mercoledì 8 febbraio 2012

Gaetano Salvemini: fino alla fine controcorrente


Giustizia, libertà e democrazia sono le tre stelle polari del pensiero di Gaetano Salvemini. Uno "scienziato politico" che non rinunciò ad andare, fino alla fine, controcorrente. Anche a costo di scontrarsi contro i grandi "ismi" che aggregavano la quasi totalità delle forze della neonata Repubblica: il clericalismo da un parte e il comunismo dall'altra.

di Pierpaolo Lauria
Fonte: MicroMega

Non appena Salvemini rimise piede nell’Italia finalmente liberata, nel 1947, non si perse in inutili chiacchiere festose e in trionfalismo retorico, sedendosi comodo sugli allori.
Sapeva bene che il cammino della democrazia appena imboccato, dopo i lunghi anni oscuri vissuti nel vicolo cieco della dittatura, sarebbe stato difficile e pieno d’insidie, tormentato da ombre minacciose e molto tortuoso.
Non disperse quindi una goccia d’entusiasmo che si sprigionava in lui da ogni poro, ma le convogliò in forza motrice ed energia che lo spinse a impegnarsi come un tarantolato per tentare di costruire un paese più libero, più democratico e più giusto.

Giustizia, libertà e democrazia sono le tre stelle polari del suo pensiero politico fin dalle origini: non è un caso che scegliesse “Tre Stelle” come uno dei suoi pseudonimi giornalistici.
Per il vecchio guerriero, che non sentiva gli acciacchi e il peso degli anni, non era ancora giunta l’età della pensione; lontani erano i cipressi, i castagni e le querce, sotto cui gustare l’ombra amica della meditazione spensierata; così come il torpore avvolgente del focolare, conciliatore degli studi invernali; era tornato così come se n’era andato: non per cantare Giovinezza giovinezza.

Riprese a insegnare, con la gioia di un maestro alle prime armi, all’ateneo fiorentino, la sua Università. Cominciò a scrivere con penna di infuocata, affilata e pungente, su alcune testate giornalistiche per scuotere gli animi più pigri e quelli più imbelli a contribuire alla costruzione della neonata e giovane Italia repubblicana e democratica, e per sferzare energicamente i vili e i mascalzoni, che costruivano invece facciate nuove, dietro cui nascondere travi e impalcature vecchie.
La collaborazione più importante di questa nuova e prolifica stagione giornalistica è con “Il Mondo” di M. Pannunzio, e poi interventi a sua prestigiosa firma si susseguirono su “Controcorrente”, sul “Ponte” diretto da P. Calamandrei (padre costituente e amico di vecchia data), sul “Mulino” e su “Critica sociale”.

Tra i diversi argomenti, trattati su queste testate, la sua attenzione si appuntò particolarmente sulla difesa di A. Tasca (uno sventurato, vittima di due totalitarismi, che per fuggire al fascismo si era rifugiato nella parrocchia comunista: dalla padella alla brace, direbbe Salvemini) dall’infamante accusa dei “parrocchiani comunisti” di collaborazionismo con il regime di Vichy; sulla dura polemica contro i rigurgiti neofascisti e le nostalgie monarchiche, protese a riabilitare spudoratamente la memoria del duce infallibile (il revisionismo del fascismo, a tutt’oggi di preoccupante attualità, ha radici lunghe), “ostetrico eccezionale costretto ad operare con ferri di fortuna”, mentre in pari tempo si colpiva l’antifascismo accusandolo di antinazionalismo (anche il tema della “morte della patria” non è nuovo). Di contro si assolveva la monarchia impotente rispetto a un popolo che era quel che era, carogna e buono a nulla: “Gli italiani sono fatti così”, ricurvi e gobbi; sulla difesa della laicità contro la ripresa dell’offensiva “clerocratica” e, in misura minore, contro quella comunista.

Nel dopoguerra si ritrovò di nuovo a misurarsi faccia a faccia con la strisciante e subdola minaccia clericale: il nemico da combattere era antico e ritornava baldanzoso sugli scudi.
Già in principio di secolo se l’era vista brutta con questo pericoloso mostro, che ora era risorto più forte di prima sulle ceneri del fascismo, che fu il secondo temibile avversario affrontato ed era ora in ritirata, mentre avanzava un insidioso e nuovo nemico, a trombe levate e a spron battuto, il comunismo internazionale, tutto impettito di medaglie sulla scia del prestigio conseguito in battaglia.
Sono le “tre bestie totalitarie” in ordine di comparsa nell’esistenza di Salvemini, da lui gagliardamente e tenacemente combattute.

La difesa della tradizione laica è uno dei toni costanti del suo impegno civile.
La sua preoccupazione maggiore per la laicità dello Stato, nell’Italia una volta fascista e ora democrista, era rivolta all’Annibale clericale che, a differenza di quello comunista, che non aveva ancora varcato le Alpi, era già nella fortezza.
In questo senso va letta come un dotarsi di un’arma di difesa per contrastare l’assalto clericale, un antidoto al veleno, la pubblicazione nel 1951 del volume Il programma scolastico dei clericali, che raccoglie e ripropone una serie di scritti risalenti al periodo liberale [1].
Tanto grande era stata la sua stima per Sturzo, un vero democratico cristiano, quanto la sua avversione e il fastidio provato per i cristiani democratici, servi del Vaticano.
Era allergico agli “ismi” di tutti i tipi per la sua ben nota propensione al concreto, per cui acconsentiva che si parlasse di “politica cattolica” e bandiva nel contempo l’astrazione “cattolicesimo”.

All’interno di questa politica distingueva tra l’alto clero fedele alla politica cattolica e obbediente come gli scolaretti al Papa (le spinte conciliaristiche si erano spente da almeno cinque secoli) e il basso clero, che “lavorò sul campo” tra i fedeli, tra cure d’anime e gli altri loro quotidiani problemi, spesso dissidente rispetto alla politica ufficiale delle alte sfere e del sommo pontefice.
Negli anni del centrismo, temeva che i cattolici trasformassero la democrazia in clericocrazia, che lo Stato diventasse clericale. Sospettava che A. De Gasperi, che proclamava “democrazia, democrazia, democrazia”, fosse solo il capitano del vapore mentre il padrone fosse il Papa.
Profuse quindi il massimo dell’impegno nell’evitare l’ingerenza della Chiesa nello Stato, denunciandola ai sette venti ogni volta che ne fiutava i loschi tentavi; d’altro canto lo Stato doveva restare nel proprio orto, senza prevaricare in quelli altrui, ficcando il naso e intromettendosi nelle questioni della Chiesa: “Libera chiesa in libero stato”, dunque.
La laicità è infatti “una dottrina politica” che afferma l’incompetenza delle autorità secolari a decidere di questioni religiose.
Cesare e Cristo potevano essere buoni amici, come lui e Sturzo, ma non andavano confusi, dovevano essere distinti e separati sulle competenze, perché sono diverse.

All’autorità religiosa non va impedito di svolgere il proprio ufficio, l’insegnamento e la dottrina; né va intralciata nella propaganda delle proprie idee, nella libertà di espressione e di opinione; né gli va negato il diritto di consigliare e dare indicazioni ai fedeli.
Lo Stato doveva restare aconfessionale in materia di fede, garantendo la tolleranza delle diverse religioni; ed essere laico garantendo il godimento e l’esercizio delle libertà personali e politiche, tutelando così i diritti inviolabili e intangibili degli individui fuori portata e della disponibilità di qualunque autorità, compresa quello dello Stato.
Lo stato laico è in sostanza uno Stato libero, che dà diritto di scelta e rispetta la sacralità degli individui e la loro discrezionalità di decisione, perché è neutrale (neuter significa propriamente “né l’uno né l’altro”), non s’impone con la forza sulle loro prerogative personali.

