Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) rivelano in maniera preoccupante come, in due anni, in Italia, dal 2008 al 2010, oltre centomila donne hanno perso il posto di lavoro. Il Mezzogiorno è un caso unico: il tasso di occupazione femminile raggiunge appena il 30,4 percento, rispetto al 54,8 percento del Centro-Nord. Un divario dal resto d’Europa di quasi trenta punti (la media europea nel 2010 è 58,2 percento).

A fare la differenza tra il tasso di disoccupazione ufficiale del 15,4 percento e quello ‘corretto’ sono le donne che non risultano né tra gli occupati né tra i disoccupati, ma che “informalmente’ si barcamenano tra ricerche saltuarie e lavoro sommerso. In questo senso, includendo queste categorie, il tasso di disoccupazione corretto femminile al Sud nel 2010 schizzerebbe al 30,6 percento, il doppio di quello ufficiale. In cifre, i valori si triplicano: le 393 mila disoccupate ufficiali, unite alle 560 mila implicite, diventano 953mila.

Discorso a parte, poi, per le ‘scoraggiate’, disponibili a lavorare ma non in cerca di lavoro, in base alla definizione Istat. Delle 893 mila donne italiane che si trovano in questa condizione, per la ricerca Svimez 575 mila sono al Sud.

Su una popolazione di donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni al Sud solo meno di una su tre, pari al 30,5 percento, lavora regolarmente. “Situazione ancora più critica se si considerano le donne under 34: qui il tasso di occupazione crolla al 23,3 percento, pari a meno di una su quattro”, si legge nel comunicato dell’istituto di ricerca.

A complicare ulteriormente il quadro, la differenza di stipendio. In base all’analisi Svimez, a parità di qualifica, il margine tra donna del Sud e uomo del Centro-Nord supererebbe il 30 percento. In valori assoluti, a fronte di uno stipendio di un maschio del Centro-Nord di 19.149 euro, una donna del Sud porterebbe a casa solo 13.361 euro al mese.

Dallo studio dello Svimez emerge poi un altro dato preoccupante: studiare serve a poco. Nonostante sul totale della popolazione le ragazze del Sud diplomate siano passate dall’85,1 percento del 2000 al 94 percento del 2009 (circa un punto percentuale in più rispetto al Centro-Nord), e le laureate siano il 18,9 percento sul totale della popolazione tra 30 i 34 anni, quasi 7 punti in più dei maschi (12,3 percento), pur se distante dalla performance del Centro-Nord (27,1 percento), studiare non basta: tra le dipendenti sono troppo poche le dirigenti (appena il 26 percento rispetto a una quota di occupazione femminile totale del 35 percento; tra le lavoratrici autonome, sono troppo bassi i livelli di libere professioniste e lavoratrici in proprio, di associate in cooperativa, mentre spicca il livello abnorme di lavoratrici co.co.co (il 65 percento del totale è donna, contro il 55,6 nel Centro-Nord)..

Infine, il rapporto sottolinea che il sistema di welfare familiare e informale che ancora in molti casi è dominante nel Mezzogiorno si regge sulla donna, non lavoratrice, costretta ad un ruolo casalingo secondo un modello sociale tradizionale: allevare i bambini e accudire gli anziani.

Nel 2009, la percentuale di bambini da 0 a 3 anni che hanno usufruito dei servizi per l’infanzia (essenzialmente asili nido) è stata pari al 5 percento al Sud, contro il 17,9 percento del Centro-Nord.

Nel 2008, in base a elaborazioni Svimez, la spesa comunale per interventi e servizi sociali è stata al Nord Est di 155 euro pro capite, al Sud di 52 euro, tre volte di meno. Spicca su tutti il caso dell’assistenza ai disabili, che vede il Nord Est con oltre 5 mila euro a testa a fronte dei 657 del Sud.

Se vogliono trovare maggiori possibilità di impiego, le donne sono costrette ad emigrare. Nel 2010, 55.500 donne hanno lasciato il Sud trasferendo la residenza al Centro-Nord, pari al 48 percento del totale emigrante.

A cura di: Luca Galassi
Fonte: eilmensile.it

mercoledì 23 febbraio 2011

NEL PRECIPIZIO

- DI ANGELO DEL BOCA – ilmanifesto.it -

Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l’uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

07gheddafi NEL PRECIPIZIOÈ tempo che l’Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell’integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell’ultimo momento, di un’Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c’è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell’immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c’è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar – quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l’importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l’importanza di queste componenti numerose – gli Orfella sono 90mila persone – nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l’intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell’intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel ’69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo – non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l’unico responsabile dell’abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell’imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell’eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l’importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l’errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l’inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel ’69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l’apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l’ultima volta.

Angelo Del Boca
Fonte: www.ilmanifesto.it
22.02.2011


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- DI ANGELO DEL BOCA – ilmanifesto.it -

Le notizie che arrivano sono di vera e propria guerra contro civili in rivolta, quindi di massacro. Quel che Gheddafi aveva sempre promesso, che mai avrebbe rivoltato le armi contro il suo popolo, anche questa è una promessa non mantenuta. È tempo che se ne vada, è tempo che si intravveda oltre il bagno di sangue una soluzione di mediazione che, come in Egitto e Tunisia, non può non cominciare che con l’uscita di scena di Muammar Gheddafi al potere assoluto da quarantuno anni.

07gheddafi NEL PRECIPIZIOÈ tempo che l’Occidente scopra nel nuovo processo di democratizzazione avviato con le rivolte di massa in Medio Oriente non il pericolo dell’integralismo islamico, ma una risorsa per pensare diversamente quel mondo e insieme le nostre società blindate. Ora che finalmente anche le Nazioni unite alzano la voce, chi ha amato quel popolo e quel paese non può tacere.

Come fa il governo italiano che si nasconde dietro le dichiarazioni, dell’ultimo momento, di un’Unione europea più preoccupata dei suoi affari che delle società e di quei popoli. Dunque, dobbiamo dire la verità per fermare il sangue che scorre a Tripoli, a Bengasi e in tutto la Libia. Innanzitutto dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Trattato Italia-Libia del 2008.

Lo sapevamo benissimo che Gheddafi era un dittatore, che in Libia non c’è rispetto per i diritti umani. E quindi quando abbiamo firmato come Italia quel trattato, abbiamo voluto ratificare solo un accordo di carattere economico, commerciale, capace di fermare la disperazione dell’immigrazione africana in nuovi campi di concentramento. Ma non politico. Abbiamo fatto un errore gravissimo. Un errore che ci stiamo trascinando ancora oggi perché i nostri responsabili al governo non hanno il coraggio di affrontare la situazione e dire adesso basta a chiedere a chiare lettere: «Hai guidato per 41 anni questo paese, hai fatto del tuo meglio, adesso lascia il posto ad altri». Questa dovrebbe essere la richiesta precisa. Ma i fatti che si affollano mentre scriviamo, ci dicono che il precipizio purtroppo c’è già. Perché in un certo senso Gheddafi sta pagando due errori fondamentali della sua politica. Ha dimenticato che una parte decisiva della Libia, la Cirenaica, è ancora pervasa del mito della Senussia e di Omar el Mukhtar – quello impiccato dagli italiani. E i dimostranti inneggiano a el Mukhtar. Fatto ancora più grave, Gheddafi ha invece sempre minimizzato l’importanza delle tribù del Gebel, della «montagna», che sono a 50 km da Tripoli. Gli Orfella, gli Zintan, i Roseban, queste grandi tribù della montagna che sono le stesse che hanno messo nei pasticci gli italiani nel 1911.

Gheddafi ha sempre minimizzato l’importanza di queste componenti numerose – gli Orfella sono 90mila persone – nella lotta di liberazione e nella ricostruzione della nuova Libia. Così è covato per decenni un sordo risentimento che ora li vede associati, se non alla guida dei rivoltosi con i quali, in queste ore, stanno marciando verso Tripoli. Insomma è l’intera storia della Libia che si «riavvolge» e contraddice il regime del Colonnello. Se solo pensiamo a pochi mesi fa, quando Berlusconi e Gheddafi presenziavano in una caserna romana dei carabinieri ad un caravanserraglio, con giostre di cavalieri. Viene la domanda oggettiva: ma come ha fatto a non accorgersi che tutto il mondo che aveva costruito era in crisi drammatica? Lui che aspirava a presentarsi come il leader dell’intero continente africano, non aveva nemmeno la sensazione dei limiti del suo governo e della tragedia che si consumava nella sua patria. Eppure Gheddafi non è stato solo un fantoccio, come Ben Ali e Hosni Mubarak.

Quando fu protagonista del colpo di stato nel ’69 aveva davanti a sé un paese pieno di piccole organizzazioni, clanico, e lui ha contribuito a farne una nazione. In un anno ha cacciato le basi militari americane e inglesi, ha espulso i 20mila italiani che costituivano ancora un retaggio del colonialismo. Insomma ha cercato di fare della Libia una nazione. E per molti anni la Libia è stata considerata una nazione. Era solo una presunzione, ora lo sappiamo. Era una presunzione ridurre ad un solo uomo quel progetto che doveva appartenere davvero a tutto il popolo – non solo ai «comitati del popolo» voluti dal regime. Qui ha fallito.

Quando si è autorappresentato come l’unico responsabile dell’abbattimento del colonialismo e del fronteggiamento dell’imperialismo. Riducendo ad una persona le istituzioni libiche, la storia di quel paese, le aspirazioni diffuse. Quando è venuto in Italia aveva sulla divisa la foto dell’eroe anti-italiano Omar el Mukhtar. Ma era solo una provocazione soggettiva, come a dire «Io non dimentico». Ma il fatto di avere sottovalutato l’importanza di tutte le tribù della montagna, cioè della società politica che ha prodotto la nascita della Libia, è stato l’errore più grave. Perché sono le componenti fondamentali che avevano fatto la resistenza, la liberazione e poi avevano fatto crescere il paese.

La situazione adesso, purtroppo, è oltre. Io penso con dolore che ormai tutti gli appelli sono troppo in ritardo. Il fatto stesso che le tribù della montagna scendano a Tripoli per liberarla, mi dà la misura della svolta nel precipizio.
Il gruppo degli anziani, dei saggi, ha detto che bisogna abbattere Gheddafi. Esattamente con queste parole: «Invitiamo alla lotta contro chi non sa governare», hanno dichiarato gli anziani degli Orfella; mentre i vicini capi degli Zentan chiedevano «ai giovani di combattere e ai militari di disertare e di portare l’inferno a Gheddafi». È questa la novità della crisi libica. La rivolta storica della generazione degli anziani della generazione, dei veterani. Una conferma che viene anche dal Cairo, dove il rappresentate libico nella Lega araba Abdel Moneim al-Honi si è dimesso per unirsi ai rivoltosi. È una notizia importantissima, perché è uno dei famosi «11 ufficiali» che hanno fatto la rivolta nel ’69 con Gheddafi. E insieme, della generazione dei giovani e giovanissimi. Quei giovanissimi che hanno fatto la rivolta per motivi di disperazione sociale, con una altissima disoccupazione al 30%. Un dato che svela la favola della buona redistribuzione delle ricchezze energetiche libiche. E le chiacchiere di un «socialismo popolarista» rimasto sulla carta del «Libro Verde» del Colonnello.

La summa del suo pensiero che gli è servito per minimizzare l’apporto politico degli altri protagonisti della rivoluzione. Incontrandolo in una intervista del 1986, lui ammise che il «Libro Verde» era fallito e che la Libia era ancora «nera» non verde. Ora è anche rossa del sangue del suo popolo che lui ha versato. Per l’ultima volta.

Angelo Del Boca
Fonte: www.ilmanifesto.it
22.02.2011


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martedì 31 agosto 2010

Lampedusa, l’Italia degli affari e delle cricche, ma anche della generosità di chi non chiude le porte alla disperazione

Il sindaco resta sindaco anche se arrestato e rinviato a giudizio per concussione. Vice sindaco leghista. Assessore al Turismo che immagina un casinò, la Protezione Civile di Bertolaso fa il bello e il cattivo tempo, eppure la gente resiste nel buon senso di un'accoglienza difficile in un'isola che si sente abbandonata. Parlano Favio Sanfilippo e Alice Scajola, autori di "A Lampedusa", dove raccontano queste storie



di Luca Leone

A Lampedusa di Favio Sanfilippo e Alice ScajolaLampedusa, estremo sud d’Italia e meta agognata dalle migliaia di migranti che intraprendono rischiosi “viaggi della speranza” lungo le rotte del Mediterraneo. Terra di mammane, di scarse scuole e troppe case, bella e sfregiata dall’abusivismo edilizio; isola dalle mille contraddizioni dove anche l’immigrazione può diventare guadagno. Spesso dai contorni loschi. Questi i temi dello splendido “A Lampedusa”, di Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja (Infinito edizioni, 168 pagine, 13 euro).

Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja raccontano l’isola più discussa del Mediterraneo conducendo un’appassionante inchiesta giornalistica e dando voce a chi di questa terra ha contribuito a tracciare la cronaca saliente di questi ultimi anni: dalla senatrice leghista Angela Maraventano ex vicesindaco di Lampedusa e Linosa ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno operato sul posto – Msf, Unhcr, Legambiente ecc. Dal viceparroco tanzanese ai tanti Mourad che vengono dal Marocco o da altri Paesi africani. Dal prefetto Mario Morcone ad Adelina l’ostetrica che a Lampedusa ha fatto nascere tutti. O quasi.

Scrive sul libro Carlo Bonini:

In un Paese senza memoria – il nostro – prigioniero della sindrome da assedio, A Lampedusa è una luce nel buio pesto. È un atto di coraggio civile. È il racconto minuzioso di un’isola ridotta a discarica di corpi, cose e barche, spiaggiati da quel tratto di mare che oggi divide gli uomini non tra bianchi e neri. Ma tra la vita e la speranza di poter avere un giorno qualcosa che le somigli.

Dell’isola, della sua gente, dei suoi problemi abbiamo parlato con gli autori.

Per la maggior parte degli italiani Lampedusa è associata a due immagini: il mare turchese dell’Isola dei conigli e gli sbarchi dei migranti senza documenti. Leggendo “A Lampedusa” si scopre che questo scoglio in mezzo al Mediterraneo è molto di più. Potete raccontarcelo?

Lampedusa è il simbolo di un’Italia furba ma con un cuore grande, abitata da uomini e donne che si impegnano per soccorrere i disgraziati che sopravvivono ai viaggi bestiali lungo il mare. Ma anche di un Paese con il vizio di litigare per le proprie competenze, con una classe politica incline ad accendere o sopire gli animi a seconda delle opportunità e delle convenienze del momento. Una classe politica, come nel caso del sindaco di Lampedusa, refrattaria al passo indietro, nonostante un arresto e un rinvio a giudizio per concussione. È il simbolo dell’Italia delle cricche pronte a sfruttare le tragedie pur di fare business. È l’Italia della Protezione civile che anche a Lampedusa, in questi ultimi anni di “emergenza clandestini”, ha fatto il bello e il cattivo tempo diventando il principale e quasi esclusivo ente appaltante nell’isola. Appalti che sono stati affidati per via diretta, bypassando le regole comuni. È il simbolo di un sud sempre arrabbiato con Roma ma che da Roma pretende e, nel caso di Lampedusa, pretende a titolo di risarcimento per il danno di immagine (parole dell’assessore al Turismo) subìto a causa dell’immigrazione: fondi a compensazione, creazione di una zona franca, costruzione di un casinò. Un’Italia dove sviluppo significa cemento, abusivismo edilizio e sfruttamento intensivo del territorio. E che, spesso, si dimentica dei suoi concittadini più sfortunati e poveri che per curarsi – visto che a Lampedusa non c’è l’ospedale o comunque un centro medico degno di questo nome – sono costretti a spendere i risparmi di una vita.

Da quale suggestione, idea o tesi nasce il libro e che cosa vuole dimostrare?

“A Lampedusa” non è un libro a tesi. È certamente un libro politico, perché attraverso la nostra inchiesta interveniamo su temi cruciali quali sono l’immigrazione e la legalità e alimentiamo il dibattito pubblico. Abbiamo voluto raccontare il contraddittorio rapporto – nell’anno degli sbarchi record, il 2008 – tra Lampedusa (e quindi l’Italia) e il fenomeno dell’immigrazione irregolare. E lo abbiamo fatto cambiando la prospettiva, mettendo l’isola al centro e guardando Lampedusa da Lampedusa. E quello che è venuto fuori, lo dicevamo prima, è l’affresco di un Paese furbo ma al tempo stesso generoso.

