mercoledì 30 maggio 2012

Emigranti di tutto il Sud, tornate

Oggi andare via è l'unica prospettiva per chi è nato nel Mezzogiorno. Eppure proprio loro sono l'immagine migliore che questa terra può dare. Bisogna incentivarli a rientrare in Italia e a investire nei luoghi d'origine 


 Di Roberto Saviano Roberto SavianoRoberto Saviano
 Fonte: L'Espresso




Nessuna persona con cui avevo un rapporto di amicizia nella mia zona vive più in Campania. Nemmeno i miei parenti sono rimasti a Napoli e Caserta: gran parte di loro è andata via. Appartengo a una generazione di migranti. Negli anni Sessanta o Settanta, e a dire il vero anche per tutti gli Ottanta, quando al Sud si aveva un figlio emigrante c'era la tendenza a nasconderlo, come se fosse una sorta di debolezza. Le famiglie più realizzate erano quelle che si trasferivano in blocco mentre chi si divideva, spesso con donne, figli, fidanzate e fratelli costretti all'attesa, provava disagio nel confessare l'emigrazione. Le frasi erano attente: "E' andato un periodo fuori" oppure "E' a Milano ma ora mi ha detto che tornerà". A Massimo Troisi, nell'esordio di "Ricomincio da tre", tutti a Firenze ripetevano la stessa domanda: "Emigrante?" e lui ribatteva sempre con una negazione. 


Dagli anni Novanta invece percezione e sensibilità sono cambiate, con connotati forse più drammatici. Quando ci si incontra per strada spesso il dialogo tra genitori è: "Tua figlia poi che fa?", "Mia figlia è a Milano!" oppure "E' in Inghilterra, sai...". E quando arriva la replica "E tua figlia?", a quel punto si manifesta l'imbarazzo per il giovane rimasto in città: rispondere "Lavora a Napoli" spesso significa ammettere che non sta combinando granché, e allora sempre più si dice "Sta per partire per Milano" oppure "Vive qui... ma si sta per trasferire!". Fare le valigie ormai è la sola possibilità di crescita: un motivo d'orgoglio. Tranne poche eccezioni, il lavoro al Sud sembra sinonimo di raccomandazioni o protezioni: appare come una concessione, anche quando c'è talento e tanto, anche quando i giovani hanno i meriti per avere diritto a un posto. 


L'EMIGRAZIONE E' PROTAGONISTA pure nelle statistiche. Gli ultimi dati danno volto all'esodo verso il Nord, in testa la Campania con 33.800 persone l'anno; 23.700 provengono dalla Sicilia; 19.600 dalla Puglia; 14.200 dalla Calabria. Il Rapporto Svimez 2011, redatto dall'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, racconta che l'Italia è l'unico paese in Europa ancora spaccato in due: a un Centro-Nord che attira flussi corrisponde un Sud che espelle forza lavoro senza rimpiazzarla. Eppure l'immagine migliore che il Sud possa dare oggi sono proprio i suoi migranti. E' da loro che vengono le storie di resistenza e capacità. La qualità della manodopera, il dinamismo delle intelligenze, i professori meridionali, i dirigenti approdati nelle istituzioni economiche settentrionali. Insomma un'intera umanità capace di affermarsi con le proprie doti e la propria volontà. 


Ma nel nord Italia i flussi che arrivano dal Sud sono due. Persone e capitali. Spesso questi ultimi sono capitali criminali. Li testimoniano catene di pizzerie cresciute molto in fretta e con azionisti occulti nascosti dietro sigle offshore; gelaterie di lusso nate dal nulla; negozi di abbigliamento che spuntano ovunque con società meridionali e un Dna chiaramente da riciclaggio; finanziarie alimentate con soldi dei clan. Una trasfusione che solo in apparenza diffonde benessere, mentre trasmette un contagio letale che lentamente soffoca il mercato e la concorrenza. 


E' UNA DOPPIA EMORRAGIA che strappa al Sud risorse economiche e umane. Non è una questione solo meridionale, non si può ignorarla o sperare di confinarla in quella che una volta si chiamava con disprezzo Bassa Italia. Basterebbe poco per invertire il circuito della fuga e renderlo virtuoso: se solo si riuscisse a convincere le comunità di emigrati a investire nelle regioni d'origine, allora la linfa potrebbe tornare alle radici. I meridionali d'Argentina, d'America, di Germania e d'Australia dovrebbero essere incentivati con agevolazioni e sgravi fiscali a percorrere in senso inverso la diaspora. Non è impossibile: il Brasile lo sta facendo, trasformando l'identità in sviluppo, legando emigrati a comunità di provenienza nella nuova prosperità del gigante amazzonico. E' questo il modello Brasile a cui mi piace guardare, senza arrendermi alla nostra realtà sempre più povera di idee e di iniziativa.