Su questo punto, nella prima metà del secolo scorso, Francesco Ruffini scriveva parole, seppur ostiche nella forma, inequivocabili nel significato: “Termine fondamentale del problema è l’uomo e l’assoluto rispetto della sua individualità, egli ha diritto poziore e superiore da far valere nel litigio sopra tutte le pretese di supremazia di questo o di quell’ente, il diritto alla propria piena libertà […] Con che non si vuol punto dire che la Chiesa non possa in tutta libertà continuare a sancire per mezzo delle sue autorità e a professar per bocca dei suoi dottori gli antichi sistemi e le antiche teoriche, che noi, dal canto nostro, stimiamo sorpassati. Questa sua facoltà fa parte anzi di quel regime, che noi propugniamo; il quale deve garantire piena libertà religiosa in tutte quante le sue manifestazioni, siano esse individuali, siano esse collettive […] Si vuol dire solamente, che lo stato più non potrebbe considerare la protezione e il favore di codeste particolari manifestazioni come suo obbligo precipuo e specifico; e tanto meno spingere il suo favore fino a consentire che l’esercizio della libertà religiosa delle collettività o delle Chiese ridondasse a diniego e menomazione dell’eguale libertà di altre collettività o Chiese, e soprattutto a coartazione della piena libertà religiosa degli individui”. [2]

Allorché lo Stato dà la possibilità di scegliere a tutti e tanto meno la nega al cattolico, non si capisce come mai costui si lamenti e insorga indignato. Cosa l’offende? cosa l’urta? Perché mai è così suscettibile? Forse gli si tocca un nervo scoperto: la tentazione egemonica e totalitaria della Chiesa sull’intera società, che si vorrebbe, anziché civile e plurale, solo e unicamente cristiana, in cui il suo verbo è comandamento per tutti.

Furono molte le battaglie che impegnarono Salvemini. Fra le tante sostenne perfino una singolare “guerra di preposizioni”: “Si legge sull’“Osservatore romano” un articolo intitolato “Per la libertà dall’errore”. La libertà dell’errore, per chi non è totalitario, è un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino. Libertà, badiamo bene, giuridica, non libertà intellettuale. Intellettualmente nessuno ha il diritto di proclamare la libertà dell’errore: sarebbe come se dicesse che intende liberarsi dalla ragione, che non gli importa quel che è e quel che non è verità; che si sente libero di cambiare opinione ogni volta vi trovi un profitto, distinguendo non fra verità ed errore, ma fra proprio utile e proprio danno. Ma chi si riconosce intellettualmente a rifiutare la libertà dell’errore, non passa con questo ad affermare il proprio diritto giuridico a violare negli altri la libertà dell’errore”. [3]

Siccome la Chiesa ritiene di avere la “verità in tasca”, di detenerne il monopolio legittimo, ed è anche convinta della sua infallibilità, almeno da Gregorio VII in avanti, dichiara l’errore, vale a dire tutte le opinioni che contrastano con la sua verità assoluta, “innominabile”, un abominio da scacciare, schiacciare e perseguitare a ogni costo (alla verità non piace la concorrenza).
Da qui il giornale della “Santa sede” parte per l’ennesima crociata contro la serpe, di mille e mille anni, da calpestare, per liberare il mondo da questo cancro infestante.
Il clericale non tollera la libertà individuale di coscienza. Ciò che si discosta dalla verità va proibito e annientato con tutti i mezzi, comprese le armi e le leggi. Non si contenta che l’errore sia punito nell’aldilà e bruci tra le fiamme dell’inferno.

I presunti possessori della verità, sicuri della loro salvezza, hanno premura di salvare anche le anime degli altri, pure a forza e contro il loro volere (l’universalismo del messaggio che, da semplice proposta, diventa un atto di forza, un obbligo), dalla perdizione (chi non è religioso è bollato di immoralità, è un essere maligno e pericoloso per la società tout court, in realtà per quella cristiana); si preoccupano, con fervente spirito missionario, del “gregge” da preservare dall’“errare” e dallo smarrimento.
L’errore non è ammesso, non ha cittadinanza, è eretico, fuori della comunità dei fedeli, della chiesa e non ha diritto di circolazione.
Il clericale ne chiede la soppressione in tutti gli ordini e gradi, quindi anche sul piano giuridico e rivendica perentoriamente la libertà della sola verità e la libertà della Chiesa, che altro non è se non la sua solita pretesa di supremazia ed egemonia.
Chi proclama la “libertà dell’errore” nega di fatto la “libertà dell’errore”.

Al contrario il liberale pensa che nessuno possa impedire giuridicamente agli altri di poter sbagliare, “è un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino”, la libertà dell’errore è la tutela giuridica del dissenso, cioè dell’opinione che giudichiamo sbagliata ma che non soffochiamo perciò nel sangue.
La dottrina liberale sostiene che nessuna autorità può imporre le proprie verità con le galere, i manicomi e le ghigliottine.
Il liberale è convinto delle sue opinioni e ritiene che quelle opposte alle sue siano false e moralmente e intellettualmente vi si oppone e contrasta ciò che reputa sbagliato, almeno finché non si convince liberamente di essere in torto, ma non si sente autorizzato a obbligare gli altri ad accettare le sue verità.

Egli difende la tolleranza giuridica non quella intellettuale, mentre la Chiesa non consente né l’una né l’altra.
Salvemini, oltre alla distinzione capitale tra libertà dall’errore e libertà dell’errore, riguardo a quest’ultima ci tiene a non far confusione tra il piano giuridico che l’ammette e il piano intellettuale che non la consente, altrimenti non ci si curerebbe più della differenza tra verità ed errore e si scivolerebbe in una parificazione e uguaglianza scettico-relativistica, in cui verità ed errore si scambiano indifferentemente di ruolo nel gioco utilitaristico delle parti e per il puro profitto.
L’anticlericalismo di Salvemini è “reazionario”, difensivo, non di “principio”, come per Mussolini per esempio, bensì di seconda mano, non un valore in sé, perché il valore è la laicità, negata dal clericalismo, come nel suo antifascismo il valore era la democrazia negata dal fascismo.
La sua pungente critica affonda nella piaga di un modo di pensare dogmatico, in un comportamento fanatico piuttosto che in una categoria definita di persone e sa che il farmaco che inietta per curare la malattia è veleno pericoloso e letale, se assunto senza ragione e precauzione: “Questo nostro anticlericalismo non è salute: è una malattia fastidiosa, che ci è indispensabile per guarire da una malattia peggiore: il clericalismo; l’anticlericalismo segue come l’ombra il corpo: scomparso o attenuato l’uno scomparirebbe o si attuenerebbe l’altro”. [4]

Manifesto di tutte queste sue battaglie laiche e del suo antitotalitarismo può essere considerato il discorso La difesa della cultura (pronunciato al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, tenuto a Parigi, nel 1935). Qui egli accomuna fascismo e comunismo come regimi negatori del pluralismo, tirannici e liberticidi, di contro alla glorificazione di taluni che ne cantano le meraviglie e ne tessono le lodi sperticate come l’ideale dell’umanità: “Non mi sentirei il diritto di protestare contro la Gestapo e l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono isole-penitenziario e nella Russia sovietica c’è la Siberia. Ci sono proscritti, tedeschi ed italiani e ci sono proscritti russi. Siamo tutti d’accordo che la libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale. Il marxismo che, nelle società borghesi, è creatività anti-ufficiale, è divenuto tradizione ufficiale nella società sovietica. La libertà di creazione nelle società borghesi di tipo non fascista è compressa. Nella società borghese di tipo fascista è totalmente repressa. Altrettanto repressa è nella Russia sovietica”. [5]

Senza difendere a oltranza, oltre il lecito e il consentito, le società borghesi non fasciste per quello che sono (significativamente le connota in negativo, senza l’attribuzione di “libere”), lungi dall’essere il paradiso in terra, perfette e inattaccabili, ammonisce aspramente i suoi critici più radicali di non disprezzarle più del dovuto, perché in esse spiragli di libertà e spazi di manovra per cambiarle, si spera in meglio, se ne intravedono, al contrario delle altre, quelle fasciste e comuniste, che sono praticamente immutabili perché perfette e infallibili, addirittura meglio del migliore dei mondi possibili: “Non si apprezzano l’aria e la luce finché le si hanno: per comprenderne il valore bisogna averle perdute. Ma il giorno in cui le libertà sono perdute, riconquistarle non è facile [...] Insomma ci sono delle società borghesi che presentano dei buchi attraverso i quali può spirare un soffio di libertà, dov’è possibile per esempio tenere questo congresso, e ci sono società borghesi in cui ogni buco è ostruito e una sola cultura può svilupparsi, la cultura della menzogna ufficiale […] Non disprezzate le vostre libertà, difendetele ostinatamente pur continuando a dichiararle insufficienti, a lottare per svilupparle”. [6]

Siccome la libertà è il diritto di pensarla diversamente, di essere eretici per l’appunto, l’intellettuale non deve riconoscere a nessuna dottrina il monopolio legale della verità, e invitava a fare delle parole di Voltaire, il motto proprio di chiunque voglia dirsi liberale: “Signor abate, sono convinto che il suo libro è pieno di corbellerie, ma sarei pronto a donare fino all’ultima goccia del mio sangue per assicurarle il diritto di pubblicare le sue corbellerie”.

