domenica 18 gennaio 2009

L’IMPORTANZA DELLO SCAVO D’ARCHIVIO


Io non conosco verità assolute, ma sono umile di fronte alla mia ignoranza: in ciò è il mio onore e la mia ricompensa.


Kahlil Gibran


L’amico Valentino Romano, “infaticabile” collaboratore ed autore di numerosi testi di ricerca storica dei quali l’ultimo, Le Brigantesse (Controcorrente editore), sta riscuotendo un notevole successo, con un proprio articolo pubblicato sulla rivista Rinascita, ha sollevato un argomento interessante ed assolutamente d’attualità e che sicuramente darà la stura a polemiche da parte di coloro che si reputano depositari della verità duosiciliana assoluta.
Ma Valentino Romano crediamo sia avvezzo alle critiche e agli strali del “fronte interno”, quello più pericoloso ed immobilizzante.

Francesco Laricchia
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L’IMPORTANZA DELLO SCAVO D’ARCHIVIO

Di Valentino Romano


(Pubblicato su Rinascita, anno XII, nr.005 del 14 gennaio 2009, in Cultura, p 15)

E’ cominciata la lunga marcia verso le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’unificazione d’Italia. Se ne scorgono i primi segnali ed è facile, fin d’ora, prevedere un’orgia di oleografia patriottarda e un inasprirsi delle istanze revisioniste di quel periodo esaltante per alcuni e tragico per altri.
In questo contesto, per una comprensione più puntuale di quel tormentato e discusso periodo, si avverte il bisogno di rivisitare archivi e fondi giudiziari in larga parte inesplorati o finora superficialmente consultati.

Uno di questi è senz’altro quello dei Tribunali Militari di Guerra: il fondo, che consta di ben 193 faldoni, è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato; raccoglie i processi per brigantaggio e per favoreggiamento che furono istruiti in applicazione della famigerata legge Pica, primo esempio di legislazione speciale della neonata nuova Italia. Si tratta quasi sempre di processi sommari, di processi indiziari, di una parvenza di giustizia insomma.

L’epilogo è quasi sempre scontato: il contadino meridionale, in quanto tale, non può che essere colpevole e per lui non vi è che la condanna, già scritta ancor prima della sentenza.
Se è così allora perché studiarseli tutti?

Semplicemente perché ognuno dei processi riserva qualche sorpresa, chiarisce alcuni fatti, delinea il carattere dei suoi spesso involontari protagonisti.

Si può dire che in ogni processo si può carpire una pennellata originale che contribuisce a dipingere un più ampio affresco: quello della civiltà contadina del Sud che del brigantaggio fu l’humus e il brodo di coltura.
Certo la documentazione contenuta nei processi va utilizzata con cautela: essa, analogamente agli scritti biografici dei briganti, è riconducibile al genere cosiddetto di “letteratura contaminata”: da un lato la necessità di minimizzare la portata delle azioni brigantesche da parte dei protagonisti; dall’altro l’esposizione dei fatti e le deposizioni, entrambe filtrate allo scopo di indirizzare i processi nell’ottica del potere militare per incanalarli in un alveo di delinquenza comune e quindi di legittimazione della repressione poliziesca, di punizione che sia ad un tempo monito e deterrente, ed infine mezzo per l’affermazione e il consolidamento del nuovo sistema statuale.

Ed è un primo rilevante inquinamento processuale; un altro, non meno importante, è quello linguistico: senza garanzie di difesa ed in presenza di testimoni ed imputati in genere analfabeti è, evidentemente, assai facile, riportare nei verbali dibattimentali non già ciò che veramente emerge dalle deposizioni ma ciò che si vuole che emerga. Si pensi, tanto per fare un esempio banale alla italianizzazione dei soprannomi.

Ci si rende conto facilmente di come la risultanza processuale subisca prima un filtro “ideologico” del magistrato che detta e poi quello “linguistico-burocratichese” del cancelliere che trascrive.
Ciò non toglie però che qualcosa, attraverso le maglie della censura militare e la studiata frettolosità delle trascrizioni, sfugga.