La pubblicazione come è stata accolta dai lampedusani e dai siciliani?

I siciliani – quelli “di terra” – sono fatalisti, diffidenti e curiosi allo stesso tempo. E curioso, diffidente e fatalista è stato il pubblico che abbiamo incontrato nel corso delle presentazioni del libro a Palermo, Catania e Agrigento. A commento delle pratiche al limite della legalità che raccontiamo nel libro, spesso ci siamo sentiti dire: “Cose che si sanno, che fanno tutti e che si sono sempre fatte”. Però a pochi salta in mente di denunciarli, quei fatti e quelle pratiche, di combatterle. Ma c’è una parte sana della società siciliana, che è invece capace di indignarsi, di sorprendersi, di denunciare e di lavorare per un futuro fatto di legalità, uguaglianza e integrazione. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarne tante di persone così. Anche, e forse soprattutto, a Lampedusa, dove abbiamo avuto modo di confrontarci con la società civile e con qualche esponente delle passate amministrazioni. Peccato, invece, che siano stati proprio gli amministratori in carica a non avere accettato il confronto. Ci ha fatto molto piacere, e lo diciamo con una punta di orgoglio, che siano stati proprio i lampedusani a definire il libro un atto d’amore nei confronti dell’isola. È come – ci hanno detto – se ci aveste messo di fronte a uno specchio, costretti a guardarci e a fare i conti con quello che siamo.


Fonte:Domani.Arcoiris


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Il sindaco resta sindaco anche se arrestato e rinviato a giudizio per concussione. Vice sindaco leghista. Assessore al Turismo che immagina un casinò, la Protezione Civile di Bertolaso fa il bello e il cattivo tempo, eppure la gente resiste nel buon senso di un'accoglienza difficile in un'isola che si sente abbandonata. Parlano Favio Sanfilippo e Alice Scajola, autori di "A Lampedusa", dove raccontano queste storie



di Luca Leone

A Lampedusa di Favio Sanfilippo e Alice ScajolaLampedusa, estremo sud d’Italia e meta agognata dalle migliaia di migranti che intraprendono rischiosi “viaggi della speranza” lungo le rotte del Mediterraneo. Terra di mammane, di scarse scuole e troppe case, bella e sfregiata dall’abusivismo edilizio; isola dalle mille contraddizioni dove anche l’immigrazione può diventare guadagno. Spesso dai contorni loschi. Questi i temi dello splendido “A Lampedusa”, di Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja (Infinito edizioni, 168 pagine, 13 euro).

Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja raccontano l’isola più discussa del Mediterraneo conducendo un’appassionante inchiesta giornalistica e dando voce a chi di questa terra ha contribuito a tracciare la cronaca saliente di questi ultimi anni: dalla senatrice leghista Angela Maraventano ex vicesindaco di Lampedusa e Linosa ai rappresentanti delle organizzazioni che hanno operato sul posto – Msf, Unhcr, Legambiente ecc. Dal viceparroco tanzanese ai tanti Mourad che vengono dal Marocco o da altri Paesi africani. Dal prefetto Mario Morcone ad Adelina l’ostetrica che a Lampedusa ha fatto nascere tutti. O quasi.

Scrive sul libro Carlo Bonini:

In un Paese senza memoria – il nostro – prigioniero della sindrome da assedio, A Lampedusa è una luce nel buio pesto. È un atto di coraggio civile. È il racconto minuzioso di un’isola ridotta a discarica di corpi, cose e barche, spiaggiati da quel tratto di mare che oggi divide gli uomini non tra bianchi e neri. Ma tra la vita e la speranza di poter avere un giorno qualcosa che le somigli.

Dell’isola, della sua gente, dei suoi problemi abbiamo parlato con gli autori.

Per la maggior parte degli italiani Lampedusa è associata a due immagini: il mare turchese dell’Isola dei conigli e gli sbarchi dei migranti senza documenti. Leggendo “A Lampedusa” si scopre che questo scoglio in mezzo al Mediterraneo è molto di più. Potete raccontarcelo?

Lampedusa è il simbolo di un’Italia furba ma con un cuore grande, abitata da uomini e donne che si impegnano per soccorrere i disgraziati che sopravvivono ai viaggi bestiali lungo il mare. Ma anche di un Paese con il vizio di litigare per le proprie competenze, con una classe politica incline ad accendere o sopire gli animi a seconda delle opportunità e delle convenienze del momento. Una classe politica, come nel caso del sindaco di Lampedusa, refrattaria al passo indietro, nonostante un arresto e un rinvio a giudizio per concussione. È il simbolo dell’Italia delle cricche pronte a sfruttare le tragedie pur di fare business. È l’Italia della Protezione civile che anche a Lampedusa, in questi ultimi anni di “emergenza clandestini”, ha fatto il bello e il cattivo tempo diventando il principale e quasi esclusivo ente appaltante nell’isola. Appalti che sono stati affidati per via diretta, bypassando le regole comuni. È il simbolo di un sud sempre arrabbiato con Roma ma che da Roma pretende e, nel caso di Lampedusa, pretende a titolo di risarcimento per il danno di immagine (parole dell’assessore al Turismo) subìto a causa dell’immigrazione: fondi a compensazione, creazione di una zona franca, costruzione di un casinò. Un’Italia dove sviluppo significa cemento, abusivismo edilizio e sfruttamento intensivo del territorio. E che, spesso, si dimentica dei suoi concittadini più sfortunati e poveri che per curarsi – visto che a Lampedusa non c’è l’ospedale o comunque un centro medico degno di questo nome – sono costretti a spendere i risparmi di una vita.

Da quale suggestione, idea o tesi nasce il libro e che cosa vuole dimostrare?

“A Lampedusa” non è un libro a tesi. È certamente un libro politico, perché attraverso la nostra inchiesta interveniamo su temi cruciali quali sono l’immigrazione e la legalità e alimentiamo il dibattito pubblico. Abbiamo voluto raccontare il contraddittorio rapporto – nell’anno degli sbarchi record, il 2008 – tra Lampedusa (e quindi l’Italia) e il fenomeno dell’immigrazione irregolare. E lo abbiamo fatto cambiando la prospettiva, mettendo l’isola al centro e guardando Lampedusa da Lampedusa. E quello che è venuto fuori, lo dicevamo prima, è l’affresco di un Paese furbo ma al tempo stesso generoso.

La pubblicazione come è stata accolta dai lampedusani e dai siciliani?

I siciliani – quelli “di terra” – sono fatalisti, diffidenti e curiosi allo stesso tempo. E curioso, diffidente e fatalista è stato il pubblico che abbiamo incontrato nel corso delle presentazioni del libro a Palermo, Catania e Agrigento. A commento delle pratiche al limite della legalità che raccontiamo nel libro, spesso ci siamo sentiti dire: “Cose che si sanno, che fanno tutti e che si sono sempre fatte”. Però a pochi salta in mente di denunciarli, quei fatti e quelle pratiche, di combatterle. Ma c’è una parte sana della società siciliana, che è invece capace di indignarsi, di sorprendersi, di denunciare e di lavorare per un futuro fatto di legalità, uguaglianza e integrazione. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarne tante di persone così. Anche, e forse soprattutto, a Lampedusa, dove abbiamo avuto modo di confrontarci con la società civile e con qualche esponente delle passate amministrazioni. Peccato, invece, che siano stati proprio gli amministratori in carica a non avere accettato il confronto. Ci ha fatto molto piacere, e lo diciamo con una punta di orgoglio, che siano stati proprio i lampedusani a definire il libro un atto d’amore nei confronti dell’isola. È come – ci hanno detto – se ci aveste messo di fronte a uno specchio, costretti a guardarci e a fare i conti con quello che siamo.


Fonte:Domani.Arcoiris


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giovedì 19 agosto 2010

Bossi e la 'ndrangheta. Le mafie al Nord, tra rivelazioni e semplificazioni leghiste


di Lorenzo Frigerio

Bossi e la 'ndrangheta. Le mafie al Nord, tra rivelazioni e semplificazioni leghisteFerragosto di lotta e di governo per gli uomini della Lega Nord, sugli scudi e in prima pagina mentre gli italiani si crogiolano al sole. Il ministro dell’Interno Maroni, insieme al collega alla Giustizia Alfano, da Palermo snocciolava i dati della vittoria del Governo Berlusconi contro le mafie italiche. A dire il vero, si tratta di una vittoria presunta tale perché, nonostante l’ottimismo ministeriale, siamo molto lontani dall’aver debellato il cancro mafioso nel nostro Paese, purtroppo.

Da quello che è ormai il suo buen retiro di Ponte di Legno in Val Camonica, invece, il leader della Lega Nord Umberto Bossi rilasciava dichiarazioni sulle infiltrazioni delle mafie al nord e sulle difficoltà incontrate dal suo movimento nel cercare di trovare proseliti anche nelle regioni meridionali. Tra una canzone eseguita al pianoforte con i villeggianti e una battuta al vetriolo contro Napolitano ad uso dei militanti e dei giornalisti che lo tallonano giorno e notte, il Senatur ha trovato il tempo per lanciare l’allarme sull’aggressione mafiosa alle regioni del Nord: “Arrivano da tutte le parti. La Brianza ha molte infiltrazioni, perché c’è la possibilità di costruire”.
Il riferimento alla Brianza non è casuale: la maggior parte degli arresti nell’ambito dell’operazione denominata “Il crimine”, portata a termine a metà luglio sull’asse Milano-Reggio Calabria, hanno riguardato questo territorio, fino ad un paio di anni fa parte della provincia milanese e oggi assurto a provincia autonoma di Monza e Brianza.

“Li tengo fuori dalla porta”
Quasi a mettere le mani avanti e ad anticipare ogni possibile replica, Bossi ha quindi affermato che le infiltrazioni criminali sono impossibili nella Lega Nord, perché ad esercitare il più ferreo controllo è lui, in prima persona: “Li tengo fuori dalla porta. È difficile che faccia passare uno che non è da anni nella Lega”.
A chi gli ricordava il nome di Angelo Ciocca, consigliere leghista in Regione Lombardia, eletto nell’ultima tornata con ben 18.000 preferenze e il cui nome è finito nelle carte dell’inchiesta coordinata dal pm Ilda Boccassini, il leader leghista ha avuto buon gioco nel rispondere che “non fa l’assessore. È lì bloccato. La magistratura seguirà il suo corso. Se lo butto fuori è condannato anche se innocente”. L’espulsione dal partito di chi non è nemmeno indagato – ha continuato il ministro delle Riforme – equivarrebbe ad una “condanna a morte” e poi, “non è chiaro se abbia commesso un reato, c'è solo una fotografia”.
La fotografia cui fa riferimento Bossi è un fermo immagine di una ripresa effettuata dalle forze dell’ordine nel corso dell’inchiesta che, a metà luglio, ha visto la DDA di Milano e quella di Reggio Calabria sferrare un duro colpo alle cosche della ‘ndrangheta che, muovendo dalla Calabria, hanno stabilito in Lombardia un presidio economico e militare di tutto rispetto. In piazza Petrarca a Pavia, con Ciocca – vero enfant prodige della nuova generazione di quadri dirigenti leghisti – vengono ripresi l’avvocato tributarista Pino Neri, finito poi in galera per concorso in associazione mafiosa, il costruttore Antonio Dieni e il candidato nelle liste di “Rinnovare Pavia” Francesco Del Prete. Il contesto è quello delle elezioni amministrative del 2009 ma non solo, sul piatto ci sono anche gli interessi legati ad alcune compravendite di immobili e ad appalti pubblici.
Una matassa quindi che risulterà ben più difficile da districare nei prossimi mesi; altro che dare semplici spiegazioni per la fotografia di cui parla Bossi.
Le esternazioni del Senatur in tema di mafia non sono finite qui e si sono poi arricchite di una ulteriore rivelazione, giunta in piena nottata, come riportato da alcuni quotidiani. Infatti il leader maximo della Lega ha avuto modo di ricordare anche le difficoltà di esportare il verbo padano in terre lontane: “Al sud è difficile andare. Ho dato la concessione per aprire una sede della Lega in Calabria e due giorni dopo c'era uno della 'ndrangheta”.
Le cronache non ci dicono se qualcuno dei presenti, all’udire questa notizia, sia trasalito o abbia chiesto spiegazioni. Sta di fatto che uno scoop di questa portata è stato liquidato come se niente fosse, in poche ore, nei pastoni politici di tg e giornali dedicati alla situazione politica.
Ci sarà almeno un magistrato che vorrà chiedere conto e ragione al ministro di questa uscita, dai contorni assolutamente inquietanti?
Anche le reazioni politiche non sono sembrate all’altezza della gravità di quanto denunciato. Nel vuoto di queste ore, si registra solo la dura dichiarazione del capogruppo PD in commissione antimafia, Laura Garavini che ha biasimato l’atteggiamento del ministro: “Non si può chiedere ai semplici cittadini di denunciare chi chiede il racket e poi non dare il buon esempio, facendo nomi e cognomi degli 'ndranghetisti che si sarebbero presentati alla Lega. A meno che questa non sia una sparata per coprire il maldestro tentativo di minimizzare il ruolo del consigliere regionale lombardo Ciocca e il grave imbarazzo di Bossi per i suoi rapporti con personaggi che rappresentano la 'ndrangheta al nord".

Saviano vs Castelli
A luglio di quest’anno, dopo il blitz congiunto dei magistrati milanesi e calabresi, lo scrittore Roberto Saviano si era permesso di far notare il disagio dei dirigenti della Lega di fronte all’avanzata delle cosche al nord: “La Lega ci ha sempre detto – ha dichiarato l'autore di Gomorra a Vanity Fair – che certe cose al nord non esistono, ma l'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia racconta una realtà diversa. Dov'era la Lega quando questo succedeva negli ultimi dieci anni laddove ha governato? E perché adesso non risponde?”.
Reazioni veementi e in qualche caso sopra le righe erano venute in quel frangente da diversi dirigenti della Lega Nord. Il più duro di tutti l’ex ministro alla Giustizia Castelli: “Saviano è accecato e reso sordo dal suo inopinato successo e dai soldi che gli sono arrivati in giovane età. Unica sua scusante rispetto alle sciocchezze che dice sulla Lega è che, quando noi combattevamo contro la sciagurata legge del confino obbligatorio che tanti guai ha portato al nord, aveva ancora i calzoni corti. Se nulla sa della storia della Lombardia, vada a rileggersi la storia della battaglia che la Lega fece a Lecco a iniziare dal '93 contro i clan della 'ndrangheta. Atti amministrativi precisi, fatti concreti”.
A parte il fatto che la legge sul confino produsse i suoi effetti nefasti soltanto qualche decennio prima che Bossi e i suoi fondassero la Lega Nord e quindi c’è perlomeno una incongruenza cronologica che sfugge all’ingegnere Castelli, sarebbe stato interessante capire a quali atti amministrativi precisi, a quali fatti concreti, l’attuale viceministro abbia inteso riferirsi nel ricordare la concretezza della battaglia antimafia condotta dalla Lega Nord.
Crediamo, molto verosimilmente, che Castelli, nella polemica con Saviano, abbia inteso soltanto rimarcare quanto già espresso anche nel corso di altre interviste televisive e giornalistiche rilasciate in questi anni. Il succo di queste esternazioni sarebbe la sottolineatura della concretezza leghista nel contrasto alle mafie: vale a dire la confisca dei beni alle cosche della ‘ndrangheta che in quel di Lecco erano comandate da Franco Coco Trovato.
“Atti amministrativi precisi, fatti concreti”: cioè i provvedimenti delle amministrazioni comunali di Lecco, dove la Lega aveva un ruolo rilevante e Castelli un posto di primo piano come segretario cittadino prima e capogruppo in Consiglio comunale poi, che avrebbero consentito l’utilizzo a fini istituzionali e sociali dei beni confiscati alle mafie.
Anche in questo caso sono necessarie due piccole precisazioni. Intanto i beni non vengono confiscati dai comuni ma il loro intervento è cruciale solo all’esito del procedimento che parte con il sequestro. La partita dei sequestri è merito che va attribuito a magistratura e forze dell’ordine che nel corso delle inchieste ricostruiscono il valore dei patrimoni criminali e consentono la loro individuazione. Concediamo però a Castelli il beneficio del dubbio e le possibili confusioni sul tema, visto che per lo stesso ministro dell’Interno Maroni, collega di partito, sequestrare un bene equivale a confiscarlo e ad arrestare i mafiosi sono i ministri…
Secondariamente, Castelli è male informato oppure trascura colpevolmente il fatto che alcuni dei beni confiscati a Coco Trovato e recepiti con atto amministrativo da quella giunta che governava Lecco in quegli anni, in pieno 2010 sono ancora inutilizzabili e non destinati. Per informazioni il viceministro potrebbe chiedere all’attuale amministrazione comunale di Lecco che sconta gli errori del passato, ancora oggi invece rivendicati come meriti dalla Lega Nord.