In coda all’intervento nomina la categoria che raccoglie i tratti comuni di fascismo e comunismo. I due fenomeni presentono altresì differenze significative, e si augura che ciò che malauguratamente è toccato a vivere a lui non sfiori neppure per malasorte gli altri: “Forse occorre aver vissuto l’esperienza di uno Stato totalitario, non fra i dominatori, ma fra coloro che sono stati schiacciati, bisogna conoscere la degradazione morale a cui lo Stato totalitario riduce non soltanto le classi intellettuali, ma anche le classi operaie, per rendersi conto dell’odio e del disprezzo che qualsiasi Stato totalitario, qualsiasi dittatura suscita nel mio animo. Vi auguro, amici di Paesi ancora relativamente liberi, di non dover mai vivere questa esperienza”. [7]
Sulla scia di quest’augurio ricominciò il conflitto con la Chiesa quando le corbellerie degli abati ritornarono a pretendere di diventare legge, i peccati reati, la fede diritto.

Nel dopoguerra la sua proposta politica mirava alla costruzione di una “terza forza”, portava avanti i propositi di GL, per aprire una terza via democratico-liberale e sfuggire all’asfissiante morsa totalitaria di sinistra e di destra: una proposta radicalmente alternativa rispetto alle opzioni Pio XII e Stalin.
Desiderava che i gruppi di centro-sinistra e di sinistra di tradizione democratica, “i passerotti della politica”, non finissero nelle grinfie delle “aquile totalitarie”, ma confluissero e si concentrassero in una “confederazione” polemica e battagliera, in cui ogni gruppo conservasse le proprie organizzazioni, i propri consigli direttivi, le proprie tradizioni, in linea con l’antipatia quasi viscerale emersa oramai da tempo verso la forma fissa e rigida del partito classico.

Il desiderio restò tuttavia inappagato; il progetto politico di Salvemini si rivelò, nelle condizioni di allora, null’altro che un sogno vano, che non spiccò mai il volo, tenuto a terra dal forte vento della “guerra fredda”, che spirava da Oriente e da Occidente, e stretto dai rapporti di forza interni al sistema politico italiano, dominato dai cattolici, forza tradizionale nel paese di casa del Papa, e dai comunisti, nuova forza uscita prepotentemente alla ribalta dalla vittoriosa guerra di liberazione antifascista e partigiana.
Nella pratica, messo davanti alle scelte concrete elettorali e di alleanza politiche, era favorevole – sebbene tutt’altro che entusiasta, di necessità faceva virtù – all’appoggio e alle alleanze dei gruppi e dei partiti di centro-sinistra e di sinistra alla DC, che rappresentava per lui il male minore.

Il suo attivo anticomunismo fu generato dal timore dello sbocco totalitario. Era sospettoso di Togliatti, troppo legato a Stalin e diffidente della svolta di Salerno, pensava che i comunisti covassero segreti piani rivoluzionari.
Tuttavia non c’era una chiusura “totale” verso il partito comunista, prevedendo in talune circostanze accordi transitori e convergenze temporanee su determinati problemi e su singole questioni e nutrendo riposte speranze verso una sua evoluzione socialdemocratica. I fatti, a lungo andare, gli hanno dato ampiamente ragione, ma a questo processo, già in atto, contribuì in misura decisiva il crollo del muro di Berlino e ciò che ne conseguì (il collasso dell’URSS e la fine della guerra fredda) e non solo i bisogni e le condizioni della lotta politica interna italiana: “I comunisti resisi conto che la dipendenza dal governo russo e il metodo totalitario non rispondono a nessun bisogno italiano, adotteranno quei metodi del socialismo gradualista che hanno fatto ottima prova in Inghilterra, e fuori dei quali, in società come quelle dell’Europa occidentale, non è possibile vedere nessuna sicurezza di elevamento materiale, intellettuale e morale per le classi lavoratrici”. [8]

La sua ostilità incondizionata, senza spiragli di cambiamento e senza possibilità di ravvedimento, andava alle destre fasciste, clerico-fasciste e monarchico-fasciste: i veri nemici acerrimi e irriducibili.
Perciò, nella prefazione al volume Italia scombinata, dichiarò di confidare sul ritorno dei comunisti sui loro passi totalitari, al contrario delle “incorreggibili destre”: “Chi non è né missino, né monarchico, né clericale, non deve considerare i comunisti ed i loro compagni di viaggio come nemici eterni, coi quali non sarà mai possibile un dialogo o una intesa; ma deve nello stesso tempo rifiutare qualunque cooperazione con loro, finché non abbiano sicuramente abbandonato ogni intenzione totalitaria”. [9]

In virtù del suo “concretismo”, teoricamente avverso ai pregiudizi ideologici, alle condanne per partito preso, apprezzò l’opera ed elogiò sinceramente l’azione svolta dal partito comunista, secondo lui l’unica forza realmente meridionalistica dell’arco costituzionale, nel Sud: “I comunisti, anche se sono guidati da una volontà totalitaria, compiono nell’Italia meridionale la funzione di rompere una situazione, che i partiti conservatori hanno interesse a perpetuare, e che la sinistra democratico-cristiana e i partiti minori si dimostrano inetti a spezzare. I comunisti fanno quel che noi socialisti vissuti nel primo ventennio di questo secolo non sapemmo fare”. [10]

In quest’ultima stagione politica, in fatto di questione meridionale, ritornò all’ecumenismo non di classe però, bensì geografico. Scoraggiato dalla gente del Sud, auspicava l’aiuto interessato del “popolo del Nord” (lo sviluppo del Mezzogiorno ritardatario avrebbe creato un mercato capace di assorbire le merci fabbricate nel Settentrione): “… via via che la mia fiducia nelle forze indigene del Mezzogiorno si è andata attenuando, ho dovuto convincermi che l’aiuto dei settentrionali è la sola via che si possa battere. E quando c’è una sola via quella è la migliore”. [11]
Auspicava, secondo l’insegnamento di G. Fortunato, dopo l’esperienza fallimentare delle miracolistiche leggi speciali, che avevano prodotto “cattedrali deserte”, abbandonate a se stesse e inutilizzate, di affidarsi a politiche di riforme generali e strutturali.

Il “terrore rosso” frenò Salvemini anche sulla vecchia e annosa questione intrapresa contro il prefetto, un fossile di era liberale, e il suo strapotere.
Il vecchio seguace di Cattaneo ammise che “molte esperienze mi hanno costretto a mettere una certa dose d’acqua nel mio vino federalista di mezzo secolo fa”.
Il prefetto costituiva una vera emergenza democratica. Era l’agente sul territorio del governo centrale che, ingombrante com’era, soffocava l’autonomia degli Enti locali.
Rappresentante diretto del dispotismo statale, sorta di moderno governatore di provincia romano, tirannello onnipotente, disponeva a suo piacimento dell’approvazione delle delibere dei consigli comunali e provinciali e dei loro bilanci, aveva facoltà di sospensione dalle funzioni o di scioglimento dei consigli, commissariandoli.
Il timore che i comunisti potessero avvantaggiarsi dall’abolizione del prefetto, nei loro segreti piani sovversivi, lo consigliò di attenuare i toni e sfumare le richieste rivolte non più alla sua soppressione, ma al contenimento dei suoi poteri.

