Di Salvatore Parlagreco
Enrico Cuccia, il grande vecchio della finanza italiana, nacque a Roma da una famiglia siciliana di Patti. Anche il chiacchieratissimo banchiere Michele Sindona era originario di Patti. Fecero la storia della finanza italiana, il primo come saggio dispensatore di benefici e perdite dell’economia italiana, il secondo come rampante scalatore di fortune in odore di mafia.
Sfogliando i giornali degli anni settanta le origini siciliane di Enrico Cuccia non compaiono mai, bisogna andare a cercarsele nella biografia del banchiere. L’interessato non fece nulla perché venissero nascoste.
Cuccia ebbe una buona immagine per meriti propri (era una persona schiva e competente), per il grande potere che esercitava e per il fatto che ai redattori dei giornali non mancavano aggettivi.
Michele Sindona inondò i giornali del suo tempo come Cuccia: fino al giorno della sua morte in carcere, dove era finito come mandante di un omicidio, la cronaca si occupò di lui diffusamente. Ciò che tutti sapevano di lui, sin dai primi passi della sua travolgente carriera, fu l’origine siciliana. Negli anni del declino e della ingloriosa fine, Michele Sindona fu sempre e comunque “il bancarottiere siciliano”.
Negli anni settanta questa diversità di trattamento non veniva colta. Strano davvero, perché era viva l’irritazione dei meridionali che ritenevano di essere additati come la causa di tutti i mali. La Sicilia in particolare viveva la sindrome del dio minore.
Ogni volta che l’inviato di un grande giornale faceva “colore” in un reportage, mettendo in luce aspetti poco commendevoli della società siciliana - costume, le tradizioni, politica - le reazioni erano immediate ed assai aspre. Si finiva anche con il negare l’evidenza sull’altare del “difendi il tuo, a torto o a ragione”.
Ai pregiudizi del Nord corrispose una difesa acritica della Sicilia.
Ragioni per lamentarsi ce n’erano tante che l’origine siciliana dei delinquenti sbattuta nei titoli non fu degnata di alcuna attenzione, fatta qualche sparuta eccezione. Eppure era la spia di una condizione di obiettiva discriminazione.
Non si trattò di razzismo, ma scattò come un riflesso condizionato: ciò che arrivava dal Sud, dalla Sicilia in particolare, era visto in una luce diversa: se ne scoprivano le malefatte.
Il filone cinematografico dedicato alla Sicilia (mafia e costume) testimonia in modo palese questa condizione. L’Isola ha stimolato curiosità ed attenzione nel bene e nel male. Baroni squattrinati, mariti gelosi, donne con gli occhi bassi, mafiosi virili e feroci furono i protagonisti della Sicilia di celluloide e della letteratura del tempo.
Enrico Cuccia fu il banchiere saggio e Sindona il bancarottiere siciliano.
Una questione di titoli?
Enrico Montanelli non nascose mai i suoi pregiudizi verso la Sicilia. Scrisse tanto sull’Isola e qualche volta commise degli errori. Per esempio, dedicò un editoriale ai guai provocati dallo Statuto speciale della Regione siciliana, citando una norma che affidava al Presidente della Regione il comando della polizia.
Il grande giornalista toscano non sapeva che quella norma non era mai stata attuata, come tante altre, e sviluppò con dotte considerazioni l’equazione fra mafia siciliana e potere di vigilanza delle forze dell’ordine affidato ad un siciliano dallo Statuto.
Non c’è da sorprendersi più di tanto. L’ottica con cui la sicilianità è stata vissuta nel Paese è quella, consueta, di qualunque Paese che accolgie gli stranieri: servono, fanno i mestieri più utili, risolvono un sacco di problemi, ma restano i paria, quelli gli invasori, i diversi, quelli che delinquono, turbano la quiete delle città una volta tranquille e non si lavano.
Dando uno sguardo, anche superficiale, alla storia dell’emigrazione italiana (e siciliana) nel mondo, ma non solo a quella, si capisce subito che i siciliani sono stati trattati, in casa, allo stesso modo che negli Stati Uniti, in Svizzera, Belgio o Germania nei primi anni dell’emigrazione.
Se si riflette sull’immigrazione di questi anni in Italia, si ritrovano puntualmente le discriminazioni, l’intolleranza, l’astio, i pregiudizi verso gli stranieri. I quali non meritano l’aureola sul capo, ma non sono nemmeno tutti delinquenti, farabutti e ladri di lavoro altrui.
Sentire un ministro della Repubblica, il leghista Maroni, predicare la necessità della cattiveria verso gli immigrati, è un pugno nello stomaco. Dicono che sia una invocazione pre-elettorale, che ha il compito di consolidare l’identità leghista. Ingiustificabile, qualunque sia la motivazione. Resta l’inciviltà e la pericolosità di una così autorevole manifestazione di volontà.
Quando messaggi siffatti arrivano a teste calde, si trasformano in qualcos’altro. Qualcuno pensa che la cattiveria debba essere esercitata dando fuoco agli stranieri, invece che con leggi severe, come Maroni ritiene.
Quanto ai titoli, beh, i siciliani se ne facciano una ragione.
Se uno di loro delinque, sarà siciliano, se è saggio, canta belle canzoni, allora è un italiano che non ha bisogno di aggettivi geografici.
Ci si deve dispiacere?
Manco per niente, bisogna piuttosto trarre motivi di compiacimento, per esempio, nel fatto che i cento tecnici arrivati in Gran Bretagna da Siracusa, ed impossibilitati a fare i loro lavoro per le proteste dei disoccupati britannici, siano nei titoli “italiani” e non siciliani.