Clandestini criminali e mafiosi impuniti
In attesa di capire meglio nei prossimi giorni i contorni della pubblica denuncia di Bossi o in attesa di una smentita successiva – non sarebbe una novità per il ministro delle Riforme, che in passato ha più volte utilizzato lo strumento della dichiarazione ad effetto, salvo puntualmente rettificare quanto aveva detto – giova, senza dubbio, ricordare che per la Lega Nord la questione mafia è sempre stato un tasto dolente, nonostante i proclami lanciati da Pontida.
La Lega da decenni va soffiando sul vento dell’intolleranza, predicando rigore e pugno duro contro i clandestini e facendo diventare scorrettamente una vera emergenza criminale l’immigrazione, che resta comunque un problema sociale. Quest’azione politica ha assunto anche il ruolo di una vera e propria campagna culturale che ha finito per spostare l’enfasi della repressione giudiziaria e poliziesca sui reati commessi dagli stranieri.
Il risultato è che parlare di mafie al nord è ancora oggi un tabù, soprattutto per quella larga fetta di cittadinanza che vota centrodestra e Lega in particolare.
Per costoro le mafie sono un problema dei “terroni”, tanto da spingere nel 2009 il sindaco leghista di Ponteranica (BG) a revocare l’intitolazione della biblioteca locale a Peppino Impastato perché “non è uno dei nostri morti”.
Per costoro le mafie sono un problema del sud, un fenomeno deviato tanto da arrivare a proporre la costituzione della Sicilia in repubblica autonoma gestita dalla mafia. Era stato il professor Miglio, l’allora ideologo della Lega, a proporre di realizzare un porto franco nel Mediterraneo; eravamo tra il 1992 e il 1994, quando le bombe di Cosa Nostra facevano saltare per aria magistrati e monumenti. Forse anche su questo aspetto sarebbe opportuno un approfondimento in sede giudiziaria.
Sull’onda di queste pericolose sottovalutazioni, fenomeni quali la mafia e la ‘ndrangheta sono oggi pienamente inserite – altro che infiltrate! – nel tessuto economico e sociale di quella che i dirigenti e i militanti leghisti si ostinano a chiamare, contro ogni logica e contro la storia, Padania.
Ha ragione Saviano quando chiede dove era la Lega mentre le mafie si insinuavano al nord.
Suggeriamo ai dirigenti leghisti di studiare le carte e di ripresentarsi più preparati, perché oggi la partita antimafia si sta già giocando al nord da tempo e, facendo così, corrono il rischio di essere superati drammaticamente dai fatti.

Fonte:Articolo 21

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di Lorenzo Frigerio

Bossi e la 'ndrangheta. Le mafie al Nord, tra rivelazioni e semplificazioni leghisteFerragosto di lotta e di governo per gli uomini della Lega Nord, sugli scudi e in prima pagina mentre gli italiani si crogiolano al sole. Il ministro dell’Interno Maroni, insieme al collega alla Giustizia Alfano, da Palermo snocciolava i dati della vittoria del Governo Berlusconi contro le mafie italiche. A dire il vero, si tratta di una vittoria presunta tale perché, nonostante l’ottimismo ministeriale, siamo molto lontani dall’aver debellato il cancro mafioso nel nostro Paese, purtroppo.

Da quello che è ormai il suo buen retiro di Ponte di Legno in Val Camonica, invece, il leader della Lega Nord Umberto Bossi rilasciava dichiarazioni sulle infiltrazioni delle mafie al nord e sulle difficoltà incontrate dal suo movimento nel cercare di trovare proseliti anche nelle regioni meridionali. Tra una canzone eseguita al pianoforte con i villeggianti e una battuta al vetriolo contro Napolitano ad uso dei militanti e dei giornalisti che lo tallonano giorno e notte, il Senatur ha trovato il tempo per lanciare l’allarme sull’aggressione mafiosa alle regioni del Nord: “Arrivano da tutte le parti. La Brianza ha molte infiltrazioni, perché c’è la possibilità di costruire”.
Il riferimento alla Brianza non è casuale: la maggior parte degli arresti nell’ambito dell’operazione denominata “Il crimine”, portata a termine a metà luglio sull’asse Milano-Reggio Calabria, hanno riguardato questo territorio, fino ad un paio di anni fa parte della provincia milanese e oggi assurto a provincia autonoma di Monza e Brianza.

“Li tengo fuori dalla porta”
Quasi a mettere le mani avanti e ad anticipare ogni possibile replica, Bossi ha quindi affermato che le infiltrazioni criminali sono impossibili nella Lega Nord, perché ad esercitare il più ferreo controllo è lui, in prima persona: “Li tengo fuori dalla porta. È difficile che faccia passare uno che non è da anni nella Lega”.
A chi gli ricordava il nome di Angelo Ciocca, consigliere leghista in Regione Lombardia, eletto nell’ultima tornata con ben 18.000 preferenze e il cui nome è finito nelle carte dell’inchiesta coordinata dal pm Ilda Boccassini, il leader leghista ha avuto buon gioco nel rispondere che “non fa l’assessore. È lì bloccato. La magistratura seguirà il suo corso. Se lo butto fuori è condannato anche se innocente”. L’espulsione dal partito di chi non è nemmeno indagato – ha continuato il ministro delle Riforme – equivarrebbe ad una “condanna a morte” e poi, “non è chiaro se abbia commesso un reato, c'è solo una fotografia”.
La fotografia cui fa riferimento Bossi è un fermo immagine di una ripresa effettuata dalle forze dell’ordine nel corso dell’inchiesta che, a metà luglio, ha visto la DDA di Milano e quella di Reggio Calabria sferrare un duro colpo alle cosche della ‘ndrangheta che, muovendo dalla Calabria, hanno stabilito in Lombardia un presidio economico e militare di tutto rispetto. In piazza Petrarca a Pavia, con Ciocca – vero enfant prodige della nuova generazione di quadri dirigenti leghisti – vengono ripresi l’avvocato tributarista Pino Neri, finito poi in galera per concorso in associazione mafiosa, il costruttore Antonio Dieni e il candidato nelle liste di “Rinnovare Pavia” Francesco Del Prete. Il contesto è quello delle elezioni amministrative del 2009 ma non solo, sul piatto ci sono anche gli interessi legati ad alcune compravendite di immobili e ad appalti pubblici.
Una matassa quindi che risulterà ben più difficile da districare nei prossimi mesi; altro che dare semplici spiegazioni per la fotografia di cui parla Bossi.
Le esternazioni del Senatur in tema di mafia non sono finite qui e si sono poi arricchite di una ulteriore rivelazione, giunta in piena nottata, come riportato da alcuni quotidiani. Infatti il leader maximo della Lega ha avuto modo di ricordare anche le difficoltà di esportare il verbo padano in terre lontane: “Al sud è difficile andare. Ho dato la concessione per aprire una sede della Lega in Calabria e due giorni dopo c'era uno della 'ndrangheta”.
Le cronache non ci dicono se qualcuno dei presenti, all’udire questa notizia, sia trasalito o abbia chiesto spiegazioni. Sta di fatto che uno scoop di questa portata è stato liquidato come se niente fosse, in poche ore, nei pastoni politici di tg e giornali dedicati alla situazione politica.
Ci sarà almeno un magistrato che vorrà chiedere conto e ragione al ministro di questa uscita, dai contorni assolutamente inquietanti?
Anche le reazioni politiche non sono sembrate all’altezza della gravità di quanto denunciato. Nel vuoto di queste ore, si registra solo la dura dichiarazione del capogruppo PD in commissione antimafia, Laura Garavini che ha biasimato l’atteggiamento del ministro: “Non si può chiedere ai semplici cittadini di denunciare chi chiede il racket e poi non dare il buon esempio, facendo nomi e cognomi degli 'ndranghetisti che si sarebbero presentati alla Lega. A meno che questa non sia una sparata per coprire il maldestro tentativo di minimizzare il ruolo del consigliere regionale lombardo Ciocca e il grave imbarazzo di Bossi per i suoi rapporti con personaggi che rappresentano la 'ndrangheta al nord".

Saviano vs Castelli
A luglio di quest’anno, dopo il blitz congiunto dei magistrati milanesi e calabresi, lo scrittore Roberto Saviano si era permesso di far notare il disagio dei dirigenti della Lega di fronte all’avanzata delle cosche al nord: “La Lega ci ha sempre detto – ha dichiarato l'autore di Gomorra a Vanity Fair – che certe cose al nord non esistono, ma l'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia racconta una realtà diversa. Dov'era la Lega quando questo succedeva negli ultimi dieci anni laddove ha governato? E perché adesso non risponde?”.
Reazioni veementi e in qualche caso sopra le righe erano venute in quel frangente da diversi dirigenti della Lega Nord. Il più duro di tutti l’ex ministro alla Giustizia Castelli: “Saviano è accecato e reso sordo dal suo inopinato successo e dai soldi che gli sono arrivati in giovane età. Unica sua scusante rispetto alle sciocchezze che dice sulla Lega è che, quando noi combattevamo contro la sciagurata legge del confino obbligatorio che tanti guai ha portato al nord, aveva ancora i calzoni corti. Se nulla sa della storia della Lombardia, vada a rileggersi la storia della battaglia che la Lega fece a Lecco a iniziare dal '93 contro i clan della 'ndrangheta. Atti amministrativi precisi, fatti concreti”.
A parte il fatto che la legge sul confino produsse i suoi effetti nefasti soltanto qualche decennio prima che Bossi e i suoi fondassero la Lega Nord e quindi c’è perlomeno una incongruenza cronologica che sfugge all’ingegnere Castelli, sarebbe stato interessante capire a quali atti amministrativi precisi, a quali fatti concreti, l’attuale viceministro abbia inteso riferirsi nel ricordare la concretezza della battaglia antimafia condotta dalla Lega Nord.
Crediamo, molto verosimilmente, che Castelli, nella polemica con Saviano, abbia inteso soltanto rimarcare quanto già espresso anche nel corso di altre interviste televisive e giornalistiche rilasciate in questi anni. Il succo di queste esternazioni sarebbe la sottolineatura della concretezza leghista nel contrasto alle mafie: vale a dire la confisca dei beni alle cosche della ‘ndrangheta che in quel di Lecco erano comandate da Franco Coco Trovato.
“Atti amministrativi precisi, fatti concreti”: cioè i provvedimenti delle amministrazioni comunali di Lecco, dove la Lega aveva un ruolo rilevante e Castelli un posto di primo piano come segretario cittadino prima e capogruppo in Consiglio comunale poi, che avrebbero consentito l’utilizzo a fini istituzionali e sociali dei beni confiscati alle mafie.
Anche in questo caso sono necessarie due piccole precisazioni. Intanto i beni non vengono confiscati dai comuni ma il loro intervento è cruciale solo all’esito del procedimento che parte con il sequestro. La partita dei sequestri è merito che va attribuito a magistratura e forze dell’ordine che nel corso delle inchieste ricostruiscono il valore dei patrimoni criminali e consentono la loro individuazione. Concediamo però a Castelli il beneficio del dubbio e le possibili confusioni sul tema, visto che per lo stesso ministro dell’Interno Maroni, collega di partito, sequestrare un bene equivale a confiscarlo e ad arrestare i mafiosi sono i ministri…
Secondariamente, Castelli è male informato oppure trascura colpevolmente il fatto che alcuni dei beni confiscati a Coco Trovato e recepiti con atto amministrativo da quella giunta che governava Lecco in quegli anni, in pieno 2010 sono ancora inutilizzabili e non destinati. Per informazioni il viceministro potrebbe chiedere all’attuale amministrazione comunale di Lecco che sconta gli errori del passato, ancora oggi invece rivendicati come meriti dalla Lega Nord.

Clandestini criminali e mafiosi impuniti
In attesa di capire meglio nei prossimi giorni i contorni della pubblica denuncia di Bossi o in attesa di una smentita successiva – non sarebbe una novità per il ministro delle Riforme, che in passato ha più volte utilizzato lo strumento della dichiarazione ad effetto, salvo puntualmente rettificare quanto aveva detto – giova, senza dubbio, ricordare che per la Lega Nord la questione mafia è sempre stato un tasto dolente, nonostante i proclami lanciati da Pontida.
La Lega da decenni va soffiando sul vento dell’intolleranza, predicando rigore e pugno duro contro i clandestini e facendo diventare scorrettamente una vera emergenza criminale l’immigrazione, che resta comunque un problema sociale. Quest’azione politica ha assunto anche il ruolo di una vera e propria campagna culturale che ha finito per spostare l’enfasi della repressione giudiziaria e poliziesca sui reati commessi dagli stranieri.
Il risultato è che parlare di mafie al nord è ancora oggi un tabù, soprattutto per quella larga fetta di cittadinanza che vota centrodestra e Lega in particolare.
Per costoro le mafie sono un problema dei “terroni”, tanto da spingere nel 2009 il sindaco leghista di Ponteranica (BG) a revocare l’intitolazione della biblioteca locale a Peppino Impastato perché “non è uno dei nostri morti”.
Per costoro le mafie sono un problema del sud, un fenomeno deviato tanto da arrivare a proporre la costituzione della Sicilia in repubblica autonoma gestita dalla mafia. Era stato il professor Miglio, l’allora ideologo della Lega, a proporre di realizzare un porto franco nel Mediterraneo; eravamo tra il 1992 e il 1994, quando le bombe di Cosa Nostra facevano saltare per aria magistrati e monumenti. Forse anche su questo aspetto sarebbe opportuno un approfondimento in sede giudiziaria.
Sull’onda di queste pericolose sottovalutazioni, fenomeni quali la mafia e la ‘ndrangheta sono oggi pienamente inserite – altro che infiltrate! – nel tessuto economico e sociale di quella che i dirigenti e i militanti leghisti si ostinano a chiamare, contro ogni logica e contro la storia, Padania.
Ha ragione Saviano quando chiede dove era la Lega mentre le mafie si insinuavano al nord.
Suggeriamo ai dirigenti leghisti di studiare le carte e di ripresentarsi più preparati, perché oggi la partita antimafia si sta già giocando al nord da tempo e, facendo così, corrono il rischio di essere superati drammaticamente dai fatti.

Fonte:Articolo 21

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venerdì 13 agosto 2010

Immigrazione, l’Economist: “La Lega Nord non ha fermato un bel niente”

Di Tommaso Caldarelli


Intervento del settimanale londinese sul traffico di umani fra le due sponde del mediterraneo. “Quel che dice il Carroccio non è vero: il calo degli ingressi è fisiologico e dato dall’attuale situazione politica. Ma gli sbarchi torneranno”.

E’ grande il rumore che fa la Lega Nord, quando si rivende i suoi successi sull’immigrazione. “Abbiamo fermato l’invasione”, urla uno dei manifesti del Carroccio, e quando si tratta di enucleare i successi del governo Berlusconi, gli esponenti in doppiopetto e fazzoletto verde d’ordinanza li mettono in fila in rapida successione: “Lotta alla mafia, sicurezza e immigrazione: gli sbarchi si sono fermati”.

abbiamo fermato linvasione grande Immigrazione, lEconomist: La Lega Nord non ha fermato un bel nienteMENO IMMIGRATI -Si, è vero. Lo scrive anche l’Economist, in edicola domani. “I dati provenienti dall’agenzia europea per il controllo delle frontiere, la Frontex, mostrano che solamente 150 persone hanno raggiunto l’Italia e Malta nel primo quarto del 2010, in confronto alle 5200 dello stesso periodo del 2009″. Dove sono finiti, si chiede il settimanale londinese? “Che fine hanno fatto?”. La risposta, secondoLondra, sarebbe duplice. In parte politica, in parte complessivamentegeo-politica. Ovvero, “i governi dell’Europa centrale hanno usato la diplomazia (e stanziato fondi), per risolvere il problema”; ad esempio inSpagna, varie amministrazioni avrebbero convinto i paesi di partenza a“spostare i porti disponibili per le partenze verso l’Europa più a sud, rendendo il viaggio verso le Canarie molto meno conveniente”. E per quanto riguarda l’Italia, viene richiamato l’accordo diplomatico fraSilvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi, che consente dirispedire in Libia le navi della disperazione, se vengono intercettate dalla guardia costiera. Un’accordo definito quantomeno“controverso”.

foto 8569535 28420 Immigrazione, lEconomist: La Lega Nord non ha fermato un bel nienteTUTTO FINITO? -Tutto questo però, continua l’Economist, non vuol dire che l’immigrazione sia cessata. “Dopo l’accordo fra Berlusconi e Gheddafi”, spiega il settimanale, “è verosimile che molti che avrebbero voluto passare dall’Italia stanno ora cercando una via di ingresso più ad est.” Sempre secondo la Frontex, infatti, quattro quinti degli immigrati nel 2010 sono stati bloccati inGrecia. Dunque, quel che proclama la Lega “non è vero”: secondo laCaritas, infatti, una fantomatica invasione non c’è innanzitutto mai stata. “Persino nel 2008 (l’anno del picco dell’immigrazione, ndr),gli ingressi in Italia via mare sono stati solo un quinto del totale europeo; e l’invasione, in ogni caso, non si è affatto fermata. Il ritiro americano dall’Iraq, la ripresa economica in Europa e un sacco di altri fattori potrebbero un giorno spingere di nuovo in alto il numero delle persone disposte a correre il rischio“.