Il suo antitotalitarismo fu alla base del suo anticomunismo in politica interna così come in politica estera.
Accolse con favore l’ingresso nel Patto Atlantico, in quanto non c’era di meglio, ma non fu mai un fan sfegatato degli americani, e incoraggiò, nel frattempo, e sostenne i progetti di costruzione di una casa comune europea, gli Stati Uniti d’Europa, la via di scampo per non essere stritolati in mezzo ai giganti dell’USA e dell’URSS, come si vagheggiava all’epoca e la cui prima pietra fu messa con il “trattato di Roma” nell’anno della sua morte.
Il suo ideale era una Federazione europea sciolta da guinzagli e da cieca e incondizionata fedeltà all’America, capace di perseguire un’autonoma politica secondo i propri interessi, alleata degli USA, ma non sua cadetta o vassalla.
In sostanza, era il progetto della terza forza trasferito su scala internazionale e, come in politica interna questa forza doveva essere pronta a schierarsi con la DC, così in quella estera l’alleanza doveva essere mantenuta con il campo americano.

Nel tempo comunque, i capisaldi ideali del suo pensiero e della sua azione politica rimasero costanti e irremovibili, non subendo alcuna significativa alterazione, se non marginale, nelle varie fasi del suo impegno politico e delle sue adesioni a partiti e movimenti, che risultano in conclusione non ideologiche, ma pragmatiche, in definitiva funzionali e strumentali al miglior conseguimento dei suoi più profondi convincimenti. Questi sono il principio liberale, chiave di volta di tutto il sistema, per cui alla rivendicazione della mia libertà deve corrispondere il rispetto della libertà altrui e che è alla base dei “sacri” e intangibili diritti civili e politici degli individui in quanto persone e cittadini; una delle colonne del sistema è il principio democratico per cui la libertà non va intesa in senso “signorile” ed elitario, non è riservata alle sole classi possidenti, danarose e colte (e incolte purché benestanti e facoltose), bensì estesa a tutti gli uomini e alle donne di ogni ceto e ordine sociale: la libertà o è per tutti, altrimenti è privilegio, così come la legge è uguale per tutti (da ciò nasce il binomio “Giustizia e Libertà”, l’una è condizione dell’altra e viceversa: dove è assente la giustizia per tutti c’è l’arbitrio e la libertà del più forte, dove manca la libertà per tutti c’è sudditanza e oppressione).

L’altra colonna è rappresentata dal principio socialista o socialdemocratico, che implica una maggiore giustizia sociale (aiuto e solidarietà verso i poveri, gli sfortunati, gli indigenti, gli indifesi) attraverso la costruzione di una società più equa, nella quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e sicurezza per tutti. Senza questo minimo benessere non può sorgere il desiderio della libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati: lo stato di bisogno rende schiavi. Si tratta dei presupposti dei diritti sociali e della rete di protezione denominata welfare state o stato sociale, che si fa carico, o almeno dovrebbe, del problema in maniera più sistematica, strutturale e omogenea rispetto alla tradizionale, sporadica e discontinua carità privata, che resta pratica meritoria e insostituibile degli uomini di buona volontà sia che la facciano con l’intento di guadagnarsi un posto migliore nell’aldilà, sia per sentirsi meglio su questa terra.

All’architettura così composta si aggiunse un terzo tardivo pilastro, il principio repubblicano: “Vittorio Emanuele III, in venti anni di complicità con Mussolini ci rese repubblicani militanti (le repubbliche non nacquero mai dalle virtù o dalla sapienza dei repubblicani, ma dai delitti e dalle scempiaggini dei re)”. [12]
Lo “scienziato politico” Salvemini radunò e versò questi principi essenziali nella formula – sintetica e chiara, come di suo costume – di democrazia, ricavandone che “un regime politico può essere detto democratico solamente se riconosce tutti i diritti personali, tutti i diritti politici, e tutti i diritti sociali, a tutti i cittadini, senza distinzione di classe sociale, di razza e di religione o di opinione politica”. [13]

Non a torto Massimo L. Salvadori può dire: “Salvemini rappresentava, insieme con Croce, l’erede più legittimo del liberalismo italiano. Mentre Croce era il conservatore di tradizione cavouriana-giolittiana, Salvemini si poneva erede della tradizione democratica”. [14]
Tuttavia questa definizione liberal-democratica va completata, perché mancante di un motivo ispiratore del suo pensiero, di una radice della sua azione: la costellazione composta è priva della terza stella, quella socialista, per cui non è abbastanza luminosa e brillante come dovrebbe.
Egli, alla fin fine, più poeticamente – ed è una rarità per “uomo prosaico”, in tutti i sensi, che preferiva la sciabola al fioretto – si definiva un “pazzo malinconico” di epoca glaciale in via d’estinzione: “Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti) ultimi eredi di una stirpe illustre, che si va rapidamente estinguendo; massi erratici, abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. È il ghiacciaio che si chiamò “liberalismo”, “democrazia”, “socialismo” […]. In sintesi ci denomineremo “liberali-democratici-socialisti-repubblicani”. [15]

Il paesaggio politico dipinto da Salvemini era cosparso e popolato da strane figure, “utili idioti”, “compagni di viaggio” e “pazzi malinconici”, tutti coloriti termini che entrarono nel lessico e arricchirono il vocabolario politico italiano. A lui si deve anche il merito di aver coniato la figurativa espressione “stringiti fortemente il naso”. Qui c’è l’invito comunque a partecipare alla consultazione elettorale, a non astenersi, adempiendo anche malvolentieri ai propri doveri di cittadino. Essa fu – erroneamente – attribuita da tanti a Indro Montanelli.

Alla scomparsa del maestro dell’“altra Italia”, civile, onesta, laica e liberale, fustigatore inflessibile dell’“Italia peggiore” viziosa e conformista, malandrina, furbetta ed opportunista “Il Mondo” gli tributa un solenne e grandioso elogio: “Il segreto della sua personalità, il centro motore di tutta una vita è proprio qui: una lezione di intransigenza, di rigore morale, di “impoliticità”, di tutte quelle virtù che troppo spesso difettano nei “saggi” italiani che dopo i primi slanci di generosità giovanile si affrettano a diventar maturi ed a imboccare le vie del compromesso”. [16]

NOTE

[1] G. Salvemini, Il programma scolastico dei clericali, La Nuova Italia, Firenze, 1951.
[2] F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subbietivo, Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 74-75.
[3] G. Salvemini, Una guerra di preposizioni, in “Il Mondo”, 22 marzo 1953, ora in Stato e chiesa in Italia, cit., p. 442.
[4] Citato in S. Bucchi, Laicità e democrazia in “Laicità”, n. 4, dicembre, 2007, p. 7.
[5] G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 670.
[6] G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 668-669.
[7[ G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 670.
[8] G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., p. 659.
[9] G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 854.
[10] G. Salvemini, Italia scombinata, Einaudi, Torino, 1959, p. 227.
[11] G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., 614.
[12] G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 811-812.
[13] G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, cit., pp. 460-462.
[14] M. L. Salvadori, Gaetano Salvemini, cit., pp. 26-27.
[15] G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 810 e 812.
[16] Taccuino, La morte di un laico, in “Il Mondo”, 17 settembre1957. Più di recente, a conferma della grande reputazione e stima di cui gode Salvemini all'estero e dell'impopolarità e delle amnesie che ne perseguita, al contrario, la memoria in Italia, racconta un giovane scrittore, R. Saviano (un uomo del Sud che non piega la testa e resiste “a chiare lettere” a poteri occulti, che “hanno bisogno di silenzio e ombra” e nessuno perciò nomina), durante un suo viaggio a Stoccolma, invitato dall'Accademia che assegna i Nobel da più di un secolo, che molti in quel tempio della cultura gli chiesero “come sono considerati da noi Giorgio La Pira, il mitico sindaco di Firenze degli anni '50, e anche Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani, che lì non solo ricordano ma considerano l'unica degna di memoria”. R. Saviano, La bellezza e l'inferno, Mondadori, Milano, 2009, p. 188.