Questo “qualcosa” è proprio ciò che va colto, un frammento, un barlume di verità, una piccola tessera del mosaico che bisogna pazientemente tentare di ricostruire. Su tutti un esempio: nella pubblicistica del brigantaggio particolare evidenza è stata data alla ferocia di Ninco Nanco che trucidò il capitano Capoduro e il deputato di PS Polisella. E’ indiscutibile che l’eccidio ci sia stato ed è pure altrettanto certo che sia stato efferato.

Ma le ragioni vere chi mai le ha ricercate?

Orbene in un processo per manutengolismo, per favoreggiamento cioè, vengono processati alcuni notabili di Avigliano (Corbo, Telesca ecc.).

Tra le carte del processo vi è la copia di una lettera del feroce brigante alle autorità nella quale, ammettendo la paternità dell’eccidio, ne dà una sua lettura: sarebbero stati proprio i manutengoli a metterlo sull’avviso;

Capoduro e Polisella trattavano la resa del brigante con animo malfido.
Con loro, nel corso delle trattative, avrebbero portato bocce di vino avvelenato per toglierlo di mezzo. Da qui la reazione di Ninco Nanco e dei suoi uomini.

Ciò non giustifica l’eccidio ma ci aiuta a capirne le vere cause.

Le preoccupazioni di chi – all’interno degli approfondimenti revisionistici in atto – raccomanda di non dar troppo peso alle risultante processuali sembrano oggi dettate da un non condivisibile timore di vedere, anche parzialmente, non suffragata a livello documentale la propria lettura ideologica dell’insurrezione contadina. Ma è timore ingiustificato, perché se anche emerge (e, piaccia o no, emerge inequivocabilmente) dalle carte dei Tribunali Militari che non tutto il brigantaggio fu “ideologicizzato”, dettato cioè da ragioni esclusivamente legittimistiche, i fascicoli del fondo dimostrano per converso tutta l’ampiezza della insurrezione e testimoniamo la gratuita violenza del conquistatore, chiariscono il suo atteggiamento colonizzatore, fanno emergere il dramma esistenziale delle classi rurali del Sud;
tratteggiano chiaramente il ruolo ambiguo e profittatore della piccola e media borghesia meridionale, il doppiogioco e le collusioni dei “galantuomini” (maestri nell’arte di tenere un piede in due e più scarpe);
risultano perciò fondamentali ai fini della comprensione del “quotidiano” dei rivoltosi, dell’umanità di un popolo dolente che – dapprima illuso dalla speranza di una rivoluzione sociale - subì poi la cocente delusione di una rivoluzione borghese; ne evidenziano pure le debolezze, gli errori e, talora, anche l’ansia irrazionale di vendetta e la conseguente crudeltà.

Questi fondi insomma ci restituiscono gli orrori di una legislazione solamente repressiva, le infamie di una guerra d’occupazione, ipocritamente ammantata di idealità unitarie e libertarie, ci danno la cifra della rozzezza dei conquistatori, ma hanno un merito intrinseco che non può sfuggire all’occhio pacato e scevro di passioni partigiane dello storico obiettivo: disvelano la vera natura del brigante meridionale, ora fiero, ora debole; capace di assoluta fedeltà come di squallidi tradimenti; a tratti generoso, a tratti crudele; tenero o violento a seconda delle circostanze; coraggioso fino al sacrificio finale, ma anche vigliacco nel momento della resa.

Ci restituiscono l’immagine reale di un uomo ora mitizzato, ora demonizzato: quella di un uomo, di un uomo del Sud che, oppresso, tramutò (prendendo in prestito una famosa immagine virgiliana)le sue falci ricurve in armi e, alzata la testa, osò ribellarsi.

Per questi motivi va continuato lo scavo archivistico: non per trovare supporti documentali alle nostre passioni ideologiche, ma soltanto per capire, anzi per capire meglio.