Significa che godono di buona immagine, hanno goduto della buona sorte di Enrico Cuccia.
Sfogliando i giornali degli anni settanta le origini siciliane di Enrico Cuccia non compaiono mai, bisogna andare a cercarsele nella biografia del banchiere. L’interessato non fece nulla perché venissero nascoste.
Cuccia ebbe una buona immagine per meriti propri (era una persona schiva e competente), per il grande potere che esercitava e per il fatto che ai redattori dei giornali non mancavano aggettivi.
Michele Sindona inondò i giornali del suo tempo come Cuccia: fino al giorno della sua morte in carcere, dove era finito come mandante di un omicidio, la cronaca si occupò di lui diffusamente. Ciò che tutti sapevano di lui, sin dai primi passi della sua travolgente carriera, fu l’origine siciliana. Negli anni del declino e della ingloriosa fine, Michele Sindona fu sempre e comunque “il bancarottiere siciliano”.
Negli anni settanta questa diversità di trattamento non veniva colta. Strano davvero, perché era viva l’irritazione dei meridionali che ritenevano di essere additati come la causa di tutti i mali. La Sicilia in particolare viveva la sindrome del dio minore.
Ogni volta che l’inviato di un grande giornale faceva “colore” in un reportage, mettendo in luce aspetti poco commendevoli della società siciliana - costume, le tradizioni, politica - le reazioni erano immediate ed assai aspre. Si finiva anche con il negare l’evidenza sull’altare del “difendi il tuo, a torto o a ragione”.
Ai pregiudizi del Nord corrispose una difesa acritica della Sicilia.
Ragioni per lamentarsi ce n’erano tante che l’origine siciliana dei delinquenti sbattuta nei titoli non fu degnata di alcuna attenzione, fatta qualche sparuta eccezione. Eppure era la spia di una condizione di obiettiva discriminazione.
Non si trattò di razzismo, ma scattò come un riflesso condizionato: ciò che arrivava dal Sud, dalla Sicilia in particolare, era visto in una luce diversa: se ne scoprivano le malefatte.
Il filone cinematografico dedicato alla Sicilia (mafia e costume) testimonia in modo palese questa condizione. L’Isola ha stimolato curiosità ed attenzione nel bene e nel male. Baroni squattrinati, mariti gelosi, donne con gli occhi bassi, mafiosi virili e feroci furono i protagonisti della Sicilia di celluloide e della letteratura del tempo.
Enrico Cuccia fu il banchiere saggio e Sindona il bancarottiere siciliano.
Una questione di titoli?
Enrico Montanelli non nascose mai i suoi pregiudizi verso la Sicilia. Scrisse tanto sull’Isola e qualche volta commise degli errori. Per esempio, dedicò un editoriale ai guai provocati dallo Statuto speciale della Regione siciliana, citando una norma che affidava al Presidente della Regione il comando della polizia.
Il grande giornalista toscano non sapeva che quella norma non era mai stata attuata, come tante altre, e sviluppò con dotte considerazioni l’equazione fra mafia siciliana e potere di vigilanza delle forze dell’ordine affidato ad un siciliano dallo Statuto.
Non c’è da sorprendersi più di tanto. L’ottica con cui la sicilianità è stata vissuta nel Paese è quella, consueta, di qualunque Paese che accolgie gli stranieri: servono, fanno i mestieri più utili, risolvono un sacco di problemi, ma restano i paria, quelli gli invasori, i diversi, quelli che delinquono, turbano la quiete delle città una volta tranquille e non si lavano.
Dando uno sguardo, anche superficiale, alla storia dell’emigrazione italiana (e siciliana) nel mondo, ma non solo a quella, si capisce subito che i siciliani sono stati trattati, in casa, allo stesso modo che negli Stati Uniti, in Svizzera, Belgio o Germania nei primi anni dell’emigrazione.
Se si riflette sull’immigrazione di questi anni in Italia, si ritrovano puntualmente le discriminazioni, l’intolleranza, l’astio, i pregiudizi verso gli stranieri. I quali non meritano l’aureola sul capo, ma non sono nemmeno tutti delinquenti, farabutti e ladri di lavoro altrui.
Sentire un ministro della Repubblica, il leghista Maroni, predicare la necessità della cattiveria verso gli immigrati, è un pugno nello stomaco. Dicono che sia una invocazione pre-elettorale, che ha il compito di consolidare l’identità leghista. Ingiustificabile, qualunque sia la motivazione. Resta l’inciviltà e la pericolosità di una così autorevole manifestazione di volontà.
Quando messaggi siffatti arrivano a teste calde, si trasformano in qualcos’altro. Qualcuno pensa che la cattiveria debba essere esercitata dando fuoco agli stranieri, invece che con leggi severe, come Maroni ritiene.
Quanto ai titoli, beh, i siciliani se ne facciano una ragione.
Se uno di loro delinque, sarà siciliano, se è saggio, canta belle canzoni, allora è un italiano che non ha bisogno di aggettivi geografici.
Ci si deve dispiacere?
Manco per niente, bisogna piuttosto trarre motivi di compiacimento, per esempio, nel fatto che i cento tecnici arrivati in Gran Bretagna da Siracusa, ed impossibilitati a fare i loro lavoro per le proteste dei disoccupati britannici, siano nei titoli “italiani” e non siciliani.
Significa che godono di buona immagine, hanno goduto della buona sorte di Enrico Cuccia.
Fonte:Siciliainformazioni del 03/febbraio 2009
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