Fonte: MicroMega

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Giustizia, libertà e democrazia sono le tre stelle polari del pensiero di Gaetano Salvemini. Uno "scienziato politico" che non rinunciò ad andare, fino alla fine, controcorrente. Anche a costo di scontrarsi contro i grandi "ismi" che aggregavano la quasi totalità delle forze della neonata Repubblica: il clericalismo da un parte e il comunismo dall'altra.

di Pierpaolo Lauria
Fonte: MicroMega

Non appena Salvemini rimise piede nell’Italia finalmente liberata, nel 1947, non si perse in inutili chiacchiere festose e in trionfalismo retorico, sedendosi comodo sugli allori.
Sapeva bene che il cammino della democrazia appena imboccato, dopo i lunghi anni oscuri vissuti nel vicolo cieco della dittatura, sarebbe stato difficile e pieno d’insidie, tormentato da ombre minacciose e molto tortuoso.
Non disperse quindi una goccia d’entusiasmo che si sprigionava in lui da ogni poro, ma le convogliò in forza motrice ed energia che lo spinse a impegnarsi come un tarantolato per tentare di costruire un paese più libero, più democratico e più giusto.

Giustizia, libertà e democrazia sono le tre stelle polari del suo pensiero politico fin dalle origini: non è un caso che scegliesse “Tre Stelle” come uno dei suoi pseudonimi giornalistici.
Per il vecchio guerriero, che non sentiva gli acciacchi e il peso degli anni, non era ancora giunta l’età della pensione; lontani erano i cipressi, i castagni e le querce, sotto cui gustare l’ombra amica della meditazione spensierata; così come il torpore avvolgente del focolare, conciliatore degli studi invernali; era tornato così come se n’era andato: non per cantare Giovinezza giovinezza.

Riprese a insegnare, con la gioia di un maestro alle prime armi, all’ateneo fiorentino, la sua Università. Cominciò a scrivere con penna di infuocata, affilata e pungente, su alcune testate giornalistiche per scuotere gli animi più pigri e quelli più imbelli a contribuire alla costruzione della neonata e giovane Italia repubblicana e democratica, e per sferzare energicamente i vili e i mascalzoni, che costruivano invece facciate nuove, dietro cui nascondere travi e impalcature vecchie.
La collaborazione più importante di questa nuova e prolifica stagione giornalistica è con “Il Mondo” di M. Pannunzio, e poi interventi a sua prestigiosa firma si susseguirono su “Controcorrente”, sul “Ponte” diretto da P. Calamandrei (padre costituente e amico di vecchia data), sul “Mulino” e su “Critica sociale”.

Tra i diversi argomenti, trattati su queste testate, la sua attenzione si appuntò particolarmente sulla difesa di A. Tasca (uno sventurato, vittima di due totalitarismi, che per fuggire al fascismo si era rifugiato nella parrocchia comunista: dalla padella alla brace, direbbe Salvemini) dall’infamante accusa dei “parrocchiani comunisti” di collaborazionismo con il regime di Vichy; sulla dura polemica contro i rigurgiti neofascisti e le nostalgie monarchiche, protese a riabilitare spudoratamente la memoria del duce infallibile (il revisionismo del fascismo, a tutt’oggi di preoccupante attualità, ha radici lunghe), “ostetrico eccezionale costretto ad operare con ferri di fortuna”, mentre in pari tempo si colpiva l’antifascismo accusandolo di antinazionalismo (anche il tema della “morte della patria” non è nuovo). Di contro si assolveva la monarchia impotente rispetto a un popolo che era quel che era, carogna e buono a nulla: “Gli italiani sono fatti così”, ricurvi e gobbi; sulla difesa della laicità contro la ripresa dell’offensiva “clerocratica” e, in misura minore, contro quella comunista.

Nel dopoguerra si ritrovò di nuovo a misurarsi faccia a faccia con la strisciante e subdola minaccia clericale: il nemico da combattere era antico e ritornava baldanzoso sugli scudi.
Già in principio di secolo se l’era vista brutta con questo pericoloso mostro, che ora era risorto più forte di prima sulle ceneri del fascismo, che fu il secondo temibile avversario affrontato ed era ora in ritirata, mentre avanzava un insidioso e nuovo nemico, a trombe levate e a spron battuto, il comunismo internazionale, tutto impettito di medaglie sulla scia del prestigio conseguito in battaglia.
Sono le “tre bestie totalitarie” in ordine di comparsa nell’esistenza di Salvemini, da lui gagliardamente e tenacemente combattute.

La difesa della tradizione laica è uno dei toni costanti del suo impegno civile.
La sua preoccupazione maggiore per la laicità dello Stato, nell’Italia una volta fascista e ora democrista, era rivolta all’Annibale clericale che, a differenza di quello comunista, che non aveva ancora varcato le Alpi, era già nella fortezza.
In questo senso va letta come un dotarsi di un’arma di difesa per contrastare l’assalto clericale, un antidoto al veleno, la pubblicazione nel 1951 del volume Il programma scolastico dei clericali, che raccoglie e ripropone una serie di scritti risalenti al periodo liberale [1].
Tanto grande era stata la sua stima per Sturzo, un vero democratico cristiano, quanto la sua avversione e il fastidio provato per i cristiani democratici, servi del Vaticano.
Era allergico agli “ismi” di tutti i tipi per la sua ben nota propensione al concreto, per cui acconsentiva che si parlasse di “politica cattolica” e bandiva nel contempo l’astrazione “cattolicesimo”.

All’interno di questa politica distingueva tra l’alto clero fedele alla politica cattolica e obbediente come gli scolaretti al Papa (le spinte conciliaristiche si erano spente da almeno cinque secoli) e il basso clero, che “lavorò sul campo” tra i fedeli, tra cure d’anime e gli altri loro quotidiani problemi, spesso dissidente rispetto alla politica ufficiale delle alte sfere e del sommo pontefice.
Negli anni del centrismo, temeva che i cattolici trasformassero la democrazia in clericocrazia, che lo Stato diventasse clericale. Sospettava che A. De Gasperi, che proclamava “democrazia, democrazia, democrazia”, fosse solo il capitano del vapore mentre il padrone fosse il Papa.
Profuse quindi il massimo dell’impegno nell’evitare l’ingerenza della Chiesa nello Stato, denunciandola ai sette venti ogni volta che ne fiutava i loschi tentavi; d’altro canto lo Stato doveva restare nel proprio orto, senza prevaricare in quelli altrui, ficcando il naso e intromettendosi nelle questioni della Chiesa: “Libera chiesa in libero stato”, dunque.
La laicità è infatti “una dottrina politica” che afferma l’incompetenza delle autorità secolari a decidere di questioni religiose.
Cesare e Cristo potevano essere buoni amici, come lui e Sturzo, ma non andavano confusi, dovevano essere distinti e separati sulle competenze, perché sono diverse.

All’autorità religiosa non va impedito di svolgere il proprio ufficio, l’insegnamento e la dottrina; né va intralciata nella propaganda delle proprie idee, nella libertà di espressione e di opinione; né gli va negato il diritto di consigliare e dare indicazioni ai fedeli.
Lo Stato doveva restare aconfessionale in materia di fede, garantendo la tolleranza delle diverse religioni; ed essere laico garantendo il godimento e l’esercizio delle libertà personali e politiche, tutelando così i diritti inviolabili e intangibili degli individui fuori portata e della disponibilità di qualunque autorità, compresa quello dello Stato.
Lo stato laico è in sostanza uno Stato libero, che dà diritto di scelta e rispetta la sacralità degli individui e la loro discrezionalità di decisione, perché è neutrale (neuter significa propriamente “né l’uno né l’altro”), non s’impone con la forza sulle loro prerogative personali.

