Ogni cinque minuti in Italia una persona muore per malattie polmonari legate all’amianto e alle fibre quasi invisibili che, alla velocità di un metro ogni 24 ore, avanzano nell’organismo e vanno a depositarsi nella pleura. Ne basta una sola per causare mesoteliomi fatali che portano a morte certa. Prima un dolore alla spalla poi complicazioni respiratorie sempre più gravi. Dagli inizi del Novecento ad oggi, nel nostro Paese l’amianto ha ucciso e continuerà ad uccidere migliaia di persone ad un ritmo di circa quattromila ogni anno.
Nel libro “Amianto“, edito dalla casa editrice Verdenero, la giornalista Stefania Divertito racconta non solo il processo Eternit ma anche il caso Fincantieri, le vicende dei marinai genovesi, della Fibronit di Bari, degli operai delle ferrovie dello Stato. Tutti in lotta, con alterne vicende ed esiti, per vedersi riconosciute i risarcimenti funzionali alle cure contro le patologie causate dall’asbestosi, tutti accomunati da un unico elemento: si sono ammalati per l’amianto.
Non ci sono storie strappalacrime, facili allo stomaco, nel libro “Amianto” ci sono numeri e dati. Le storie sono racconti che lasciano intuire il dolore di quanti sono stati vicino ai malati: «Da noi a Casale – si legge – quattro persone al mese si ammalano per amianto». Bastano poche parole per avvertire la tragedia che nasconde un numero, una statistica.
Del processo Eternit che si è riaperto due giorni fa a Torino, ormai si sa tutto ed è il più complesso e partecipato procedimento giudiziario dopo quello per il disastro di Bophal, in India: quasi tremila le parti offese, di cui poco più di seicento ancora in vita. Operai che per anni hanno lavorato in mezzo a nubi bianche di amianto senza protezione o con mascherine sottilissime che nulla potevano contro le fibre di amianto, fino a 300 volte più fini di un capello. Spaventosa anche l’origine del nome “Eternit”: che dura in eterno.
Oltre all’Eternit, però, ci sono tante altre realtà meno note in Italia. La fabbrica della Goodyear di Cisterna di Latina è una di queste. Qui 26 operai sono morti per tumori polmonari. «Dopo la chiusura della fabbrica – si legge in Amianto – si scopre non solo che i materiali utilizzati erano cancerogeni, ma anche che l’amianto era dappertutto: nel capannone principale, nelle presse, perfino nei guanti di protezione».
Un altro caso clamoroso è quello dell’Ilva di Taranto, sotto accusa non solo per la diossina ma anche per l’amianto. Nell’area attorno allo stabilimento, infatti, una perizia ha accertato 105 casi di mesotelioma.
Nello stabilimento Fincantieri di Palermo, invece, sono stati 32 gli operai morti, mentre in quello di Monfalcone finora sono state 900 le vittime, uno stillicidio che uccide 25 persone ogni anno. L’assassino è sempre lo stesso: l’amianto.
E i morti coprono tutta la Penisola, senza distinzioni. A Casaralta di Bologna, in uno stabilimento che si occupava delle coibentazioni delle carrozze delle Ferrovie dello Stato, ci sono stati almeno 16 morti mentre sono stati denunciati una cinquantina di casi di mesotelioma e altrettanti di tumore polmonare. Le ferrovie accomunano anche i 17 morti per mesotelioma alla Breda Ferroviaria di Pistoia. Alla Fibronit di Bari, invece, il numero dei decessi è incerto ma si parla di una strage lenta che si sarebbe portata via almeno 145 vite. Mentre secondo Julian Peto, ricercatore del Cancer Research Uk, l’associazione britannica per la ricerca sul cancro, un uomo su dieci che nbegli anni Sessanta ha fatto il muratore, è condannato a morire di mesotelioma per cause legate all’esposizione all’amianto. Ma non è finita qui. Secondo un rapporto aggiornato a fine 2008 e realizzato dalla Cgil, infatti, nel 17,65% degli istituti scolastici italiani è stata certificata la presenza dell’amianto.
Dati, questi contenuti nel libro della giornalista Stefania Divertito che mettono nero su bianco come il nostro sia un «Paese fondato sull’amianto» e non sul lavoro. Sembra paradossale, esagerato. Eppure davati ai quattromila morti causati ogni anno dalle patologie legate all’amianto, dietrologie, commenti e ipotesi crollano. Ogni operaio ammalato o morto lo deve al suo lavoro. E forse questa è l’unica assurda certezza.
Fonte:Il Picco
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