LE CAUSE SONO ALTRE – Già, perchè quel che ha veramente fatto diminuire i flussi immigratori nel 2010 non è Bossi, ma, come dicevamo, il concorso di due fattori: primo, “il livello di instabilità in aree difficili del mondo”, e l’Economist ricorda che “la Somalia, l’Iraq e la Palestina hanno avuto, in passato, anni ben più difficili del 2009″; secondo, la situazione economica europea, che attualmente non costituirebbe un piatto invitante persino per i disperati del terzo mondo: basti pensare alla Spagna, che attirava immigrati “in cerca di opportunità economiche: ma la crisi che ora la stringe potrebbe addirittura invertire la direzione del flusso migratorio”: ovvero, invogliare cittadini europei ademigrare. E allora, si passerebbe dall’invasione all’esodo di massa.

Fonte:Giornalettismo


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Di Tommaso Caldarelli


Intervento del settimanale londinese sul traffico di umani fra le due sponde del mediterraneo. “Quel che dice il Carroccio non è vero: il calo degli ingressi è fisiologico e dato dall’attuale situazione politica. Ma gli sbarchi torneranno”.

E’ grande il rumore che fa la Lega Nord, quando si rivende i suoi successi sull’immigrazione. “Abbiamo fermato l’invasione”, urla uno dei manifesti del Carroccio, e quando si tratta di enucleare i successi del governo Berlusconi, gli esponenti in doppiopetto e fazzoletto verde d’ordinanza li mettono in fila in rapida successione: “Lotta alla mafia, sicurezza e immigrazione: gli sbarchi si sono fermati”.

abbiamo fermato linvasione grande Immigrazione, lEconomist: La Lega Nord non ha fermato un bel nienteMENO IMMIGRATI -Si, è vero. Lo scrive anche l’Economist, in edicola domani. “I dati provenienti dall’agenzia europea per il controllo delle frontiere, la Frontex, mostrano che solamente 150 persone hanno raggiunto l’Italia e Malta nel primo quarto del 2010, in confronto alle 5200 dello stesso periodo del 2009″. Dove sono finiti, si chiede il settimanale londinese? “Che fine hanno fatto?”. La risposta, secondoLondra, sarebbe duplice. In parte politica, in parte complessivamentegeo-politica. Ovvero, “i governi dell’Europa centrale hanno usato la diplomazia (e stanziato fondi), per risolvere il problema”; ad esempio inSpagna, varie amministrazioni avrebbero convinto i paesi di partenza a“spostare i porti disponibili per le partenze verso l’Europa più a sud, rendendo il viaggio verso le Canarie molto meno conveniente”. E per quanto riguarda l’Italia, viene richiamato l’accordo diplomatico fraSilvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi, che consente dirispedire in Libia le navi della disperazione, se vengono intercettate dalla guardia costiera. Un’accordo definito quantomeno“controverso”.

foto 8569535 28420 Immigrazione, lEconomist: La Lega Nord non ha fermato un bel nienteTUTTO FINITO? -Tutto questo però, continua l’Economist, non vuol dire che l’immigrazione sia cessata. “Dopo l’accordo fra Berlusconi e Gheddafi”, spiega il settimanale, “è verosimile che molti che avrebbero voluto passare dall’Italia stanno ora cercando una via di ingresso più ad est.” Sempre secondo la Frontex, infatti, quattro quinti degli immigrati nel 2010 sono stati bloccati inGrecia. Dunque, quel che proclama la Lega “non è vero”: secondo laCaritas, infatti, una fantomatica invasione non c’è innanzitutto mai stata. “Persino nel 2008 (l’anno del picco dell’immigrazione, ndr),gli ingressi in Italia via mare sono stati solo un quinto del totale europeo; e l’invasione, in ogni caso, non si è affatto fermata. Il ritiro americano dall’Iraq, la ripresa economica in Europa e un sacco di altri fattori potrebbero un giorno spingere di nuovo in alto il numero delle persone disposte a correre il rischio“.

LE CAUSE SONO ALTRE – Già, perchè quel che ha veramente fatto diminuire i flussi immigratori nel 2010 non è Bossi, ma, come dicevamo, il concorso di due fattori: primo, “il livello di instabilità in aree difficili del mondo”, e l’Economist ricorda che “la Somalia, l’Iraq e la Palestina hanno avuto, in passato, anni ben più difficili del 2009″; secondo, la situazione economica europea, che attualmente non costituirebbe un piatto invitante persino per i disperati del terzo mondo: basti pensare alla Spagna, che attirava immigrati “in cerca di opportunità economiche: ma la crisi che ora la stringe potrebbe addirittura invertire la direzione del flusso migratorio”: ovvero, invogliare cittadini europei ademigrare. E allora, si passerebbe dall’invasione all’esodo di massa.

Fonte:Giornalettismo


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giovedì 15 luglio 2010

Pregiudizi verso gli stranieri? Il Cnel li smentisce



Di Sirio Valent

Più immigrati, più delinquenti? E’ il luogo comune da sempre affibbiato al diverso, il tipico pregiudizio frutto di ignoranza e paura. Per fortuna, la statistica lo smentisce. Come mostra il VII Rapporto sull’Integrazione degli Immigrati, stilato da Migrantes/Caritas per il Cnel, in tre anni (2005-2008) il numero di denunce a carico di immigrati è aumentato in modo molto più modesto rispetto alla crescita della presenza straniera nel nostro paese, rientrando nei limiti fisiologici. E non solo: la paura dei romeni appare decisamente esagerata e infondata rispetto ai dati. I numeri hanno la bella capacità di andare oltre i pregiudizi, e di sondare la realtà così com’è. Nel Rapporto voluto dal Cnel, è la realtà dell’integrazione degli stranieri nel nostro paese quella che conta. E mostra dati interessanti, sia sul versante della criminalità che su quello dell’integrazione sociale e occupazionale.Vediamole.

Criminalità. Secondo dati Istat e Migrantes/Caritas, il flusso migratorio di stranieri in Italia è aumentato del 45,7% tra il 2005 e il 2008, passando da 1,2 a 3,9 milioni di immigrati residenti. Se l’equazione “più immigrazione uguale più criminalità” fosse vera, l’incremento della malvivenza tra gli stranieri dovrebbe essere simile a questo dato: invece, come mostrano le statistiche del ministero dell’Interno, il numero di denunce a loro carico è salito di appena il 19%, valore tutto sommato fisiologico. Se poi contiamo anche gli illegali, allora la “percentuale di delinquenza” degli stranieri si abbassa ulteriormente: più immigrati presenti sul territorio a fronte dello stesso numero di denunce significa una minor frequenza di delinquenti tra gli immigrati. I nuovi arrivi, inoltre, sono molto più virtuosi della popolazione già stabilita (di italiani e stranieri), e contribuiscono a ridurre il tasso di pericolosità delle nostre strade. Considerazione, questa, in netta controtendenza al clima di paura diffusa, legata all’immigrazione, che negli ultimi due anni ha portato a misure di sicurezza sempre più forti.

Il Rapporto getta poi un occhio tra le diverse comunità di immigrati in Italia, e salta fuori un’altra sorpresa: quella romena, pur non essendo esente dal fenomeno criminalità, non è la comunità straniera più pericolosa. Nonostante registri il maggior aumento numerico di denunce, infatti, è solo la quinta tra i primi dieci gruppi etnici più grandi: maglia nera all’Egitto, che ha visto più che raddoppiare le denunce, seguita da Tunisia, Marocco e Nigeria. Virtuosa invece la Moldavia, che pur crescendo significativamente a livello numerico, ha visto diminuire del 15% i propri carichi penali.

Integrazione. Sul fronte dell’integrazione, il Rapporto confronta tre indici diversi, verificando l’attrattività di un territorio per gli stranieri, il potenziale di integrazione sociale (soprattutto attraverso l’accesso ai servizi sociali) e le condizioni lavorative. La graduatoria che sintetizza i diversi indicatori vede al primo posto l’Emilia Romagna, che si conferma (con un valore di 60,82 su una scala da 1 a 100), come la regione con il piu’ alto potenziale di integrazione in Italia. ”In particolare, - sottolinea il Cnel – il contesto emiliano-romagnolo si afferma al primo posto per livello generale di inserimento sociale degli immigrati, insieme alle altre regioni del Nord Est, mentre quanto all’inserimento occupazionale e’, nel complesso, solo quinta dopo la Lombardia, la Toscana, il Lazio e il Friuli Venezia Giulia”.
Al secondo posto nella graduatoria assoluta troviamo proprio il Friuli, seguita dalla Lombardia e dal Lazio, che precedono le altre regioni del Nord Est (Veneto e Trentino Alto Adige) e la Toscana. Nelle ultime posizioni si trovano l’Abruzzo e la Puglia, con la Sardegna a fare da fanalino di coda. Per quanto riguarda, invece, l’inserimento occupazionale per comunita’ di migranti, l’indice di integrazione stilato dal Cnel pone al primo posto l’India e non la Romania, cosi’ come la Moldavia precede l’Albania e l’Ucraina il Marocco (127).

Piano Governo. A margine, il documento stilato dal Cnel avanza una prima valutazione del “Piano di integrazione nella sicurezza – Identità e Incontro”, presentato in questo periodo dal Governo. Gli artefici del Rapporto evidenziano due criticità sostanziali, che attraversano l’intero documento governativo: all’immigrazione non viene riconosciuto un vero potenziale di sviluppo, ma solo di tensioni, mentre i problemi di integrazione vengono considerati “nuovi” e non legati a difficoltà socio-economiche di lunga data (dalle condizioni del Mezzogiorno, del lavoro nero, della criminalità organizzata…). Soprattutto nei settori dell’Educazione e degli Alloggi, che ancora attendono di veder confermati nei fatti i teorici diritti alla casa e all’istruzione (peraltro controversi in certe parti della maggioranza…). Ne risulta, secondo il Cnel, un Piano “privo di quella valenza generale, che consentirebbe di trasformare il provvedimento in straordinaria occasione riformatrice”.

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Di Sirio Valent

Più immigrati, più delinquenti? E’ il luogo comune da sempre affibbiato al diverso, il tipico pregiudizio frutto di ignoranza e paura. Per fortuna, la statistica lo smentisce. Come mostra il VII Rapporto sull’Integrazione degli Immigrati, stilato da Migrantes/Caritas per il Cnel, in tre anni (2005-2008) il numero di denunce a carico di immigrati è aumentato in modo molto più modesto rispetto alla crescita della presenza straniera nel nostro paese, rientrando nei limiti fisiologici. E non solo: la paura dei romeni appare decisamente esagerata e infondata rispetto ai dati. I numeri hanno la bella capacità di andare oltre i pregiudizi, e di sondare la realtà così com’è. Nel Rapporto voluto dal Cnel, è la realtà dell’integrazione degli stranieri nel nostro paese quella che conta. E mostra dati interessanti, sia sul versante della criminalità che su quello dell’integrazione sociale e occupazionale.Vediamole.

Criminalità. Secondo dati Istat e Migrantes/Caritas, il flusso migratorio di stranieri in Italia è aumentato del 45,7% tra il 2005 e il 2008, passando da 1,2 a 3,9 milioni di immigrati residenti. Se l’equazione “più immigrazione uguale più criminalità” fosse vera, l’incremento della malvivenza tra gli stranieri dovrebbe essere simile a questo dato: invece, come mostrano le statistiche del ministero dell’Interno, il numero di denunce a loro carico è salito di appena il 19%, valore tutto sommato fisiologico. Se poi contiamo anche gli illegali, allora la “percentuale di delinquenza” degli stranieri si abbassa ulteriormente: più immigrati presenti sul territorio a fronte dello stesso numero di denunce significa una minor frequenza di delinquenti tra gli immigrati. I nuovi arrivi, inoltre, sono molto più virtuosi della popolazione già stabilita (di italiani e stranieri), e contribuiscono a ridurre il tasso di pericolosità delle nostre strade. Considerazione, questa, in netta controtendenza al clima di paura diffusa, legata all’immigrazione, che negli ultimi due anni ha portato a misure di sicurezza sempre più forti.

Il Rapporto getta poi un occhio tra le diverse comunità di immigrati in Italia, e salta fuori un’altra sorpresa: quella romena, pur non essendo esente dal fenomeno criminalità, non è la comunità straniera più pericolosa. Nonostante registri il maggior aumento numerico di denunce, infatti, è solo la quinta tra i primi dieci gruppi etnici più grandi: maglia nera all’Egitto, che ha visto più che raddoppiare le denunce, seguita da Tunisia, Marocco e Nigeria. Virtuosa invece la Moldavia, che pur crescendo significativamente a livello numerico, ha visto diminuire del 15% i propri carichi penali.

Integrazione. Sul fronte dell’integrazione, il Rapporto confronta tre indici diversi, verificando l’attrattività di un territorio per gli stranieri, il potenziale di integrazione sociale (soprattutto attraverso l’accesso ai servizi sociali) e le condizioni lavorative. La graduatoria che sintetizza i diversi indicatori vede al primo posto l’Emilia Romagna, che si conferma (con un valore di 60,82 su una scala da 1 a 100), come la regione con il piu’ alto potenziale di integrazione in Italia. ”In particolare, - sottolinea il Cnel – il contesto emiliano-romagnolo si afferma al primo posto per livello generale di inserimento sociale degli immigrati, insieme alle altre regioni del Nord Est, mentre quanto all’inserimento occupazionale e’, nel complesso, solo quinta dopo la Lombardia, la Toscana, il Lazio e il Friuli Venezia Giulia”.
Al secondo posto nella graduatoria assoluta troviamo proprio il Friuli, seguita dalla Lombardia e dal Lazio, che precedono le altre regioni del Nord Est (Veneto e Trentino Alto Adige) e la Toscana. Nelle ultime posizioni si trovano l’Abruzzo e la Puglia, con la Sardegna a fare da fanalino di coda. Per quanto riguarda, invece, l’inserimento occupazionale per comunita’ di migranti, l’indice di integrazione stilato dal Cnel pone al primo posto l’India e non la Romania, cosi’ come la Moldavia precede l’Albania e l’Ucraina il Marocco (127).