Su questo punto, nella prima metà del secolo scorso, Francesco Ruffini scriveva parole, seppur ostiche nella forma, inequivocabili nel significato: “Termine fondamentale del problema è l’uomo e l’assoluto rispetto della sua individualità, egli ha diritto poziore e superiore da far valere nel litigio sopra tutte le pretese di supremazia di questo o di quell’ente, il diritto alla propria piena libertà […] Con che non si vuol punto dire che la Chiesa non possa in tutta libertà continuare a sancire per mezzo delle sue autorità e a professar per bocca dei suoi dottori gli antichi sistemi e le antiche teoriche, che noi, dal canto nostro, stimiamo sorpassati. Questa sua facoltà fa parte anzi di quel regime, che noi propugniamo; il quale deve garantire piena libertà religiosa in tutte quante le sue manifestazioni, siano esse individuali, siano esse collettive […] Si vuol dire solamente, che lo stato più non potrebbe considerare la protezione e il favore di codeste particolari manifestazioni come suo obbligo precipuo e specifico; e tanto meno spingere il suo favore fino a consentire che l’esercizio della libertà religiosa delle collettività o delle Chiese ridondasse a diniego e menomazione dell’eguale libertà di altre collettività o Chiese, e soprattutto a coartazione della piena libertà religiosa degli individui”. [2]

Allorché lo Stato dà la possibilità di scegliere a tutti e tanto meno la nega al cattolico, non si capisce come mai costui si lamenti e insorga indignato. Cosa l’offende? cosa l’urta? Perché mai è così suscettibile? Forse gli si tocca un nervo scoperto: la tentazione egemonica e totalitaria della Chiesa sull’intera società, che si vorrebbe, anziché civile e plurale, solo e unicamente cristiana, in cui il suo verbo è comandamento per tutti.

Furono molte le battaglie che impegnarono Salvemini. Fra le tante sostenne perfino una singolare “guerra di preposizioni”: “Si legge sull’“Osservatore romano” un articolo intitolato “Per la libertà dall’errore”. La libertà dell’errore, per chi non è totalitario, è un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino. Libertà, badiamo bene, giuridica, non libertà intellettuale. Intellettualmente nessuno ha il diritto di proclamare la libertà dell’errore: sarebbe come se dicesse che intende liberarsi dalla ragione, che non gli importa quel che è e quel che non è verità; che si sente libero di cambiare opinione ogni volta vi trovi un profitto, distinguendo non fra verità ed errore, ma fra proprio utile e proprio danno. Ma chi si riconosce intellettualmente a rifiutare la libertà dell’errore, non passa con questo ad affermare il proprio diritto giuridico a violare negli altri la libertà dell’errore”. [3]

Siccome la Chiesa ritiene di avere la “verità in tasca”, di detenerne il monopolio legittimo, ed è anche convinta della sua infallibilità, almeno da Gregorio VII in avanti, dichiara l’errore, vale a dire tutte le opinioni che contrastano con la sua verità assoluta, “innominabile”, un abominio da scacciare, schiacciare e perseguitare a ogni costo (alla verità non piace la concorrenza).
Da qui il giornale della “Santa sede” parte per l’ennesima crociata contro la serpe, di mille e mille anni, da calpestare, per liberare il mondo da questo cancro infestante.
Il clericale non tollera la libertà individuale di coscienza. Ciò che si discosta dalla verità va proibito e annientato con tutti i mezzi, comprese le armi e le leggi. Non si contenta che l’errore sia punito nell’aldilà e bruci tra le fiamme dell’inferno.

I presunti possessori della verità, sicuri della loro salvezza, hanno premura di salvare anche le anime degli altri, pure a forza e contro il loro volere (l’universalismo del messaggio che, da semplice proposta, diventa un atto di forza, un obbligo), dalla perdizione (chi non è religioso è bollato di immoralità, è un essere maligno e pericoloso per la società tout court, in realtà per quella cristiana); si preoccupano, con fervente spirito missionario, del “gregge” da preservare dall’“errare” e dallo smarrimento.
L’errore non è ammesso, non ha cittadinanza, è eretico, fuori della comunità dei fedeli, della chiesa e non ha diritto di circolazione.
Il clericale ne chiede la soppressione in tutti gli ordini e gradi, quindi anche sul piano giuridico e rivendica perentoriamente la libertà della sola verità e la libertà della Chiesa, che altro non è se non la sua solita pretesa di supremazia ed egemonia.
Chi proclama la “libertà dell’errore” nega di fatto la “libertà dell’errore”.

Al contrario il liberale pensa che nessuno possa impedire giuridicamente agli altri di poter sbagliare, “è un diritto fondamentale dell’uomo e del cittadino”, la libertà dell’errore è la tutela giuridica del dissenso, cioè dell’opinione che giudichiamo sbagliata ma che non soffochiamo perciò nel sangue.
La dottrina liberale sostiene che nessuna autorità può imporre le proprie verità con le galere, i manicomi e le ghigliottine.
Il liberale è convinto delle sue opinioni e ritiene che quelle opposte alle sue siano false e moralmente e intellettualmente vi si oppone e contrasta ciò che reputa sbagliato, almeno finché non si convince liberamente di essere in torto, ma non si sente autorizzato a obbligare gli altri ad accettare le sue verità.

Egli difende la tolleranza giuridica non quella intellettuale, mentre la Chiesa non consente né l’una né l’altra.
Salvemini, oltre alla distinzione capitale tra libertà dall’errore e libertà dell’errore, riguardo a quest’ultima ci tiene a non far confusione tra il piano giuridico che l’ammette e il piano intellettuale che non la consente, altrimenti non ci si curerebbe più della differenza tra verità ed errore e si scivolerebbe in una parificazione e uguaglianza scettico-relativistica, in cui verità ed errore si scambiano indifferentemente di ruolo nel gioco utilitaristico delle parti e per il puro profitto.
L’anticlericalismo di Salvemini è “reazionario”, difensivo, non di “principio”, come per Mussolini per esempio, bensì di seconda mano, non un valore in sé, perché il valore è la laicità, negata dal clericalismo, come nel suo antifascismo il valore era la democrazia negata dal fascismo.
La sua pungente critica affonda nella piaga di un modo di pensare dogmatico, in un comportamento fanatico piuttosto che in una categoria definita di persone e sa che il farmaco che inietta per curare la malattia è veleno pericoloso e letale, se assunto senza ragione e precauzione: “Questo nostro anticlericalismo non è salute: è una malattia fastidiosa, che ci è indispensabile per guarire da una malattia peggiore: il clericalismo; l’anticlericalismo segue come l’ombra il corpo: scomparso o attenuato l’uno scomparirebbe o si attuenerebbe l’altro”. [4]

Manifesto di tutte queste sue battaglie laiche e del suo antitotalitarismo può essere considerato il discorso La difesa della cultura (pronunciato al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, tenuto a Parigi, nel 1935). Qui egli accomuna fascismo e comunismo come regimi negatori del pluralismo, tirannici e liberticidi, di contro alla glorificazione di taluni che ne cantano le meraviglie e ne tessono le lodi sperticate come l’ideale dell’umanità: “Non mi sentirei il diritto di protestare contro la Gestapo e l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono isole-penitenziario e nella Russia sovietica c’è la Siberia. Ci sono proscritti, tedeschi ed italiani e ci sono proscritti russi. Siamo tutti d’accordo che la libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale. Il marxismo che, nelle società borghesi, è creatività anti-ufficiale, è divenuto tradizione ufficiale nella società sovietica. La libertà di creazione nelle società borghesi di tipo non fascista è compressa. Nella società borghese di tipo fascista è totalmente repressa. Altrettanto repressa è nella Russia sovietica”. [5]

Senza difendere a oltranza, oltre il lecito e il consentito, le società borghesi non fasciste per quello che sono (significativamente le connota in negativo, senza l’attribuzione di “libere”), lungi dall’essere il paradiso in terra, perfette e inattaccabili, ammonisce aspramente i suoi critici più radicali di non disprezzarle più del dovuto, perché in esse spiragli di libertà e spazi di manovra per cambiarle, si spera in meglio, se ne intravedono, al contrario delle altre, quelle fasciste e comuniste, che sono praticamente immutabili perché perfette e infallibili, addirittura meglio del migliore dei mondi possibili: “Non si apprezzano l’aria e la luce finché le si hanno: per comprenderne il valore bisogna averle perdute. Ma il giorno in cui le libertà sono perdute, riconquistarle non è facile [...] Insomma ci sono delle società borghesi che presentano dei buchi attraverso i quali può spirare un soffio di libertà, dov’è possibile per esempio tenere questo congresso, e ci sono società borghesi in cui ogni buco è ostruito e una sola cultura può svilupparsi, la cultura della menzogna ufficiale […] Non disprezzate le vostre libertà, difendetele ostinatamente pur continuando a dichiararle insufficienti, a lottare per svilupparle”. [6]

Siccome la libertà è il diritto di pensarla diversamente, di essere eretici per l’appunto, l’intellettuale non deve riconoscere a nessuna dottrina il monopolio legale della verità, e invitava a fare delle parole di Voltaire, il motto proprio di chiunque voglia dirsi liberale: “Signor abate, sono convinto che il suo libro è pieno di corbellerie, ma sarei pronto a donare fino all’ultima goccia del mio sangue per assicurarle il diritto di pubblicare le sue corbellerie”.