Segnalazione:Rete Sud
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Io non conosco verità assolute, ma sono umile di fronte alla mia ignoranza: in ciò è il mio onore e la mia ricompensa.


Kahlil Gibran


L’amico Valentino Romano, “infaticabile” collaboratore ed autore di numerosi testi di ricerca storica dei quali l’ultimo, Le Brigantesse (Controcorrente editore), sta riscuotendo un notevole successo, con un proprio articolo pubblicato sulla rivista Rinascita, ha sollevato un argomento interessante ed assolutamente d’attualità e che sicuramente darà la stura a polemiche da parte di coloro che si reputano depositari della verità duosiciliana assoluta.
Ma Valentino Romano crediamo sia avvezzo alle critiche e agli strali del “fronte interno”, quello più pericoloso ed immobilizzante.

Francesco Laricchia
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L’IMPORTANZA DELLO SCAVO D’ARCHIVIO

Di Valentino Romano


(Pubblicato su Rinascita, anno XII, nr.005 del 14 gennaio 2009, in Cultura, p 15)

E’ cominciata la lunga marcia verso le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’unificazione d’Italia. Se ne scorgono i primi segnali ed è facile, fin d’ora, prevedere un’orgia di oleografia patriottarda e un inasprirsi delle istanze revisioniste di quel periodo esaltante per alcuni e tragico per altri.
In questo contesto, per una comprensione più puntuale di quel tormentato e discusso periodo, si avverte il bisogno di rivisitare archivi e fondi giudiziari in larga parte inesplorati o finora superficialmente consultati.

Uno di questi è senz’altro quello dei Tribunali Militari di Guerra: il fondo, che consta di ben 193 faldoni, è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato; raccoglie i processi per brigantaggio e per favoreggiamento che furono istruiti in applicazione della famigerata legge Pica, primo esempio di legislazione speciale della neonata nuova Italia. Si tratta quasi sempre di processi sommari, di processi indiziari, di una parvenza di giustizia insomma.

L’epilogo è quasi sempre scontato: il contadino meridionale, in quanto tale, non può che essere colpevole e per lui non vi è che la condanna, già scritta ancor prima della sentenza.
Se è così allora perché studiarseli tutti?

Semplicemente perché ognuno dei processi riserva qualche sorpresa, chiarisce alcuni fatti, delinea il carattere dei suoi spesso involontari protagonisti.

Si può dire che in ogni processo si può carpire una pennellata originale che contribuisce a dipingere un più ampio affresco: quello della civiltà contadina del Sud che del brigantaggio fu l’humus e il brodo di coltura.
Certo la documentazione contenuta nei processi va utilizzata con cautela: essa, analogamente agli scritti biografici dei briganti, è riconducibile al genere cosiddetto di “letteratura contaminata”: da un lato la necessità di minimizzare la portata delle azioni brigantesche da parte dei protagonisti; dall’altro l’esposizione dei fatti e le deposizioni, entrambe filtrate allo scopo di indirizzare i processi nell’ottica del potere militare per incanalarli in un alveo di delinquenza comune e quindi di legittimazione della repressione poliziesca, di punizione che sia ad un tempo monito e deterrente, ed infine mezzo per l’affermazione e il consolidamento del nuovo sistema statuale.

Ed è un primo rilevante inquinamento processuale; un altro, non meno importante, è quello linguistico: senza garanzie di difesa ed in presenza di testimoni ed imputati in genere analfabeti è, evidentemente, assai facile, riportare nei verbali dibattimentali non già ciò che veramente emerge dalle deposizioni ma ciò che si vuole che emerga. Si pensi, tanto per fare un esempio banale alla italianizzazione dei soprannomi.

Ci si rende conto facilmente di come la risultanza processuale subisca prima un filtro “ideologico” del magistrato che detta e poi quello “linguistico-burocratichese” del cancelliere che trascrive.
Ciò non toglie però che qualcosa, attraverso le maglie della censura militare e la studiata frettolosità delle trascrizioni, sfugga.