Piano Governo. A margine, il documento stilato dal Cnel avanza una prima valutazione del “Piano di integrazione nella sicurezza – Identità e Incontro”, presentato in questo periodo dal Governo. Gli artefici del Rapporto evidenziano due criticità sostanziali, che attraversano l’intero documento governativo: all’immigrazione non viene riconosciuto un vero potenziale di sviluppo, ma solo di tensioni, mentre i problemi di integrazione vengono considerati “nuovi” e non legati a difficoltà socio-economiche di lunga data (dalle condizioni del Mezzogiorno, del lavoro nero, della criminalità organizzata…). Soprattutto nei settori dell’Educazione e degli Alloggi, che ancora attendono di veder confermati nei fatti i teorici diritti alla casa e all’istruzione (peraltro controversi in certe parti della maggioranza…). Ne risulta, secondo il Cnel, un Piano “privo di quella valenza generale, che consentirebbe di trasformare il provvedimento in straordinaria occasione riformatrice”.

sabato 24 aprile 2010

Il sindaco di Adro cita il discorso del premier australiano. Peccato sia un falso

Fonte:Diritto di critica

Quello che ha lasciato in molti di noi la puntata di ieri sera di Annozero è stata un strana sensazione, espressa molte bene da Sandro Ruotolo nel suo duro commento finale che descriveva «un clima di intolleranza e di odio mai sentito in 22 anni di carriera». I vari interventi del Sindaco di Adro, Oscar Lancini, applauditissimi dai suoi concittadini e elettori hanno mostrato un tipo di cultura molto presente in questo paese, fondata sulla continua accentuazione della paura nei confronti del diverso, coadiuvata da sentimenti come il mero fastidio o peggio ancora l’odio razziale. Per avvalorare le sue parole e il suo credo il primo cittadino del comune bresciano ha citato le parole del premier australiano John Howard:

«Gli immigrati non australiani devono adattarsi! Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura. La nostra cultura si è sviluppata attraverso lotte, vittorie, conquiste portate avanti da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà.
La nostra lingua ufficiale è l’inglese, non lo spagnolo, il libanese, l’arabo, il cinese, il giapponese, o qualsiasi altra lingua. Di conseguenza, se desiderate far parte della nostra società, imparatene la lingua!
La maggior parte degli Australiani crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo, d’influenza della destra o di pressione politica, ma è un fatto, perché degli uomini e delle donne hanno fondato questa nazione su dei principi cristiani e questo è ufficialmente insegnato. E’ quindi appropriato che questo si veda sui muri delle nostre scuole. Se Dio vi offende, vi suggerisco allora di prendere in considerazione un’altra parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura. Noi accetteremo le vostre credenze senza fare domande. Tutto ciò che vi domandiamo è di accettare le nostre, e di vivere in armonia pacificamente con noi.
Questo è il nostro paese; la nostra terra e il nostro stile di vita. E vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, il nostro impegno, le nostre credenze cristiane o il nostro stile di vita, allora vi incoraggio fortemente ad approfittare di un’altra grande libertà australiana: il diritto ad andarvene. Se non siete felici qui, allora partite. Non vi abbiamo forzati a venire qui, siete voi che avete chiesto di essere qui. Allora rispettate il paese che vi ha accettati».

Le cose importanti da dire su questo discorso sono due. La prima è che di tratta di un falso. Svariate ricerche su internet hanno infatti dimostrato che queste parole apparterrebbero in realtà a Barry Loudermilk, un comune cittadino veterano dell’aviazione militare americana che le scrisse per un giornale locale statunitense nei giorni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001. Versione avvalorata anche dall’ambasciatore australiano in Italia, Amanda Vanstone che rispose cosi a Panorama “colpevole” di aver pubblicato anch’esso una parte di questo discorso:

«Scrivo in merito alla lettera «Ricetta australiana» che attribuisce commetti sull’immigrazione e sulla religione al primo ministro australiano John Howard. I commenti sono completamente inventati. Howard, inoltre non è più primo ministro australiano da dicembre 2007.L’attuale primo ministro è Kevin Rudd».

La seconda valutazione invece è puramente politica. Fossero anche vere le parole del suo primo ministro, è giusto ricordare che l’Australia di cui parlava il sindaco è nata dal colonialismo e dall’immigrazione. L’ideologia leghista dovrebbe quindi portare i suoi componenti non a difendere colonizzatori di lingua inglesi e religione cristiana ma a prodigarsi nella salvaguardia delle tribù indigene, che non sfigurerebbero al posto degli indiani usati in uno loro celeberrimo spot elettorale. Un altro esempio di serietà e coerenza leghista?

Scritto da Simone Pomi in data 23 aprile 2010
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Fonte:Diritto di critica

Quello che ha lasciato in molti di noi la puntata di ieri sera di Annozero è stata un strana sensazione, espressa molte bene da Sandro Ruotolo nel suo duro commento finale che descriveva «un clima di intolleranza e di odio mai sentito in 22 anni di carriera». I vari interventi del Sindaco di Adro, Oscar Lancini, applauditissimi dai suoi concittadini e elettori hanno mostrato un tipo di cultura molto presente in questo paese, fondata sulla continua accentuazione della paura nei confronti del diverso, coadiuvata da sentimenti come il mero fastidio o peggio ancora l’odio razziale. Per avvalorare le sue parole e il suo credo il primo cittadino del comune bresciano ha citato le parole del premier australiano John Howard:

«Gli immigrati non australiani devono adattarsi! Prendere o lasciare, sono stanco che questa nazione debba preoccuparsi di sapere se offendiamo alcuni individui o la loro cultura. La nostra cultura si è sviluppata attraverso lotte, vittorie, conquiste portate avanti da milioni di uomini e donne che hanno ricercato la libertà.
La nostra lingua ufficiale è l’inglese, non lo spagnolo, il libanese, l’arabo, il cinese, il giapponese, o qualsiasi altra lingua. Di conseguenza, se desiderate far parte della nostra società, imparatene la lingua!
La maggior parte degli Australiani crede in Dio. Non si tratta di obbligo di cristianesimo, d’influenza della destra o di pressione politica, ma è un fatto, perché degli uomini e delle donne hanno fondato questa nazione su dei principi cristiani e questo è ufficialmente insegnato. E’ quindi appropriato che questo si veda sui muri delle nostre scuole. Se Dio vi offende, vi suggerisco allora di prendere in considerazione un’altra parte del mondo come vostro paese di accoglienza, perché Dio fa parte delle nostra cultura. Noi accetteremo le vostre credenze senza fare domande. Tutto ciò che vi domandiamo è di accettare le nostre, e di vivere in armonia pacificamente con noi.
Questo è il nostro paese; la nostra terra e il nostro stile di vita. E vi offriamo la possibilità di approfittare di tutto questo. Ma se non fate altro che lamentarvi, prendervela con la nostra bandiera, il nostro impegno, le nostre credenze cristiane o il nostro stile di vita, allora vi incoraggio fortemente ad approfittare di un’altra grande libertà australiana: il diritto ad andarvene. Se non siete felici qui, allora partite. Non vi abbiamo forzati a venire qui, siete voi che avete chiesto di essere qui. Allora rispettate il paese che vi ha accettati».

Le cose importanti da dire su questo discorso sono due. La prima è che di tratta di un falso. Svariate ricerche su internet hanno infatti dimostrato che queste parole apparterrebbero in realtà a Barry Loudermilk, un comune cittadino veterano dell’aviazione militare americana che le scrisse per un giornale locale statunitense nei giorni successivi agli attentati dell’11 settembre 2001. Versione avvalorata anche dall’ambasciatore australiano in Italia, Amanda Vanstone che rispose cosi a Panorama “colpevole” di aver pubblicato anch’esso una parte di questo discorso:

«Scrivo in merito alla lettera «Ricetta australiana» che attribuisce commetti sull’immigrazione e sulla religione al primo ministro australiano John Howard. I commenti sono completamente inventati. Howard, inoltre non è più primo ministro australiano da dicembre 2007.L’attuale primo ministro è Kevin Rudd».

La seconda valutazione invece è puramente politica. Fossero anche vere le parole del suo primo ministro, è giusto ricordare che l’Australia di cui parlava il sindaco è nata dal colonialismo e dall’immigrazione. L’ideologia leghista dovrebbe quindi portare i suoi componenti non a difendere colonizzatori di lingua inglesi e religione cristiana ma a prodigarsi nella salvaguardia delle tribù indigene, che non sfigurerebbero al posto degli indiani usati in uno loro celeberrimo spot elettorale. Un altro esempio di serietà e coerenza leghista?

Scritto da Simone Pomi in data 23 aprile 2010
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martedì 26 gennaio 2010

Razzismo su Facebook: 400 i gruppi antimeridionali, 100 gli antimusulmani

Il social network come luogo di confessioni e violenze verbali: oltre 800 i gruppi italiani che fomentano il razzismo.

di Danilo Massa

I fatti di Rosarno ed una tensione crescente hanno spinto numerosi italiani a dimostrare la propria solidarietà nei confronti degli immigrati. Solidarietà che è stata visibile sia nella realtà, sia nella virtualità. Dopo gli scontri calabresi, infatti, è sorto su Facebook il gruppo "Solidarietà agli immigrati di Rosarno". Ma al di là dell'evento di cronaca - pericoloso segnale di tendenze maggiori - non mancano gruppi che avversano la discrimiazione biologica in generale, come "No-razzismo".

Tuttavia, crescita dei flussi migratori, flessibilità e disoccupazione hanno aggiunto alle motivazioni biologiche del razzismo anche le fobie legate a tendenze di medio-lungo periodo. Questa è la sintesi della ricerca condotta da Swg, che rileva su Facebook la presenza di centinaia di gruppi italiani chiaramente rivolti contro gli immigrati.

Le motivazioni dell’avversione nei confronti dello straniero vanno dalla diversità biologica alla paura di aggressioni, fino alla perdita del lavoro. Talvolta sono gruppi che hanno vita breve, nascono per poi scomparire poco dopo. Altri sono attivi da tempo, arrivando talvolta a fondersi tra loro. In alcuni, infine, possono ritrovarsi anche 7 mila iscritti.

Molteplice il target degli internauti: su Facebook si può incappare tanto nel gruppo ostile allo straniero in generale, quanto a quello “dedicato” ad un determinato popolo. Contro i musulmani vi sono circa 100 gruppi, 300 quelli rivolti contro gli zingari. Numeri elevati anche per le pagine rivolte a marocchini, rumeni, cinesi ed ebrei.

Ma a condurre la classifica, a quota 400, sono i gruppi anti-terroni e anti-napoletani: uno dei razzismi più antichi, con il quale si dimostra che per la condivisione di un'identità non è sufficiente nemmeno la cittadinanza e la convivenza nello stesso territorio politico. Anzi, quanto più la compresenza è imposta con coercizione e violenza, tanto più il razzismo interviene per ristabilire quelle distanze azzeratesi nello spazio fisico.

http://magazine.ciaopeople.com/Cellulari_Web-10/Facebook-1000021/Razzismo_su_Facebook:_400_i_gruppi_antimeridionali,_100_gli_antimusulmani-17966
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Il social network come luogo di confessioni e violenze verbali: oltre 800 i gruppi italiani che fomentano il razzismo.

di Danilo Massa

I fatti di Rosarno ed una tensione crescente hanno spinto numerosi italiani a dimostrare la propria solidarietà nei confronti degli immigrati. Solidarietà che è stata visibile sia nella realtà, sia nella virtualità. Dopo gli scontri calabresi, infatti, è sorto su Facebook il gruppo "Solidarietà agli immigrati di Rosarno". Ma al di là dell'evento di cronaca - pericoloso segnale di tendenze maggiori - non mancano gruppi che avversano la discrimiazione biologica in generale, come "No-razzismo".

Tuttavia, crescita dei flussi migratori, flessibilità e disoccupazione hanno aggiunto alle motivazioni biologiche del razzismo anche le fobie legate a tendenze di medio-lungo periodo. Questa è la sintesi della ricerca condotta da Swg, che rileva su Facebook la presenza di centinaia di gruppi italiani chiaramente rivolti contro gli immigrati.

Le motivazioni dell’avversione nei confronti dello straniero vanno dalla diversità biologica alla paura di aggressioni, fino alla perdita del lavoro. Talvolta sono gruppi che hanno vita breve, nascono per poi scomparire poco dopo. Altri sono attivi da tempo, arrivando talvolta a fondersi tra loro. In alcuni, infine, possono ritrovarsi anche 7 mila iscritti.

Molteplice il target degli internauti: su Facebook si può incappare tanto nel gruppo ostile allo straniero in generale, quanto a quello “dedicato” ad un determinato popolo. Contro i musulmani vi sono circa 100 gruppi, 300 quelli rivolti contro gli zingari. Numeri elevati anche per le pagine rivolte a marocchini, rumeni, cinesi ed ebrei.

Ma a condurre la classifica, a quota 400, sono i gruppi anti-terroni e anti-napoletani: uno dei razzismi più antichi, con il quale si dimostra che per la condivisione di un'identità non è sufficiente nemmeno la cittadinanza e la convivenza nello stesso territorio politico. Anzi, quanto più la compresenza è imposta con coercizione e violenza, tanto più il razzismo interviene per ristabilire quelle distanze azzeratesi nello spazio fisico.

http://magazine.ciaopeople.com/Cellulari_Web-10/Facebook-1000021/Razzismo_su_Facebook:_400_i_gruppi_antimeridionali,_100_gli_antimusulmani-17966

mercoledì 13 gennaio 2010

La Rosarno padovana: «Costretto a vivere in stalla e a lavorare 12 ore al giorno»




La denuncia: anche a Nordest c'è chi vive come uno schiavo
«Pagati pochi euro e picchiati, ma solo pochi denunciano»


di Donatella Vetuli

PADOVA (11 gennaio) - Picchiati e sottopagati. Costretti a lavorare nei campi anche per 12 ore al giorno. C’è chi è fuggito, come la ragazza romena con le mani corrose dall’acqua, c’è chi ha avuto il coraggio di denunciare il datore di lavoro che lo pestava e lo obbligava a dormire in un giaciglio, nella stalla.

Non siamo in Calabria, ma nelle ordinate campagne del Nordest, dove lo sfruttamento e l’apartheid sono comune denominatore per i tanti lavoratori stranieri stagionali. L’allarme arriva dalla Cgil. «Al Sud il fenomeno è più visibile, perchè ha un riscontro mediatico - afferma Alessandra Stivali, responsabile del dipartimento immigrazione della Cgil di Padova - ma anche da noi le condizioni degli immigrati in agricoltura, soprattutto nelle coltivazioni più diffuse, di patate e radicchio, sono drammatiche, e purtroppo sconosciute. Spesso si tratta di lavoratori in nero, con salari da fame. Seguiamo ancora il caso di un ragazzo marocchino che era stato assunto in un’azienda agricola nel Piovese. Era obbligato a lavorare 12 ore al giorno, veniva pagato 4 euro all’ora e viveva nella stalla. Maltrattato e picchiato. Lui ha avuto coraggio: ha denunciato il datore di lavoro».

Secondo gli ultimi dati dell’osservatorio regionale sull’immigrazione, gli stranieri occupati a tempo determinato, in tutto il Veneto, sono 36 mila. In provincia di Padova 2592, oltre il 7 per cento, lavorano nell’agricoltura, 1764 nel turismo. La nazionalità più rappresentativa è quella romena, mentre i marocchini sono i più numerosi tra gli extracomunitari. «Purtroppo in agricoltura il lavoro nero è diffusissimo - afferma Alessandra Stivali - ed è naturalmente difficile quantificarlo. Ma anche per gli oltre 2500 regolari, la situazione non è facile. In molti casi non vengono retribuiti secondo contratto, non percepiscono più di 3 o 4 euro all’ora, dovendo impegnarsi tutta la giornata. Hanno paura di ribellarsi, paura di perdere il permesso di soggiorno. Qualche tempo fa una ragazza romena, assunta in un’azienda agricola padovana, è scappata. Stava nell’acqua 13 ore al giorno a coltivare radicchio. Le mani corrose, una condizione disumana. Il problema è che quello dell’agricoltura è un mondo difficile da controllare anche per la molteplicità di piccole aziende che lo compongono e che non producono tutto l’anno. E con i venti di crisi attuali, la situazione è ulteriormente peggiorata: orario ridotto a condizioni disperate».

E per chi viene chiamato a un lavoro stagionale, c’è anche la trappola burocratica. Continua Alessandra Stivali: «Spesso le procedure per i permessi di soggiorno sono talmente lunghe che quando gli stranieri arrivano da noi il lavoro non c’è più».

Fonte:Il Gazzettino.it


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La denuncia: anche a Nordest c'è chi vive come uno schiavo
«Pagati pochi euro e picchiati, ma solo pochi denunciano»


di Donatella Vetuli

PADOVA (11 gennaio) - Picchiati e sottopagati. Costretti a lavorare nei campi anche per 12 ore al giorno. C’è chi è fuggito, come la ragazza romena con le mani corrose dall’acqua, c’è chi ha avuto il coraggio di denunciare il datore di lavoro che lo pestava e lo obbligava a dormire in un giaciglio, nella stalla.

Non siamo in Calabria, ma nelle ordinate campagne del Nordest, dove lo sfruttamento e l’apartheid sono comune denominatore per i tanti lavoratori stranieri stagionali. L’allarme arriva dalla Cgil. «Al Sud il fenomeno è più visibile, perchè ha un riscontro mediatico - afferma Alessandra Stivali, responsabile del dipartimento immigrazione della Cgil di Padova - ma anche da noi le condizioni degli immigrati in agricoltura, soprattutto nelle coltivazioni più diffuse, di patate e radicchio, sono drammatiche, e purtroppo sconosciute. Spesso si tratta di lavoratori in nero, con salari da fame. Seguiamo ancora il caso di un ragazzo marocchino che era stato assunto in un’azienda agricola nel Piovese. Era obbligato a lavorare 12 ore al giorno, veniva pagato 4 euro all’ora e viveva nella stalla. Maltrattato e picchiato. Lui ha avuto coraggio: ha denunciato il datore di lavoro».

