giovedì 31 maggio 2012

Le spine della Liberazione - Verità rimosse tornano in libreria


Gigi Di Fiore rilegge crimini e misfatti
degli Alleati nel Sud dopo il 1943

Michele De FeudisFonte: Corriere del Mezzogiorno
Verità storiche rimosse tornano in libreria senza alcuna rilettura ideologica. Racconti finora relegati nella memorialistica divengono così il materiale primario di una ricerca che punta ad arricchire la storia patria con vicende dimenticate. Il saggio di Gigi Di Fiore, Controstoria della Liberazione. Le stragi e i crimini dimenticati degli alleati nell’Italia del Sud (Rizzoli) si inserisce nel filone revisionista inaugurato da Il sangue dei vintidi Giampaolo Pansa, e scandaglia la fase finale della Seconda Guerra mondiale, soffermandosi sul meridione tra l’occupazione americana e il debole «Regno del Sud».
«Il mio lavoro non intende contestare il significato storico e morale del sangue versato dagli angloamericani per sconfiggere il nazifascismo, ma ristabilire una verità a tutto tondo sulla vittoria alleata nel Mezzogiorno, dove i liberati furono violati dai liberatori, in una mistificazione dei ruoli tra aguzzini santificati e vittime zittite»: la premessa di Di Fiore punta a rompere il silenzio che, per ragioni di «Realpolitik», fu adottato nelle vulgate ufficiali per occultare stragi, connivenze tra liberatori e mafiosi, violenze sulle donne che generarono la terribile categoria della marochinate e disastri ecologici scaturiti dall’iprite (il caso della nave americana John Harvey bombardata dai tedeschi mentre era nel porto di Bari).
«Capita spesso - scrive Di Fiore - che le memorie individuali divergano dai valori e dalle ricostruzioni offerte dalla storia ufficiale. Anche nella mia famiglia si sono tramandati ricordi non sempre politicamente corretti su quei mesi». Il riferimento è la vicenda di una zia, Nannina, violentata insieme a tante donne ciociare dalle truppe alleate nel Lazio. Non volle mai sposarsi né partecipare ai comitati che ottennero degli indennizzi statali per violenze subite. «No, no, mica mi potevano ridare l’onore. Mica mi potevano fare di nuovo signorina» spiegava. Dopo la caduta del fascismo, nel meridione d’Italia furono disseminati numerosi campi di internamento nei quali venivano reclusi «criminali pericolosi, fascisti, nemici, spie, gente che si era arricchita nel Ventennio insieme con civili, spesso povera gente impiegata nella burocrazia fascista con mansioni irrilevanti, accusata di chissà quali misfatti senza aver fatto nulla». Taranto ospitò una di queste strutture: il campo jonico era a Sant’Andrea, vicino all’attuale quartiere Paolo VI. L’organizzazione prevedeva dieci recinti, «chiamati pen come le aree dove si tengono i polli». Il 9 aprile del 1945 fu teatro di una rivolta. Alcune sentinelle spararono ad un giovane prigioniero che stava ricevendo dalla madre, attraverso il reticolato, del cibo. E la situazione fu ricomposta solo grazie alla collaborazione degli ufficiali della X Mas, che avevano rapporti con i servizi inglesi.
Tra le varie storie di prigionieri risalta quella del generale Nicola Bellomo: l’8 settembre 1943, dopo la resa di Badoglio, evitò con un manipolo di soldati coraggiosi che i tedeschi devastassero il porto di Bari. Gli inglesi inizialmente gli assegnarono una medaglia d’argento e lo nominarono comandante della Piazza di Bari. Poi si ricordarono che aveva fatto riacciuffare due ufficiali britannici reclusi a Torre Tasca, e lo accusarono di «crimini di guerra», arrivando il 28 luglio 1945 a fucilarlo dopo un processo farsa. Sul bombardamento tedesco nel porto di Bari della notte tra il 1° e il 2 dicembre del 1943, Di Fiore offre una versione senza edulcorazioni: tra le navi colpite c’era la statunitense «John Harvey» che «trasportava un micidiale carico top secret di 91 tonnellate d’iprite, gas di solito utilizzato per la guerra chimica». L’iprite si coagulò in una sorta di «mostarda» che insieme alla nafta fuoriuscita dalle petroliere affondate formò «un velo mortale» sull’acqua del porto. Tragico il bilancio: 800 militari intossicati o ustionati, 250 morti civili. La presenza di gas vietati dalla Convenzione di Ginevra fu nascosta nei rapporti ufficiali degli angloamericani. «Wiston Churcill andò oltre nell’operazione di occultamento: pretese che dal testo venisse cancellata la parola "iprite"». Ma i postumi di questa mattanza hanno lasciato tracce indelebili nell’Adriatico per i decenni successivi: dal 1955 al 2000 più di 200 pescatori hanno presentato denunce per ustioni di varia entità attribuibili al «gas mostarda». Vittime collaterali della Hiroshima barese.