Questo “qualcosa” è proprio ciò che va colto, un frammento, un barlume di verità, una piccola tessera del mosaico che bisogna pazientemente tentare di ricostruire. Su tutti un esempio: nella pubblicistica del brigantaggio particolare evidenza è stata data alla ferocia di Ninco Nanco che trucidò il capitano Capoduro e il deputato di PS Polisella. E’ indiscutibile che l’eccidio ci sia stato ed è pure altrettanto certo che sia stato efferato.

Ma le ragioni vere chi mai le ha ricercate?

Orbene in un processo per manutengolismo, per favoreggiamento cioè, vengono processati alcuni notabili di Avigliano (Corbo, Telesca ecc.).

Tra le carte del processo vi è la copia di una lettera del feroce brigante alle autorità nella quale, ammettendo la paternità dell’eccidio, ne dà una sua lettura: sarebbero stati proprio i manutengoli a metterlo sull’avviso;

Capoduro e Polisella trattavano la resa del brigante con animo malfido.
Con loro, nel corso delle trattative, avrebbero portato bocce di vino avvelenato per toglierlo di mezzo. Da qui la reazione di Ninco Nanco e dei suoi uomini.

Ciò non giustifica l’eccidio ma ci aiuta a capirne le vere cause.

Le preoccupazioni di chi – all’interno degli approfondimenti revisionistici in atto – raccomanda di non dar troppo peso alle risultante processuali sembrano oggi dettate da un non condivisibile timore di vedere, anche parzialmente, non suffragata a livello documentale la propria lettura ideologica dell’insurrezione contadina. Ma è timore ingiustificato, perché se anche emerge (e, piaccia o no, emerge inequivocabilmente) dalle carte dei Tribunali Militari che non tutto il brigantaggio fu “ideologicizzato”, dettato cioè da ragioni esclusivamente legittimistiche, i fascicoli del fondo dimostrano per converso tutta l’ampiezza della insurrezione e testimoniamo la gratuita violenza del conquistatore, chiariscono il suo atteggiamento colonizzatore, fanno emergere il dramma esistenziale delle classi rurali del Sud;
tratteggiano chiaramente il ruolo ambiguo e profittatore della piccola e media borghesia meridionale, il doppiogioco e le collusioni dei “galantuomini” (maestri nell’arte di tenere un piede in due e più scarpe);
risultano perciò fondamentali ai fini della comprensione del “quotidiano” dei rivoltosi, dell’umanità di un popolo dolente che – dapprima illuso dalla speranza di una rivoluzione sociale - subì poi la cocente delusione di una rivoluzione borghese; ne evidenziano pure le debolezze, gli errori e, talora, anche l’ansia irrazionale di vendetta e la conseguente crudeltà.

Questi fondi insomma ci restituiscono gli orrori di una legislazione solamente repressiva, le infamie di una guerra d’occupazione, ipocritamente ammantata di idealità unitarie e libertarie, ci danno la cifra della rozzezza dei conquistatori, ma hanno un merito intrinseco che non può sfuggire all’occhio pacato e scevro di passioni partigiane dello storico obiettivo: disvelano la vera natura del brigante meridionale, ora fiero, ora debole; capace di assoluta fedeltà come di squallidi tradimenti; a tratti generoso, a tratti crudele; tenero o violento a seconda delle circostanze; coraggioso fino al sacrificio finale, ma anche vigliacco nel momento della resa.

Ci restituiscono l’immagine reale di un uomo ora mitizzato, ora demonizzato: quella di un uomo, di un uomo del Sud che, oppresso, tramutò (prendendo in prestito una famosa immagine virgiliana)le sue falci ricurve in armi e, alzata la testa, osò ribellarsi.

Per questi motivi va continuato lo scavo archivistico: non per trovare supporti documentali alle nostre passioni ideologiche, ma soltanto per capire, anzi per capire meglio.

Segnalazione:Rete Sud

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