Secondo gli ultimi dati dell’osservatorio regionale sull’immigrazione, gli stranieri occupati a tempo determinato, in tutto il Veneto, sono 36 mila. In provincia di Padova 2592, oltre il 7 per cento, lavorano nell’agricoltura, 1764 nel turismo. La nazionalità più rappresentativa è quella romena, mentre i marocchini sono i più numerosi tra gli extracomunitari. «Purtroppo in agricoltura il lavoro nero è diffusissimo - afferma Alessandra Stivali - ed è naturalmente difficile quantificarlo. Ma anche per gli oltre 2500 regolari, la situazione non è facile. In molti casi non vengono retribuiti secondo contratto, non percepiscono più di 3 o 4 euro all’ora, dovendo impegnarsi tutta la giornata. Hanno paura di ribellarsi, paura di perdere il permesso di soggiorno. Qualche tempo fa una ragazza romena, assunta in un’azienda agricola padovana, è scappata. Stava nell’acqua 13 ore al giorno a coltivare radicchio. Le mani corrose, una condizione disumana. Il problema è che quello dell’agricoltura è un mondo difficile da controllare anche per la molteplicità di piccole aziende che lo compongono e che non producono tutto l’anno. E con i venti di crisi attuali, la situazione è ulteriormente peggiorata: orario ridotto a condizioni disperate».

E per chi viene chiamato a un lavoro stagionale, c’è anche la trappola burocratica. Continua Alessandra Stivali: «Spesso le procedure per i permessi di soggiorno sono talmente lunghe che quando gli stranieri arrivano da noi il lavoro non c’è più».

Fonte:Il Gazzettino.it


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giovedì 24 settembre 2009

Brutta storia il razzismo. La racconta Ascanio Celestini




di Mariagrazia Gerina

C’è la storia di quel sindaco... «Come si chiama? - si interrompe Ascanio Celestini - Gentilini, sì, il sindaco di Treviso. Ecco, lui ce l’ha con tutti, omosessuali, immigrati, a un certo punto si è messo a dare battaglia anche sui cani: dobbiamo difendere i cani italiani, quelli che andavano a fare le passeggiate in campagna con i nostri anziani, basta con queste razze straniere». E poi c’è la storia di quel presidente del Consiglio - Berlusconi, sì - che «una volta, dieci anni fa, era contro i respingimenti, si commuoveva, piangeva per gli immigrati, e adesso ha cambiato idea: meno lacrime, più capelli». E c’è la storia di quelli che vanno scrivendo sui muri: «Solo lame». Personaggi noti, e meno noti, del belpaese che un brutto giorno si scopre razzista. A cui Ascanio Celestini presta la voce per condurci racconto dopo racconto - qualcuno inedito, qualcuno ripreso dal suo repertorio - dentro quella brutta, bruttissima, storia che si chiama razzismo. I protagonisti? «Non bisogna andare a cercarli per forza a Pontida, basta affacciarsi al bar sotto casa...».

Il razzismo è una brutta storia. Si intitola così lo spettacolo che l’autore di “Scemo di guerra” e di “Pecora nera” porterà in giro per l’Italia. Debutto a Viterbo, il 24 settembre, al Cine-teatro “Il Genio”. E poi il 20 ottobre al Circolo Arci di Grassina (Firenze), il 21 all’Auditorium Paganini di Parma, il 22 al Cenacolo francescano di Lecco, il 19 novembre alla Camera del Lavoro di Piacenza, etc.. Ultima data a Bagno di Romagna, Teatro Garibaldi, il 29 novembre. Una tournée pensata come una campagna contro il razzismo. Promossa dall’Arci, con la collaborazione della Casa Editrice Feltrinelli.

Un viaggio nel linguaggio razzista, usato con incoscienza o con compiacimento. Nei tic, negli automatismi, nelle paure («che poi sono le stesse nostre») del razzista medio. Quello che proprio perché è consapevole di vivere un conflitto inizia dicendo «Io non sono razzista...». Imparare a fare l’orecchio alle sue parole - spiega Celestini - è lo scopo dello spettacolo: «Perché è come in guerra, una partigiana mi ha raccontato che quando le hanno sparato la prima volta non capiva perché non riconosceva il rumore delle pallottole». Ecco allo stesso modo - dice Celestini - noi dobbiamo imparare a riconoscere il «rumore del razzismo». Entrare in certi automatismi e scardinarli. Impadronirsi della narrazione che sta dietro a certi comportamenti. Perché il razzismo, appunto, è anche e soprattutto una «gran brutta storia». Un modo mistificatorio di raccontare l’altro. «Goebbels diceva: “Ripeti una bugia molte volte, alla fine la trasformi in una verità”».

Vedi alla voce sicurezza. «Per me è quella quotidiana, fatta di lavoro, scuola per i miei figli, cure mediche se ne ho bisogno», spiega Ascanio. «Il razzismo crescente nella società e quello che trasuda dalle decisioni istituzionali si stanno alimentando a vicenda», avvertono Filippo Miraglia e Paolo Beni dell’Arci, che il 17 ottobre contro il razzismo chiamerà in piazza l’altra Italia.
Un viaggio nel linguaggio razzista, usato con incoscienza o con piacere. Nei tic, negli automatismi del razzista medio. Quello che proprio perché è consapevole di vivere un conflitto inizia dicendo «Io non sono razzista...».
«È per questo - spiega Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione dell’Arci - che abbiamo chiesto al mondo della cultura di aiutarci: perché è inaccettabile che una buona maggioranza del paese consideri normale che in Italia ci possa essere una apartheid fatta di meno diritti per gli immigrati e classi separate per i loro figli».

«Il razzismo crescente nella società e quello che trasuda dalle decisioni istituzionali si stanno alimentando a vicenda», avverte Paolo Beni, che si prepara a lanciare per il 17 ottobre una manifestazione nazionale contro il razzismo. Prima a teatro, quindi, poi in piazza.

Fonte:
L'Unità
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di Mariagrazia Gerina

C’è la storia di quel sindaco... «Come si chiama? - si interrompe Ascanio Celestini - Gentilini, sì, il sindaco di Treviso. Ecco, lui ce l’ha con tutti, omosessuali, immigrati, a un certo punto si è messo a dare battaglia anche sui cani: dobbiamo difendere i cani italiani, quelli che andavano a fare le passeggiate in campagna con i nostri anziani, basta con queste razze straniere». E poi c’è la storia di quel presidente del Consiglio - Berlusconi, sì - che «una volta, dieci anni fa, era contro i respingimenti, si commuoveva, piangeva per gli immigrati, e adesso ha cambiato idea: meno lacrime, più capelli». E c’è la storia di quelli che vanno scrivendo sui muri: «Solo lame». Personaggi noti, e meno noti, del belpaese che un brutto giorno si scopre razzista. A cui Ascanio Celestini presta la voce per condurci racconto dopo racconto - qualcuno inedito, qualcuno ripreso dal suo repertorio - dentro quella brutta, bruttissima, storia che si chiama razzismo. I protagonisti? «Non bisogna andare a cercarli per forza a Pontida, basta affacciarsi al bar sotto casa...».

Il razzismo è una brutta storia. Si intitola così lo spettacolo che l’autore di “Scemo di guerra” e di “Pecora nera” porterà in giro per l’Italia. Debutto a Viterbo, il 24 settembre, al Cine-teatro “Il Genio”. E poi il 20 ottobre al Circolo Arci di Grassina (Firenze), il 21 all’Auditorium Paganini di Parma, il 22 al Cenacolo francescano di Lecco, il 19 novembre alla Camera del Lavoro di Piacenza, etc.. Ultima data a Bagno di Romagna, Teatro Garibaldi, il 29 novembre. Una tournée pensata come una campagna contro il razzismo. Promossa dall’Arci, con la collaborazione della Casa Editrice Feltrinelli.

Un viaggio nel linguaggio razzista, usato con incoscienza o con compiacimento. Nei tic, negli automatismi, nelle paure («che poi sono le stesse nostre») del razzista medio. Quello che proprio perché è consapevole di vivere un conflitto inizia dicendo «Io non sono razzista...». Imparare a fare l’orecchio alle sue parole - spiega Celestini - è lo scopo dello spettacolo: «Perché è come in guerra, una partigiana mi ha raccontato che quando le hanno sparato la prima volta non capiva perché non riconosceva il rumore delle pallottole». Ecco allo stesso modo - dice Celestini - noi dobbiamo imparare a riconoscere il «rumore del razzismo». Entrare in certi automatismi e scardinarli. Impadronirsi della narrazione che sta dietro a certi comportamenti. Perché il razzismo, appunto, è anche e soprattutto una «gran brutta storia». Un modo mistificatorio di raccontare l’altro. «Goebbels diceva: “Ripeti una bugia molte volte, alla fine la trasformi in una verità”».

Vedi alla voce sicurezza. «Per me è quella quotidiana, fatta di lavoro, scuola per i miei figli, cure mediche se ne ho bisogno», spiega Ascanio. «Il razzismo crescente nella società e quello che trasuda dalle decisioni istituzionali si stanno alimentando a vicenda», avvertono Filippo Miraglia e Paolo Beni dell’Arci, che il 17 ottobre contro il razzismo chiamerà in piazza l’altra Italia.
Un viaggio nel linguaggio razzista, usato con incoscienza o con piacere. Nei tic, negli automatismi del razzista medio. Quello che proprio perché è consapevole di vivere un conflitto inizia dicendo «Io non sono razzista...».
«È per questo - spiega Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione dell’Arci - che abbiamo chiesto al mondo della cultura di aiutarci: perché è inaccettabile che una buona maggioranza del paese consideri normale che in Italia ci possa essere una apartheid fatta di meno diritti per gli immigrati e classi separate per i loro figli».

«Il razzismo crescente nella società e quello che trasuda dalle decisioni istituzionali si stanno alimentando a vicenda», avverte Paolo Beni, che si prepara a lanciare per il 17 ottobre una manifestazione nazionale contro il razzismo. Prima a teatro, quindi, poi in piazza.

Fonte:
L'Unità
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mercoledì 26 agosto 2009

Lega, campagna d'estate. Cinica e laica (anche su Facebook)


Di Gianni Barbacetto



La campagna d'estate della Lega, contro gli sbarchi e per i “respingimenti” dei disperati che arrivano per mare sulle coste italiane, si sta dispiegando con almeno due risultati.

1. Il primo è quello di far assumere alla Lega la leadership di fatto, dentro il centrodestra e dentro il governo Berlusconi, delle politiche sull'immigrazione e sulla sicurezza, parte importante ed elettoralmente determinante della politica tout-court del centrodestra. Ma direi di più: le posizioni su clandestini e sbarchi fanno assumere alla Lega, più in generale, la leadership “culturale” del centrodestra. Sono Bossi, Calderoli e soci a dare il tono alla destra italiana, a connotarla con spietata precisione. Creando quello che l'ex ministro Giuseppe Fioroni chiama “cinismo di popolo”, diffondendo cioè l'idea che gli immigrati si meritino tutto ciò che subiscono, compresi i processi dopo i naufragi e i naufragi senza salvataggio (mai in mare si era vista una cosa simile).
Il gioco estivo di Bossi jr, Renzo (detto dal padre la Trota: Delfino sembra troppo anche a papà), e cioè “Rimbalza il clandestino”, lanciato su Facebook, non è soltanto una ragazzata: è coerente con la politica della Lega e più potente di cento editoriali.

2. Il secondo risultato ha a che fare con la laicità e i rapporti con la Chiesa cattolica. «I vescovi fanno il loro mestiere e noi facciamo il nostro», ha detto Bossi. Una frase che a sinistra si sognano. Sì, perché la Lega, sulla battaglia (sbagliata e razzista) dei respingimenti, coglie l'occasione per fare una battaglia (giusta) sulla laicità dello Stato e della politica. Ha ragione quando rivendica (seppur rozzamente) la libertà di dire e di fare ciò che ritiene politicamente più opportuno, senza interferenze del Vaticano e dei vescovi italiani. Semmai mostra tutta la strumentalità del suo agire quando invece alza la croce come vessillo politico della sua crociata anti-islam, o dice che a Milano non si devono costruire moschee perché in periferia mancano tante chiese. Ma è il mondo cattolico (o meglio: una parte di esso) a cadere nella trappola: quando accetta tutto della destra (dal razzismo di Bossi alle escort di Papi Silvio) pur di avere una legislazione in linea con la dottrina cattolica su famiglia, bioetica, finevita, scuola... Un baratto cinico come chi lo concede.

Così i ragazzi di Cl hanno applaudito al Meeting di Rimini le dichiarazioni “moderate” (in quel caso) di Roberto Calderoli. È la dimostrazione di un pregiudizio positivo nei confronti della Lega che tra i cattolici (o meglio: tra una parte di essi) fa valorizzare le aperture “ragionevoli” e dimenticare la sostanza: quel “cinismo di popolo” che la Lega diffonde ogni giorno con scelte e dichiarazioni, parole e fatti, oltre che giochini su Facebook, imbellettandolo appena con qualche furba dichiarazione d'occasione davanti a una platea cattolica, per rivendicare subito dopo una autonomia e una laicità che la sinistra si sogna.

Fonte:
Società civile del 26/08/09
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Di Gianni Barbacetto



La campagna d'estate della Lega, contro gli sbarchi e per i “respingimenti” dei disperati che arrivano per mare sulle coste italiane, si sta dispiegando con almeno due risultati.

1. Il primo è quello di far assumere alla Lega la leadership di fatto, dentro il centrodestra e dentro il governo Berlusconi, delle politiche sull'immigrazione e sulla sicurezza, parte importante ed elettoralmente determinante della politica tout-court del centrodestra. Ma direi di più: le posizioni su clandestini e sbarchi fanno assumere alla Lega, più in generale, la leadership “culturale” del centrodestra. Sono Bossi, Calderoli e soci a dare il tono alla destra italiana, a connotarla con spietata precisione. Creando quello che l'ex ministro Giuseppe Fioroni chiama “cinismo di popolo”, diffondendo cioè l'idea che gli immigrati si meritino tutto ciò che subiscono, compresi i processi dopo i naufragi e i naufragi senza salvataggio (mai in mare si era vista una cosa simile).
Il gioco estivo di Bossi jr, Renzo (detto dal padre la Trota: Delfino sembra troppo anche a papà), e cioè “Rimbalza il clandestino”, lanciato su Facebook, non è soltanto una ragazzata: è coerente con la politica della Lega e più potente di cento editoriali.

2. Il secondo risultato ha a che fare con la laicità e i rapporti con la Chiesa cattolica. «I vescovi fanno il loro mestiere e noi facciamo il nostro», ha detto Bossi. Una frase che a sinistra si sognano. Sì, perché la Lega, sulla battaglia (sbagliata e razzista) dei respingimenti, coglie l'occasione per fare una battaglia (giusta) sulla laicità dello Stato e della politica. Ha ragione quando rivendica (seppur rozzamente) la libertà di dire e di fare ciò che ritiene politicamente più opportuno, senza interferenze del Vaticano e dei vescovi italiani. Semmai mostra tutta la strumentalità del suo agire quando invece alza la croce come vessillo politico della sua crociata anti-islam, o dice che a Milano non si devono costruire moschee perché in periferia mancano tante chiese. Ma è il mondo cattolico (o meglio: una parte di esso) a cadere nella trappola: quando accetta tutto della destra (dal razzismo di Bossi alle escort di Papi Silvio) pur di avere una legislazione in linea con la dottrina cattolica su famiglia, bioetica, finevita, scuola... Un baratto cinico come chi lo concede.

Così i ragazzi di Cl hanno applaudito al Meeting di Rimini le dichiarazioni “moderate” (in quel caso) di Roberto Calderoli. È la dimostrazione di un pregiudizio positivo nei confronti della Lega che tra i cattolici (o meglio: tra una parte di essi) fa valorizzare le aperture “ragionevoli” e dimenticare la sostanza: quel “cinismo di popolo” che la Lega diffonde ogni giorno con scelte e dichiarazioni, parole e fatti, oltre che giochini su Facebook, imbellettandolo appena con qualche furba dichiarazione d'occasione davanti a una platea cattolica, per rivendicare subito dopo una autonomia e una laicità che la sinistra si sogna.