Michele De FeudisFonte: Corriere del Mezzogiorno
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Gigi Di Fiore rilegge crimini e misfatti
degli Alleati nel Sud dopo il 1943

Michele De FeudisFonte: Corriere del Mezzogiorno
Verità storiche rimosse tornano in libreria senza alcuna rilettura ideologica. Racconti finora relegati nella memorialistica divengono così il materiale primario di una ricerca che punta ad arricchire la storia patria con vicende dimenticate. Il saggio di Gigi Di Fiore, Controstoria della Liberazione. Le stragi e i crimini dimenticati degli alleati nell’Italia del Sud (Rizzoli) si inserisce nel filone revisionista inaugurato da Il sangue dei vintidi Giampaolo Pansa, e scandaglia la fase finale della Seconda Guerra mondiale, soffermandosi sul meridione tra l’occupazione americana e il debole «Regno del Sud».
«Il mio lavoro non intende contestare il significato storico e morale del sangue versato dagli angloamericani per sconfiggere il nazifascismo, ma ristabilire una verità a tutto tondo sulla vittoria alleata nel Mezzogiorno, dove i liberati furono violati dai liberatori, in una mistificazione dei ruoli tra aguzzini santificati e vittime zittite»: la premessa di Di Fiore punta a rompere il silenzio che, per ragioni di «Realpolitik», fu adottato nelle vulgate ufficiali per occultare stragi, connivenze tra liberatori e mafiosi, violenze sulle donne che generarono la terribile categoria della marochinate e disastri ecologici scaturiti dall’iprite (il caso della nave americana John Harvey bombardata dai tedeschi mentre era nel porto di Bari).
«Capita spesso - scrive Di Fiore - che le memorie individuali divergano dai valori e dalle ricostruzioni offerte dalla storia ufficiale. Anche nella mia famiglia si sono tramandati ricordi non sempre politicamente corretti su quei mesi». Il riferimento è la vicenda di una zia, Nannina, violentata insieme a tante donne ciociare dalle truppe alleate nel Lazio. Non volle mai sposarsi né partecipare ai comitati che ottennero degli indennizzi statali per violenze subite. «No, no, mica mi potevano ridare l’onore. Mica mi potevano fare di nuovo signorina» spiegava. Dopo la caduta del fascismo, nel meridione d’Italia furono disseminati numerosi campi di internamento nei quali venivano reclusi «criminali pericolosi, fascisti, nemici, spie, gente che si era arricchita nel Ventennio insieme con civili, spesso povera gente impiegata nella burocrazia fascista con mansioni irrilevanti, accusata di chissà quali misfatti senza aver fatto nulla». Taranto ospitò una di queste strutture: il campo jonico era a Sant’Andrea, vicino all’attuale quartiere Paolo VI. L’organizzazione prevedeva dieci recinti, «chiamati pen come le aree dove si tengono i polli». Il 9 aprile del 1945 fu teatro di una rivolta. Alcune sentinelle spararono ad un giovane prigioniero che stava ricevendo dalla madre, attraverso il reticolato, del cibo. E la situazione fu ricomposta solo grazie alla collaborazione degli ufficiali della X Mas, che avevano rapporti con i servizi inglesi.
Tra le varie storie di prigionieri risalta quella del generale Nicola Bellomo: l’8 settembre 1943, dopo la resa di Badoglio, evitò con un manipolo di soldati coraggiosi che i tedeschi devastassero il porto di Bari. Gli inglesi inizialmente gli assegnarono una medaglia d’argento e lo nominarono comandante della Piazza di Bari. Poi si ricordarono che aveva fatto riacciuffare due ufficiali britannici reclusi a Torre Tasca, e lo accusarono di «crimini di guerra», arrivando il 28 luglio 1945 a fucilarlo dopo un processo farsa. Sul bombardamento tedesco nel porto di Bari della notte tra il 1° e il 2 dicembre del 1943, Di Fiore offre una versione senza edulcorazioni: tra le navi colpite c’era la statunitense «John Harvey» che «trasportava un micidiale carico top secret di 91 tonnellate d’iprite, gas di solito utilizzato per la guerra chimica». L’iprite si coagulò in una sorta di «mostarda» che insieme alla nafta fuoriuscita dalle petroliere affondate formò «un velo mortale» sull’acqua del porto. Tragico il bilancio: 800 militari intossicati o ustionati, 250 morti civili. La presenza di gas vietati dalla Convenzione di Ginevra fu nascosta nei rapporti ufficiali degli angloamericani. «Wiston Churcill andò oltre nell’operazione di occultamento: pretese che dal testo venisse cancellata la parola "iprite"». Ma i postumi di questa mattanza hanno lasciato tracce indelebili nell’Adriatico per i decenni successivi: dal 1955 al 2000 più di 200 pescatori hanno presentato denunce per ustioni di varia entità attribuibili al «gas mostarda». Vittime collaterali della Hiroshima barese.

Michele De FeudisFonte: Corriere del Mezzogiorno
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