In coda all’intervento nomina la categoria che raccoglie i tratti comuni di fascismo e comunismo. I due fenomeni presentono altresì differenze significative, e si augura che ciò che malauguratamente è toccato a vivere a lui non sfiori neppure per malasorte gli altri: “Forse occorre aver vissuto l’esperienza di uno Stato totalitario, non fra i dominatori, ma fra coloro che sono stati schiacciati, bisogna conoscere la degradazione morale a cui lo Stato totalitario riduce non soltanto le classi intellettuali, ma anche le classi operaie, per rendersi conto dell’odio e del disprezzo che qualsiasi Stato totalitario, qualsiasi dittatura suscita nel mio animo. Vi auguro, amici di Paesi ancora relativamente liberi, di non dover mai vivere questa esperienza”. [7]
Sulla scia di quest’augurio ricominciò il conflitto con la Chiesa quando le corbellerie degli abati ritornarono a pretendere di diventare legge, i peccati reati, la fede diritto.

Nel dopoguerra la sua proposta politica mirava alla costruzione di una “terza forza”, portava avanti i propositi di GL, per aprire una terza via democratico-liberale e sfuggire all’asfissiante morsa totalitaria di sinistra e di destra: una proposta radicalmente alternativa rispetto alle opzioni Pio XII e Stalin.
Desiderava che i gruppi di centro-sinistra e di sinistra di tradizione democratica, “i passerotti della politica”, non finissero nelle grinfie delle “aquile totalitarie”, ma confluissero e si concentrassero in una “confederazione” polemica e battagliera, in cui ogni gruppo conservasse le proprie organizzazioni, i propri consigli direttivi, le proprie tradizioni, in linea con l’antipatia quasi viscerale emersa oramai da tempo verso la forma fissa e rigida del partito classico.

Il desiderio restò tuttavia inappagato; il progetto politico di Salvemini si rivelò, nelle condizioni di allora, null’altro che un sogno vano, che non spiccò mai il volo, tenuto a terra dal forte vento della “guerra fredda”, che spirava da Oriente e da Occidente, e stretto dai rapporti di forza interni al sistema politico italiano, dominato dai cattolici, forza tradizionale nel paese di casa del Papa, e dai comunisti, nuova forza uscita prepotentemente alla ribalta dalla vittoriosa guerra di liberazione antifascista e partigiana.
Nella pratica, messo davanti alle scelte concrete elettorali e di alleanza politiche, era favorevole – sebbene tutt’altro che entusiasta, di necessità faceva virtù – all’appoggio e alle alleanze dei gruppi e dei partiti di centro-sinistra e di sinistra alla DC, che rappresentava per lui il male minore.

Il suo attivo anticomunismo fu generato dal timore dello sbocco totalitario. Era sospettoso di Togliatti, troppo legato a Stalin e diffidente della svolta di Salerno, pensava che i comunisti covassero segreti piani rivoluzionari.
Tuttavia non c’era una chiusura “totale” verso il partito comunista, prevedendo in talune circostanze accordi transitori e convergenze temporanee su determinati problemi e su singole questioni e nutrendo riposte speranze verso una sua evoluzione socialdemocratica. I fatti, a lungo andare, gli hanno dato ampiamente ragione, ma a questo processo, già in atto, contribuì in misura decisiva il crollo del muro di Berlino e ciò che ne conseguì (il collasso dell’URSS e la fine della guerra fredda) e non solo i bisogni e le condizioni della lotta politica interna italiana: “I comunisti resisi conto che la dipendenza dal governo russo e il metodo totalitario non rispondono a nessun bisogno italiano, adotteranno quei metodi del socialismo gradualista che hanno fatto ottima prova in Inghilterra, e fuori dei quali, in società come quelle dell’Europa occidentale, non è possibile vedere nessuna sicurezza di elevamento materiale, intellettuale e morale per le classi lavoratrici”. [8]

La sua ostilità incondizionata, senza spiragli di cambiamento e senza possibilità di ravvedimento, andava alle destre fasciste, clerico-fasciste e monarchico-fasciste: i veri nemici acerrimi e irriducibili.
Perciò, nella prefazione al volume Italia scombinata, dichiarò di confidare sul ritorno dei comunisti sui loro passi totalitari, al contrario delle “incorreggibili destre”: “Chi non è né missino, né monarchico, né clericale, non deve considerare i comunisti ed i loro compagni di viaggio come nemici eterni, coi quali non sarà mai possibile un dialogo o una intesa; ma deve nello stesso tempo rifiutare qualunque cooperazione con loro, finché non abbiano sicuramente abbandonato ogni intenzione totalitaria”. [9]

In virtù del suo “concretismo”, teoricamente avverso ai pregiudizi ideologici, alle condanne per partito preso, apprezzò l’opera ed elogiò sinceramente l’azione svolta dal partito comunista, secondo lui l’unica forza realmente meridionalistica dell’arco costituzionale, nel Sud: “I comunisti, anche se sono guidati da una volontà totalitaria, compiono nell’Italia meridionale la funzione di rompere una situazione, che i partiti conservatori hanno interesse a perpetuare, e che la sinistra democratico-cristiana e i partiti minori si dimostrano inetti a spezzare. I comunisti fanno quel che noi socialisti vissuti nel primo ventennio di questo secolo non sapemmo fare”. [10]

In quest’ultima stagione politica, in fatto di questione meridionale, ritornò all’ecumenismo non di classe però, bensì geografico. Scoraggiato dalla gente del Sud, auspicava l’aiuto interessato del “popolo del Nord” (lo sviluppo del Mezzogiorno ritardatario avrebbe creato un mercato capace di assorbire le merci fabbricate nel Settentrione): “… via via che la mia fiducia nelle forze indigene del Mezzogiorno si è andata attenuando, ho dovuto convincermi che l’aiuto dei settentrionali è la sola via che si possa battere. E quando c’è una sola via quella è la migliore”. [11]
Auspicava, secondo l’insegnamento di G. Fortunato, dopo l’esperienza fallimentare delle miracolistiche leggi speciali, che avevano prodotto “cattedrali deserte”, abbandonate a se stesse e inutilizzate, di affidarsi a politiche di riforme generali e strutturali.

Il “terrore rosso” frenò Salvemini anche sulla vecchia e annosa questione intrapresa contro il prefetto, un fossile di era liberale, e il suo strapotere.
Il vecchio seguace di Cattaneo ammise che “molte esperienze mi hanno costretto a mettere una certa dose d’acqua nel mio vino federalista di mezzo secolo fa”.
Il prefetto costituiva una vera emergenza democratica. Era l’agente sul territorio del governo centrale che, ingombrante com’era, soffocava l’autonomia degli Enti locali.
Rappresentante diretto del dispotismo statale, sorta di moderno governatore di provincia romano, tirannello onnipotente, disponeva a suo piacimento dell’approvazione delle delibere dei consigli comunali e provinciali e dei loro bilanci, aveva facoltà di sospensione dalle funzioni o di scioglimento dei consigli, commissariandoli.
Il timore che i comunisti potessero avvantaggiarsi dall’abolizione del prefetto, nei loro segreti piani sovversivi, lo consigliò di attenuare i toni e sfumare le richieste rivolte non più alla sua soppressione, ma al contenimento dei suoi poteri.