Fonte:
Società civile del 26/08/09

giovedì 2 luglio 2009

Il Ddl sicurezza diventa legge - il Vaticano: «Una legge che porterà dolore»






Dopo il federalismo fiscale un'altra legge vergognosa...




Il testo approvato con 157 voti favorevoli (PDL, Lega Nord, MPA), 124 contrari e 3 astenuti. Introdotto il reato di immigrazione clandestina



ROMA - L'aula del Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge sulla sicurezza (leggi), che ora è legge dello Stato. I sì sono stati 157 (Pdl, Lega), i no 124 (Pd, Idv, Udc), gli astenuti 3. Il provvedimento, tra le altre cose, contiene l'introduzione del reato di immigrazione clandestina e la possibilità di organizzare le ronde in città.

BAGARRE IN AULA - L'appovazione in via definitiva del disegno di legge ha infiammato palazzo Madama: I senatori dell'Italia dei Valori hanno alzato cartelli con su scritto «I veri clandestini siete voi», «Governo: clandestino del diritto». Per tutta risposta i senatori della Lega si sono alzati in piedi facendo con le mani segno di vittoria. Come una squadra compatta, con tanto di cravatte e pochette uguali, tutte "verde Padania". Soddisfazione anche tra i ministri del Carroccio presenti in Aula: quello dell'Interno Roberto Maroni si è sbracciato in segno di saluto verso i senatori della Lega.

MARONI - Il titolare del Viminale si è detto «molto soddisfatto» per l'approvazione del ddl sicurezza. Il provvedimento, ha spiegato il ministro, «conclude un lavoro iniziato un anno fa e che ha visto l'approvazione di diverse norme per il contrasto alla criminalità organizzata, all'immigrazione clandestina e per migliorare la sicurezza urbana». D'altro canto Maroni ha voluto sottolineare il «rammarico» per le «falsità» che sono circolate in merito al ddl e che hanno portato l'opposizione a votare contro. Secondo il ministro l'opposizione ha «perso un'occasione per stare dalla parte dei cittadini».

UE - Dura la condanna del pacchetto sicurezza da parte di monsignor
Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti, secondo il quale la legge porterà «dolori e difficoltà» per gli immigrati. Da Bruxelles, prima ancora che il Senato desse il via libera definitivo al disegno di legge, il commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot aveva spiegato che la Commissione europea continuerà a vigilare sul pacchetto sicurezza del governo italiano, assicurandosi che il testo approvato definitivamente al Senato rispetti le normative comunitarie sulla libera circolazione dei cittadini Ue. «Abbiamo il compito di monitorare e lo eserciteremo», ha chiarito Barrot, ricordando che Bruxelles ha già ottenuto dall’Italia l’impegno a rinunciare all'aggravante per l’immigrazione clandestina e all’espulsione automatica nei casi di condanna superiore a due anni nei casi che riguardano i cittadini comunitari.

«SOLO UN PUGNO SBATTUTO SUL TAVOLO» - Il disegno di legge sulla sicurezza che il Senato sta licenziando in questi minuti «altro non è se non un pugno sbattuto sul tavolo, ma senza alcuna efficacia dal lato della sicurezza dei cittadini e sicuramente con gravi violazioni dei diritti civili degli immigrati ai quali affidiamo la cura dei nostri cari e dei nostri beni e il cui lavoro è indispensabile per il funzionamento di miglia di imprese» aveva detto la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro mentre l'Aula del Senato si preparava al voto finale sul provvedimento, dopo un anno di discussione e di scontri politici. «Questo provvedimento ha la stessa efficacia di un pugno sbattuto sul tavolo», ha ripetuto Finocchiaro. «Anche perchè l'unico effetto che avrà sarà di rendere invisibili gli immigrati sul nostro territorio».


Fonte:Corriere della Sera
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Dopo il federalismo fiscale un'altra legge vergognosa...




Il testo approvato con 157 voti favorevoli (PDL, Lega Nord, MPA), 124 contrari e 3 astenuti. Introdotto il reato di immigrazione clandestina



ROMA - L'aula del Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge sulla sicurezza (leggi), che ora è legge dello Stato. I sì sono stati 157 (Pdl, Lega), i no 124 (Pd, Idv, Udc), gli astenuti 3. Il provvedimento, tra le altre cose, contiene l'introduzione del reato di immigrazione clandestina e la possibilità di organizzare le ronde in città.

BAGARRE IN AULA - L'appovazione in via definitiva del disegno di legge ha infiammato palazzo Madama: I senatori dell'Italia dei Valori hanno alzato cartelli con su scritto «I veri clandestini siete voi», «Governo: clandestino del diritto». Per tutta risposta i senatori della Lega si sono alzati in piedi facendo con le mani segno di vittoria. Come una squadra compatta, con tanto di cravatte e pochette uguali, tutte "verde Padania". Soddisfazione anche tra i ministri del Carroccio presenti in Aula: quello dell'Interno Roberto Maroni si è sbracciato in segno di saluto verso i senatori della Lega.

MARONI - Il titolare del Viminale si è detto «molto soddisfatto» per l'approvazione del ddl sicurezza. Il provvedimento, ha spiegato il ministro, «conclude un lavoro iniziato un anno fa e che ha visto l'approvazione di diverse norme per il contrasto alla criminalità organizzata, all'immigrazione clandestina e per migliorare la sicurezza urbana». D'altro canto Maroni ha voluto sottolineare il «rammarico» per le «falsità» che sono circolate in merito al ddl e che hanno portato l'opposizione a votare contro. Secondo il ministro l'opposizione ha «perso un'occasione per stare dalla parte dei cittadini».

UE - Dura la condanna del pacchetto sicurezza da parte di monsignor
Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti, secondo il quale la legge porterà «dolori e difficoltà» per gli immigrati. Da Bruxelles, prima ancora che il Senato desse il via libera definitivo al disegno di legge, il commissario Ue alla Giustizia Jacques Barrot aveva spiegato che la Commissione europea continuerà a vigilare sul pacchetto sicurezza del governo italiano, assicurandosi che il testo approvato definitivamente al Senato rispetti le normative comunitarie sulla libera circolazione dei cittadini Ue. «Abbiamo il compito di monitorare e lo eserciteremo», ha chiarito Barrot, ricordando che Bruxelles ha già ottenuto dall’Italia l’impegno a rinunciare all'aggravante per l’immigrazione clandestina e all’espulsione automatica nei casi di condanna superiore a due anni nei casi che riguardano i cittadini comunitari.

«SOLO UN PUGNO SBATTUTO SUL TAVOLO» - Il disegno di legge sulla sicurezza che il Senato sta licenziando in questi minuti «altro non è se non un pugno sbattuto sul tavolo, ma senza alcuna efficacia dal lato della sicurezza dei cittadini e sicuramente con gravi violazioni dei diritti civili degli immigrati ai quali affidiamo la cura dei nostri cari e dei nostri beni e il cui lavoro è indispensabile per il funzionamento di miglia di imprese» aveva detto la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro mentre l'Aula del Senato si preparava al voto finale sul provvedimento, dopo un anno di discussione e di scontri politici. «Questo provvedimento ha la stessa efficacia di un pugno sbattuto sul tavolo», ha ripetuto Finocchiaro. «Anche perchè l'unico effetto che avrà sarà di rendere invisibili gli immigrati sul nostro territorio».


Fonte:Corriere della Sera

giovedì 7 maggio 2009

Lampedusa. Isola senza diritti



Un breve reportage di 10 minuti sulla situazione immigrazione a Lampedusa, che il governo vorrebbe trasformare in un carcere a cielo aperto.
Le posizioni contraddittorie del sindaco e la voce di Legambiente.
Cie si o Cie no?



ARCOIRIS TV
webmaster: webmaster@arcoiris.tv
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Un breve reportage di 10 minuti sulla situazione immigrazione a Lampedusa, che il governo vorrebbe trasformare in un carcere a cielo aperto.
Le posizioni contraddittorie del sindaco e la voce di Legambiente.
Cie si o Cie no?



ARCOIRIS TV
webmaster: webmaster@arcoiris.tv

martedì 3 febbraio 2009

Quando erano i meridionali a subire la cattiveria che il ministro Maroni invoca verso gli immigrati. Pregiudizi e malcreanze, una storia di inciviltà


Di Salvatore Parlagreco


Enrico Cuccia, il grande vecchio della finanza italiana, nacque a Roma da una famiglia siciliana di Patti. Anche il chiacchieratissimo banchiere Michele Sindona era originario di Patti. Fecero la storia della finanza italiana, il primo come saggio dispensatore di benefici e perdite dell’economia italiana, il secondo come rampante scalatore di fortune in odore di mafia.

Sfogliando i giornali degli anni settanta le origini siciliane di Enrico Cuccia non compaiono mai, bisogna andare a cercarsele nella biografia del banchiere. L’interessato non fece nulla perché venissero nascoste.

Cuccia ebbe una buona immagine per meriti propri (era una persona schiva e competente), per il grande potere che esercitava e per il fatto che ai redattori dei giornali non mancavano aggettivi.

Michele Sindona inondò i giornali del suo tempo come Cuccia: fino al giorno della sua morte in carcere, dove era finito come mandante di un omicidio, la cronaca si occupò di lui diffusamente. Ciò che tutti sapevano di lui, sin dai primi passi della sua travolgente carriera, fu l’origine siciliana. Negli anni del declino e della ingloriosa fine, Michele Sindona fu sempre e comunque “il bancarottiere siciliano”.

Negli anni settanta questa diversità di trattamento non veniva colta. Strano davvero, perché era viva l’irritazione dei meridionali che ritenevano di essere additati come la causa di tutti i mali. La Sicilia in particolare viveva la sindrome del dio minore.


Ogni volta che l’inviato di un grande giornale faceva “colore” in un reportage, mettendo in luce aspetti poco commendevoli della società siciliana - costume, le tradizioni, politica - le reazioni erano immediate ed assai aspre. Si finiva anche con il negare l’evidenza sull’altare del “difendi il tuo, a torto o a ragione”.


Ai pregiudizi del Nord corrispose una difesa acritica della Sicilia.

Ragioni per lamentarsi ce n’erano tante che l’origine siciliana dei delinquenti sbattuta nei titoli non fu degnata di alcuna attenzione, fatta qualche sparuta eccezione. Eppure era la spia di una condizione di obiettiva discriminazione.

Non si trattò di razzismo, ma scattò come un riflesso condizionato: ciò che arrivava dal Sud, dalla Sicilia in particolare, era visto in una luce diversa: se ne scoprivano le malefatte.

Il filone cinematografico dedicato alla Sicilia (mafia e costume) testimonia in modo palese questa condizione. L’Isola ha stimolato curiosità ed attenzione nel bene e nel male. Baroni squattrinati, mariti gelosi, donne con gli occhi bassi, mafiosi virili e feroci furono i protagonisti della Sicilia di celluloide e della letteratura del tempo.

Enrico Cuccia fu il banchiere saggio e Sindona il bancarottiere siciliano.

Una questione di titoli?

Enrico Montanelli non nascose mai i suoi pregiudizi verso la Sicilia. Scrisse tanto sull’Isola e qualche volta commise degli errori. Per esempio, dedicò un editoriale ai guai provocati dallo Statuto speciale della Regione siciliana, citando una norma che affidava al Presidente della Regione il comando della polizia.

Il grande giornalista toscano non sapeva che quella norma non era mai stata attuata, come tante altre, e sviluppò con dotte considerazioni l’equazione fra mafia siciliana e potere di vigilanza delle forze dell’ordine affidato ad un siciliano dallo Statuto.

Non c’è da sorprendersi più di tanto. L’ottica con cui la sicilianità è stata vissuta nel Paese è quella, consueta, di qualunque Paese che accolgie gli stranieri: servono, fanno i mestieri più utili, risolvono un sacco di problemi, ma restano i paria, quelli gli invasori, i diversi, quelli che delinquono, turbano la quiete delle città una volta tranquille e non si lavano.

Dando uno sguardo, anche superficiale, alla storia dell’emigrazione italiana (e siciliana) nel mondo, ma non solo a quella, si capisce subito che i siciliani sono stati trattati, in casa, allo stesso modo che negli Stati Uniti, in Svizzera, Belgio o Germania nei primi anni dell’emigrazione.

Se si riflette sull’immigrazione di questi anni in Italia, si ritrovano puntualmente le discriminazioni, l’intolleranza, l’astio, i pregiudizi verso gli stranieri. I quali non meritano l’aureola sul capo, ma non sono nemmeno tutti delinquenti, farabutti e ladri di lavoro altrui.

Sentire un ministro della Repubblica, il leghista Maroni, predicare la necessità della cattiveria verso gli immigrati, è un pugno nello stomaco. Dicono che sia una invocazione pre-elettorale, che ha il compito di consolidare l’identità leghista. Ingiustificabile, qualunque sia la motivazione. Resta l’inciviltà e la pericolosità di una così autorevole manifestazione di volontà.

Quando messaggi siffatti arrivano a teste calde, si trasformano in qualcos’altro. Qualcuno pensa che la cattiveria debba essere esercitata dando fuoco agli stranieri, invece che con leggi severe, come Maroni ritiene.


Quanto ai titoli, beh, i siciliani se ne facciano una ragione.

Se uno di loro delinque, sarà siciliano, se è saggio, canta belle canzoni, allora è un italiano che non ha bisogno di aggettivi geografici.

Ci si deve dispiacere?

Manco per niente, bisogna piuttosto trarre motivi di compiacimento, per esempio, nel fatto che i cento tecnici arrivati in Gran Bretagna da Siracusa, ed impossibilitati a fare i loro lavoro per le proteste dei disoccupati britannici, siano nei titoli “italiani” e non siciliani.

Significa che godono di buona immagine, hanno goduto della buona sorte di Enrico Cuccia.

Fonte:Siciliainformazioni del 03/febbraio 2009
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Di Salvatore Parlagreco


Enrico Cuccia, il grande vecchio della finanza italiana, nacque a Roma da una famiglia siciliana di Patti. Anche il chiacchieratissimo banchiere Michele Sindona era originario di Patti. Fecero la storia della finanza italiana, il primo come saggio dispensatore di benefici e perdite dell’economia italiana, il secondo come rampante scalatore di fortune in odore di mafia.

Sfogliando i giornali degli anni settanta le origini siciliane di Enrico Cuccia non compaiono mai, bisogna andare a cercarsele nella biografia del banchiere. L’interessato non fece nulla perché venissero nascoste.

Cuccia ebbe una buona immagine per meriti propri (era una persona schiva e competente), per il grande potere che esercitava e per il fatto che ai redattori dei giornali non mancavano aggettivi.

Michele Sindona inondò i giornali del suo tempo come Cuccia: fino al giorno della sua morte in carcere, dove era finito come mandante di un omicidio, la cronaca si occupò di lui diffusamente. Ciò che tutti sapevano di lui, sin dai primi passi della sua travolgente carriera, fu l’origine siciliana. Negli anni del declino e della ingloriosa fine, Michele Sindona fu sempre e comunque “il bancarottiere siciliano”.

Negli anni settanta questa diversità di trattamento non veniva colta. Strano davvero, perché era viva l’irritazione dei meridionali che ritenevano di essere additati come la causa di tutti i mali. La Sicilia in particolare viveva la sindrome del dio minore.


Ogni volta che l’inviato di un grande giornale faceva “colore” in un reportage, mettendo in luce aspetti poco commendevoli della società siciliana - costume, le tradizioni, politica - le reazioni erano immediate ed assai aspre. Si finiva anche con il negare l’evidenza sull’altare del “difendi il tuo, a torto o a ragione”.


Ai pregiudizi del Nord corrispose una difesa acritica della Sicilia.

Ragioni per lamentarsi ce n’erano tante che l’origine siciliana dei delinquenti sbattuta nei titoli non fu degnata di alcuna attenzione, fatta qualche sparuta eccezione. Eppure era la spia di una condizione di obiettiva discriminazione.

Non si trattò di razzismo, ma scattò come un riflesso condizionato: ciò che arrivava dal Sud, dalla Sicilia in particolare, era visto in una luce diversa: se ne scoprivano le malefatte.

Il filone cinematografico dedicato alla Sicilia (mafia e costume) testimonia in modo palese questa condizione. L’Isola ha stimolato curiosità ed attenzione nel bene e nel male. Baroni squattrinati, mariti gelosi, donne con gli occhi bassi, mafiosi virili e feroci furono i protagonisti della Sicilia di celluloide e della letteratura del tempo.