Fonte: L'Espresso


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Oggi andare via è l'unica prospettiva per chi è nato nel Mezzogiorno. Eppure proprio loro sono l'immagine migliore che questa terra può dare. Bisogna incentivarli a rientrare in Italia e a investire nei luoghi d'origine 


 Di Roberto Saviano Roberto SavianoRoberto Saviano
 Fonte: L'Espresso




Nessuna persona con cui avevo un rapporto di amicizia nella mia zona vive più in Campania. Nemmeno i miei parenti sono rimasti a Napoli e Caserta: gran parte di loro è andata via. Appartengo a una generazione di migranti. Negli anni Sessanta o Settanta, e a dire il vero anche per tutti gli Ottanta, quando al Sud si aveva un figlio emigrante c'era la tendenza a nasconderlo, come se fosse una sorta di debolezza. Le famiglie più realizzate erano quelle che si trasferivano in blocco mentre chi si divideva, spesso con donne, figli, fidanzate e fratelli costretti all'attesa, provava disagio nel confessare l'emigrazione. Le frasi erano attente: "E' andato un periodo fuori" oppure "E' a Milano ma ora mi ha detto che tornerà". A Massimo Troisi, nell'esordio di "Ricomincio da tre", tutti a Firenze ripetevano la stessa domanda: "Emigrante?" e lui ribatteva sempre con una negazione. 


Dagli anni Novanta invece percezione e sensibilità sono cambiate, con connotati forse più drammatici. Quando ci si incontra per strada spesso il dialogo tra genitori è: "Tua figlia poi che fa?", "Mia figlia è a Milano!" oppure "E' in Inghilterra, sai...". E quando arriva la replica "E tua figlia?", a quel punto si manifesta l'imbarazzo per il giovane rimasto in città: rispondere "Lavora a Napoli" spesso significa ammettere che non sta combinando granché, e allora sempre più si dice "Sta per partire per Milano" oppure "Vive qui... ma si sta per trasferire!". Fare le valigie ormai è la sola possibilità di crescita: un motivo d'orgoglio. Tranne poche eccezioni, il lavoro al Sud sembra sinonimo di raccomandazioni o protezioni: appare come una concessione, anche quando c'è talento e tanto, anche quando i giovani hanno i meriti per avere diritto a un posto. 


L'EMIGRAZIONE E' PROTAGONISTA pure nelle statistiche. Gli ultimi dati danno volto all'esodo verso il Nord, in testa la Campania con 33.800 persone l'anno; 23.700 provengono dalla Sicilia; 19.600 dalla Puglia; 14.200 dalla Calabria. Il Rapporto Svimez 2011, redatto dall'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, racconta che l'Italia è l'unico paese in Europa ancora spaccato in due: a un Centro-Nord che attira flussi corrisponde un Sud che espelle forza lavoro senza rimpiazzarla. Eppure l'immagine migliore che il Sud possa dare oggi sono proprio i suoi migranti. E' da loro che vengono le storie di resistenza e capacità. La qualità della manodopera, il dinamismo delle intelligenze, i professori meridionali, i dirigenti approdati nelle istituzioni economiche settentrionali. Insomma un'intera umanità capace di affermarsi con le proprie doti e la propria volontà. 


Ma nel nord Italia i flussi che arrivano dal Sud sono due. Persone e capitali. Spesso questi ultimi sono capitali criminali. Li testimoniano catene di pizzerie cresciute molto in fretta e con azionisti occulti nascosti dietro sigle offshore; gelaterie di lusso nate dal nulla; negozi di abbigliamento che spuntano ovunque con società meridionali e un Dna chiaramente da riciclaggio; finanziarie alimentate con soldi dei clan. Una trasfusione che solo in apparenza diffonde benessere, mentre trasmette un contagio letale che lentamente soffoca il mercato e la concorrenza. 


E' UNA DOPPIA EMORRAGIA che strappa al Sud risorse economiche e umane. Non è una questione solo meridionale, non si può ignorarla o sperare di confinarla in quella che una volta si chiamava con disprezzo Bassa Italia. Basterebbe poco per invertire il circuito della fuga e renderlo virtuoso: se solo si riuscisse a convincere le comunità di emigrati a investire nelle regioni d'origine, allora la linfa potrebbe tornare alle radici. I meridionali d'Argentina, d'America, di Germania e d'Australia dovrebbero essere incentivati con agevolazioni e sgravi fiscali a percorrere in senso inverso la diaspora. Non è impossibile: il Brasile lo sta facendo, trasformando l'identità in sviluppo, legando emigrati a comunità di provenienza nella nuova prosperità del gigante amazzonico. E' questo il modello Brasile a cui mi piace guardare, senza arrendermi alla nostra realtà sempre più povera di idee e di iniziativa.


Fonte: L'Espresso


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