Il suo antitotalitarismo fu alla base del suo anticomunismo in politica interna così come in politica estera.
Accolse con favore l’ingresso nel Patto Atlantico, in quanto non c’era di meglio, ma non fu mai un fan sfegatato degli americani, e incoraggiò, nel frattempo, e sostenne i progetti di costruzione di una casa comune europea, gli Stati Uniti d’Europa, la via di scampo per non essere stritolati in mezzo ai giganti dell’USA e dell’URSS, come si vagheggiava all’epoca e la cui prima pietra fu messa con il “trattato di Roma” nell’anno della sua morte.
Il suo ideale era una Federazione europea sciolta da guinzagli e da cieca e incondizionata fedeltà all’America, capace di perseguire un’autonoma politica secondo i propri interessi, alleata degli USA, ma non sua cadetta o vassalla.
In sostanza, era il progetto della terza forza trasferito su scala internazionale e, come in politica interna questa forza doveva essere pronta a schierarsi con la DC, così in quella estera l’alleanza doveva essere mantenuta con il campo americano.

Nel tempo comunque, i capisaldi ideali del suo pensiero e della sua azione politica rimasero costanti e irremovibili, non subendo alcuna significativa alterazione, se non marginale, nelle varie fasi del suo impegno politico e delle sue adesioni a partiti e movimenti, che risultano in conclusione non ideologiche, ma pragmatiche, in definitiva funzionali e strumentali al miglior conseguimento dei suoi più profondi convincimenti. Questi sono il principio liberale, chiave di volta di tutto il sistema, per cui alla rivendicazione della mia libertà deve corrispondere il rispetto della libertà altrui e che è alla base dei “sacri” e intangibili diritti civili e politici degli individui in quanto persone e cittadini; una delle colonne del sistema è il principio democratico per cui la libertà non va intesa in senso “signorile” ed elitario, non è riservata alle sole classi possidenti, danarose e colte (e incolte purché benestanti e facoltose), bensì estesa a tutti gli uomini e alle donne di ogni ceto e ordine sociale: la libertà o è per tutti, altrimenti è privilegio, così come la legge è uguale per tutti (da ciò nasce il binomio “Giustizia e Libertà”, l’una è condizione dell’altra e viceversa: dove è assente la giustizia per tutti c’è l’arbitrio e la libertà del più forte, dove manca la libertà per tutti c’è sudditanza e oppressione).

L’altra colonna è rappresentata dal principio socialista o socialdemocratico, che implica una maggiore giustizia sociale (aiuto e solidarietà verso i poveri, gli sfortunati, gli indigenti, gli indifesi) attraverso la costruzione di una società più equa, nella quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e sicurezza per tutti. Senza questo minimo benessere non può sorgere il desiderio della libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati: lo stato di bisogno rende schiavi. Si tratta dei presupposti dei diritti sociali e della rete di protezione denominata welfare state o stato sociale, che si fa carico, o almeno dovrebbe, del problema in maniera più sistematica, strutturale e omogenea rispetto alla tradizionale, sporadica e discontinua carità privata, che resta pratica meritoria e insostituibile degli uomini di buona volontà sia che la facciano con l’intento di guadagnarsi un posto migliore nell’aldilà, sia per sentirsi meglio su questa terra.

All’architettura così composta si aggiunse un terzo tardivo pilastro, il principio repubblicano: “Vittorio Emanuele III, in venti anni di complicità con Mussolini ci rese repubblicani militanti (le repubbliche non nacquero mai dalle virtù o dalla sapienza dei repubblicani, ma dai delitti e dalle scempiaggini dei re)”. [12]
Lo “scienziato politico” Salvemini radunò e versò questi principi essenziali nella formula – sintetica e chiara, come di suo costume – di democrazia, ricavandone che “un regime politico può essere detto democratico solamente se riconosce tutti i diritti personali, tutti i diritti politici, e tutti i diritti sociali, a tutti i cittadini, senza distinzione di classe sociale, di razza e di religione o di opinione politica”. [13]

Non a torto Massimo L. Salvadori può dire: “Salvemini rappresentava, insieme con Croce, l’erede più legittimo del liberalismo italiano. Mentre Croce era il conservatore di tradizione cavouriana-giolittiana, Salvemini si poneva erede della tradizione democratica”. [14]
Tuttavia questa definizione liberal-democratica va completata, perché mancante di un motivo ispiratore del suo pensiero, di una radice della sua azione: la costellazione composta è priva della terza stella, quella socialista, per cui non è abbastanza luminosa e brillante come dovrebbe.
Egli, alla fin fine, più poeticamente – ed è una rarità per “uomo prosaico”, in tutti i sensi, che preferiva la sciabola al fioretto – si definiva un “pazzo malinconico” di epoca glaciale in via d’estinzione: “Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti) ultimi eredi di una stirpe illustre, che si va rapidamente estinguendo; massi erratici, abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. È il ghiacciaio che si chiamò “liberalismo”, “democrazia”, “socialismo” […]. In sintesi ci denomineremo “liberali-democratici-socialisti-repubblicani”. [15]

Il paesaggio politico dipinto da Salvemini era cosparso e popolato da strane figure, “utili idioti”, “compagni di viaggio” e “pazzi malinconici”, tutti coloriti termini che entrarono nel lessico e arricchirono il vocabolario politico italiano. A lui si deve anche il merito di aver coniato la figurativa espressione “stringiti fortemente il naso”. Qui c’è l’invito comunque a partecipare alla consultazione elettorale, a non astenersi, adempiendo anche malvolentieri ai propri doveri di cittadino. Essa fu – erroneamente – attribuita da tanti a Indro Montanelli.

Alla scomparsa del maestro dell’“altra Italia”, civile, onesta, laica e liberale, fustigatore inflessibile dell’“Italia peggiore” viziosa e conformista, malandrina, furbetta ed opportunista “Il Mondo” gli tributa un solenne e grandioso elogio: “Il segreto della sua personalità, il centro motore di tutta una vita è proprio qui: una lezione di intransigenza, di rigore morale, di “impoliticità”, di tutte quelle virtù che troppo spesso difettano nei “saggi” italiani che dopo i primi slanci di generosità giovanile si affrettano a diventar maturi ed a imboccare le vie del compromesso”. [16]

NOTE

[1] G. Salvemini, Il programma scolastico dei clericali, La Nuova Italia, Firenze, 1951.
[2] F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subbietivo, Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 74-75.
[3] G. Salvemini, Una guerra di preposizioni, in “Il Mondo”, 22 marzo 1953, ora in Stato e chiesa in Italia, cit., p. 442.
[4] Citato in S. Bucchi, Laicità e democrazia in “Laicità”, n. 4, dicembre, 2007, p. 7.
[5] G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 670.
[6] G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 668-669.
[7[ G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 670.
[8] G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., p. 659.
[9] G. Salvemini, Scritti vari, cit., p. 854.
[10] G. Salvemini, Italia scombinata, Einaudi, Torino, 1959, p. 227.
[11] G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale, cit., 614.
[12] G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 811-812.
[13] G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, cit., pp. 460-462.
[14] M. L. Salvadori, Gaetano Salvemini, cit., pp. 26-27.
[15] G. Salvemini, Scritti vari, cit., pp. 810 e 812.
[16] Taccuino, La morte di un laico, in “Il Mondo”, 17 settembre1957. Più di recente, a conferma della grande reputazione e stima di cui gode Salvemini all'estero e dell'impopolarità e delle amnesie che ne perseguita, al contrario, la memoria in Italia, racconta un giovane scrittore, R. Saviano (un uomo del Sud che non piega la testa e resiste “a chiare lettere” a poteri occulti, che “hanno bisogno di silenzio e ombra” e nessuno perciò nomina), durante un suo viaggio a Stoccolma, invitato dall'Accademia che assegna i Nobel da più di un secolo, che molti in quel tempio della cultura gli chiesero “come sono considerati da noi Giorgio La Pira, il mitico sindaco di Firenze degli anni '50, e anche Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani, che lì non solo ricordano ma considerano l'unica degna di memoria”. R. Saviano, La bellezza e l'inferno, Mondadori, Milano, 2009, p. 188.

Fonte: MicroMega

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