Enrico Cuccia fu il banchiere saggio e Sindona il bancarottiere siciliano.

Una questione di titoli?

Enrico Montanelli non nascose mai i suoi pregiudizi verso la Sicilia. Scrisse tanto sull’Isola e qualche volta commise degli errori. Per esempio, dedicò un editoriale ai guai provocati dallo Statuto speciale della Regione siciliana, citando una norma che affidava al Presidente della Regione il comando della polizia.

Il grande giornalista toscano non sapeva che quella norma non era mai stata attuata, come tante altre, e sviluppò con dotte considerazioni l’equazione fra mafia siciliana e potere di vigilanza delle forze dell’ordine affidato ad un siciliano dallo Statuto.

Non c’è da sorprendersi più di tanto. L’ottica con cui la sicilianità è stata vissuta nel Paese è quella, consueta, di qualunque Paese che accolgie gli stranieri: servono, fanno i mestieri più utili, risolvono un sacco di problemi, ma restano i paria, quelli gli invasori, i diversi, quelli che delinquono, turbano la quiete delle città una volta tranquille e non si lavano.

Dando uno sguardo, anche superficiale, alla storia dell’emigrazione italiana (e siciliana) nel mondo, ma non solo a quella, si capisce subito che i siciliani sono stati trattati, in casa, allo stesso modo che negli Stati Uniti, in Svizzera, Belgio o Germania nei primi anni dell’emigrazione.

Se si riflette sull’immigrazione di questi anni in Italia, si ritrovano puntualmente le discriminazioni, l’intolleranza, l’astio, i pregiudizi verso gli stranieri. I quali non meritano l’aureola sul capo, ma non sono nemmeno tutti delinquenti, farabutti e ladri di lavoro altrui.

Sentire un ministro della Repubblica, il leghista Maroni, predicare la necessità della cattiveria verso gli immigrati, è un pugno nello stomaco. Dicono che sia una invocazione pre-elettorale, che ha il compito di consolidare l’identità leghista. Ingiustificabile, qualunque sia la motivazione. Resta l’inciviltà e la pericolosità di una così autorevole manifestazione di volontà.

Quando messaggi siffatti arrivano a teste calde, si trasformano in qualcos’altro. Qualcuno pensa che la cattiveria debba essere esercitata dando fuoco agli stranieri, invece che con leggi severe, come Maroni ritiene.


Quanto ai titoli, beh, i siciliani se ne facciano una ragione.

Se uno di loro delinque, sarà siciliano, se è saggio, canta belle canzoni, allora è un italiano che non ha bisogno di aggettivi geografici.

Ci si deve dispiacere?

Manco per niente, bisogna piuttosto trarre motivi di compiacimento, per esempio, nel fatto che i cento tecnici arrivati in Gran Bretagna da Siracusa, ed impossibilitati a fare i loro lavoro per le proteste dei disoccupati britannici, siano nei titoli “italiani” e non siciliani.

Significa che godono di buona immagine, hanno goduto della buona sorte di Enrico Cuccia.

Fonte:Siciliainformazioni del 03/febbraio 2009

mercoledì 12 novembre 2008

Famiglia Cristiana: I VALORI NON SONO SELEZIONABILI


«Credo che alla fine contino i fatti», dice Stefano, che fa fatica a trovare esempi di testimonianza evangelica in molti esponenti della Lega oggi al Governo. Soprattutto sugli immigrati.

Ho letto l’articolo su Lega e cattolici, apparso su Famiglia Cristiana n.19/2008. Mi pare che dal servizio emerga il ritratto di un movimento che, seppure connotato da alcuni tratti "coloriti", è comunque adatto ai cattolici che ne fanno parte, animati dalla volontà di salvaguardare i valori della tradizione cristiana. Penso, tuttavia, che un giudizio più realistico sulla Lega vada formulato sulla base di fatti concreti e dei messaggi che essa trasmette costantemente.

A tale proposito, una valutazione forse un po’ grezza, ma efficace, è quella che all’estero danno del movimento leghista: senza tanti giri di parole, dicono che è un partito anti-immigrati. La politica della Lega, infatti, è caratterizzata dal voler salvaguardare esclusivamente il benessere e la sicurezza dei "padani", a prescindere da qualsiasi seria considerazione delle ragioni umanitarie, sociali ed economiche del fenomeno immigrazione. Al massimo liquidano la questione con affermazioni generiche e semplicistiche, tipo: «Aiutiamoli a casa loro»; oppure: «Sì agli immigrati, purché arrivino con una casa e un reddito certo» (lascio all’intelligenza di chi legge ogni commento sulla ragionevolezza di queste dichiarazioni).

Quanto alla questione del centralismo romano e all’innegabile scandalosa e costosissima inefficienza della pubblica amministrazione, non dimentichiamo che le nostre istituzioni sono il prodotto di decenni di Governo democristiano, cui mi pare non siano estranei autorevoli esponenti del mondo cattolico e delle regioni del Nord. È giusto pretendere una svolta, ma non si può far passare la situazione attuale come il frutto di un sistema vessatorio imposto da una rappresentanza politica totalmente estranea a chi oggi, giustamente, reclama cambiamenti radicali.

Ritengo, quindi, che un cattolico debba, onestamente, interrogarsi se la Lega interpreti o meno l’autenticità del messaggio evangelico, fatto innanzitutto di amore, apertura al prossimo, impegno al servizio degli altri e della comunità, avendo – se necessario – il coraggio di scontrarsi o di denunciare il perbenismo di facciata di chi ci circonda. Al riguardo, è del tutto irrilevante (oltre che insignificante) la partecipazione di qualche esponente leghista a manifestazioni o riti della Chiesa cattolica.

Un’ultima considerazione a proposito degli orientamenti elettorali ispirati ai princìpi cristiani e sulla presenza nel Pd dei radicali (coi quali mi sono sempre trovato e mi trovo in totale dissenso su tutto): è moralmente lecito sostenere un movimento che vede nella diversità culturale e religiosa solo una minaccia? O che fa della lotta agli immigrati (che fuggono da fame, miseria e guerre) la propria bandiera? Al di là delle buone intenzioni, credo che alla fine contino i fatti. Per questo faccio veramente fatica a vedere chiari esempi di testimonianza evangelica in molti esponenti della Lega oggi al Governo.

Stefano

La Lega è un partito (o movimento) molto pragmatico, che ha saputo e sa intercettare i problemi reali del territorio e le attese della gente. E noi siamo d’accordo con tante loro battaglie e denunce. Ma a problemi reali, non sempre sanno dare risposte serie e condivisibili. Sono le proposte che spesso, a mio parere, sono inadeguate e fuorvianti. È legittimo, ad esempio, opporsi a uno Stato accentratore e sprecone, ma la soluzione proposta della Lega è in contrasto col cammino della storia, che va verso unità sociali sempre più ampie e solidali.

In realtà, la proposta iniziale di secessione delle regioni settentrionali dell’Italia è stata abbandonata (così pare) e sostituita dal progetto di uno Stato basato sul federalismo fiscale, che assegna alle regioni alcune funzioni centrali. Discorso accettabile, purché non vengano meno il concetto di nazione e la solidarietà tra regioni più ricche e regioni più povere. Se non è solidale, che federalismo è? Non dimentichiamo che il benessere materiale del Nord è anche frutto dei tanti emigrati dal Sud d’Italia.

Il serio limite della Lega sta nella pretesa di dare soluzione localista a problemi che non sono più soltanto regionali, ma investono ormai la nazione, la stessa Europa e il mondo. Siamo in un universo sempre più globalizzato, nel bene e nel male. Pensiamo al fenomeno epocale delle emigrazioni forzate; al difficile rapporto con la cultura islamica; all’integrazione dei popoli da favorire e costruire, non da ostacolare.

Oggi fa discutere la posizione della Lega di fronte al complesso fenomeno dei migranti: l’accoglienza dello straniero è motivata, prevalentemente, in termini di utilità economica (teniamoci quelli che ci servono, e di cui non possiamo fare a meno per l’economia). Fa anche discutere la percezione dell’insicurezza collettiva che è scaricata sui migranti irregolari che, in quanto tali, sono considerati delinquenti e pericolosi. Il richiamo ai valori cristiani è spesso usato per avvalorare lo scontro o giustificare l’espulsione.

Destano stupore quegli esponenti politici che premettono d’essere cattolici, ma poi quel che dicono ha ben poco di cattolico. Pensiamo agli attacchi e alle accuse contro la Caritas e la stessa Chiesa, colpevoli d’essersi arricchite con il "business dello straniero". È difficile riconoscere che cristiani, formati ai valori della solidarietà, del rispetto delle persona e della loro dignità, dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani (al di là delle razze e del colore della pelle), del bene comune (che va oltre la Padania), possano condividere acriticamente programmi e obiettivi nettamente in contrasto con questi princìpi. I valori morali non sono selezionabili: non si può difenderne alcuni (ad esempio, la famiglia fondata sul matrimonio e, quindi, opporsi alle unioni di fatto, in particolare omosessuali), e poi mortificarne altri (ad esempio, l’accoglienza dello straniero, il rispetto – anche nel linguaggio – delle altre religioni e delle culture diverse).

Il problema non è sapere se la Lega è meritevole di sostegno e di adesione da parte dei cattolici. È più importante mostrarne, con solida argomentazione, le eventuali contraddizioni, criticarne le proposte e decisioni che si palesano insostenibili, soprattutto alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Quel che vale è il dialogo e il confronto, anche dialettico, dentro e fuori il partito.

La dottrina sociale della Chiesa ha ancora molta strada da fare, e non solo per i cattolici che militano o votano per la Lega, ma anche per tantissimi cattolici di altre formazioni politiche. In questa prospettiva, è insostituibile il ruolo che la comunità cristiana (a partire dalle parrocchie) ha nel formare coscienze illuminate e critiche.

Don Antonio

Fonte: Famiglia Cristiana 16/11/2008

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«Credo che alla fine contino i fatti», dice Stefano, che fa fatica a trovare esempi di testimonianza evangelica in molti esponenti della Lega oggi al Governo. Soprattutto sugli immigrati.

Ho letto l’articolo su Lega e cattolici, apparso su Famiglia Cristiana n.19/2008. Mi pare che dal servizio emerga il ritratto di un movimento che, seppure connotato da alcuni tratti "coloriti", è comunque adatto ai cattolici che ne fanno parte, animati dalla volontà di salvaguardare i valori della tradizione cristiana. Penso, tuttavia, che un giudizio più realistico sulla Lega vada formulato sulla base di fatti concreti e dei messaggi che essa trasmette costantemente.

A tale proposito, una valutazione forse un po’ grezza, ma efficace, è quella che all’estero danno del movimento leghista: senza tanti giri di parole, dicono che è un partito anti-immigrati. La politica della Lega, infatti, è caratterizzata dal voler salvaguardare esclusivamente il benessere e la sicurezza dei "padani", a prescindere da qualsiasi seria considerazione delle ragioni umanitarie, sociali ed economiche del fenomeno immigrazione. Al massimo liquidano la questione con affermazioni generiche e semplicistiche, tipo: «Aiutiamoli a casa loro»; oppure: «Sì agli immigrati, purché arrivino con una casa e un reddito certo» (lascio all’intelligenza di chi legge ogni commento sulla ragionevolezza di queste dichiarazioni).

Quanto alla questione del centralismo romano e all’innegabile scandalosa e costosissima inefficienza della pubblica amministrazione, non dimentichiamo che le nostre istituzioni sono il prodotto di decenni di Governo democristiano, cui mi pare non siano estranei autorevoli esponenti del mondo cattolico e delle regioni del Nord. È giusto pretendere una svolta, ma non si può far passare la situazione attuale come il frutto di un sistema vessatorio imposto da una rappresentanza politica totalmente estranea a chi oggi, giustamente, reclama cambiamenti radicali.

Ritengo, quindi, che un cattolico debba, onestamente, interrogarsi se la Lega interpreti o meno l’autenticità del messaggio evangelico, fatto innanzitutto di amore, apertura al prossimo, impegno al servizio degli altri e della comunità, avendo – se necessario – il coraggio di scontrarsi o di denunciare il perbenismo di facciata di chi ci circonda. Al riguardo, è del tutto irrilevante (oltre che insignificante) la partecipazione di qualche esponente leghista a manifestazioni o riti della Chiesa cattolica.

Un’ultima considerazione a proposito degli orientamenti elettorali ispirati ai princìpi cristiani e sulla presenza nel Pd dei radicali (coi quali mi sono sempre trovato e mi trovo in totale dissenso su tutto): è moralmente lecito sostenere un movimento che vede nella diversità culturale e religiosa solo una minaccia? O che fa della lotta agli immigrati (che fuggono da fame, miseria e guerre) la propria bandiera? Al di là delle buone intenzioni, credo che alla fine contino i fatti. Per questo faccio veramente fatica a vedere chiari esempi di testimonianza evangelica in molti esponenti della Lega oggi al Governo.

Stefano

La Lega è un partito (o movimento) molto pragmatico, che ha saputo e sa intercettare i problemi reali del territorio e le attese della gente. E noi siamo d’accordo con tante loro battaglie e denunce. Ma a problemi reali, non sempre sanno dare risposte serie e condivisibili. Sono le proposte che spesso, a mio parere, sono inadeguate e fuorvianti. È legittimo, ad esempio, opporsi a uno Stato accentratore e sprecone, ma la soluzione proposta della Lega è in contrasto col cammino della storia, che va verso unità sociali sempre più ampie e solidali.

In realtà, la proposta iniziale di secessione delle regioni settentrionali dell’Italia è stata abbandonata (così pare) e sostituita dal progetto di uno Stato basato sul federalismo fiscale, che assegna alle regioni alcune funzioni centrali. Discorso accettabile, purché non vengano meno il concetto di nazione e la solidarietà tra regioni più ricche e regioni più povere. Se non è solidale, che federalismo è? Non dimentichiamo che il benessere materiale del Nord è anche frutto dei tanti emigrati dal Sud d’Italia.

Il serio limite della Lega sta nella pretesa di dare soluzione localista a problemi che non sono più soltanto regionali, ma investono ormai la nazione, la stessa Europa e il mondo. Siamo in un universo sempre più globalizzato, nel bene e nel male. Pensiamo al fenomeno epocale delle emigrazioni forzate; al difficile rapporto con la cultura islamica; all’integrazione dei popoli da favorire e costruire, non da ostacolare.

Oggi fa discutere la posizione della Lega di fronte al complesso fenomeno dei migranti: l’accoglienza dello straniero è motivata, prevalentemente, in termini di utilità economica (teniamoci quelli che ci servono, e di cui non possiamo fare a meno per l’economia). Fa anche discutere la percezione dell’insicurezza collettiva che è scaricata sui migranti irregolari che, in quanto tali, sono considerati delinquenti e pericolosi. Il richiamo ai valori cristiani è spesso usato per avvalorare lo scontro o giustificare l’espulsione.

Destano stupore quegli esponenti politici che premettono d’essere cattolici, ma poi quel che dicono ha ben poco di cattolico. Pensiamo agli attacchi e alle accuse contro la Caritas e la stessa Chiesa, colpevoli d’essersi arricchite con il "business dello straniero". È difficile riconoscere che cristiani, formati ai valori della solidarietà, del rispetto delle persona e della loro dignità, dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani (al di là delle razze e del colore della pelle), del bene comune (che va oltre la Padania), possano condividere acriticamente programmi e obiettivi nettamente in contrasto con questi princìpi. I valori morali non sono selezionabili: non si può difenderne alcuni (ad esempio, la famiglia fondata sul matrimonio e, quindi, opporsi alle unioni di fatto, in particolare omosessuali), e poi mortificarne altri (ad esempio, l’accoglienza dello straniero, il rispetto – anche nel linguaggio – delle altre religioni e delle culture diverse).

Il problema non è sapere se la Lega è meritevole di sostegno e di adesione da parte dei cattolici. È più importante mostrarne, con solida argomentazione, le eventuali contraddizioni, criticarne le proposte e decisioni che si palesano insostenibili, soprattutto alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Quel che vale è il dialogo e il confronto, anche dialettico, dentro e fuori il partito.

La dottrina sociale della Chiesa ha ancora molta strada da fare, e non solo per i cattolici che militano o votano per la Lega, ma anche per tantissimi cattolici di altre formazioni politiche. In questa prospettiva, è insostituibile il ruolo che la comunità cristiana (a partire dalle parrocchie) ha nel formare coscienze illuminate e critiche.

Don Antonio

Fonte: Famiglia Cristiana 16/11/2008

 
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