martedì 26 gennaio 2010

- "Memorie" di Concetto Gallo, secondo Turri, successore di Canepa

Storia del Movimento per l'Indipendeza della Sicilia, raccontata dal comandate dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Un breve prologo del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Oltre sessant'anni fa la Sicilia combattè la sua guerra di indipendenza contro l'Italia; una guerra della quale oramai sono pochi a ricordare i particolari: una vera e propria guerra con eserciti schierati in campo che culminò nella battaglia campale il 29 dicembre 1945, a Monte San Mauro nei pressi di Caltagirone, tra l'esercito italiano comprendente cinquemila uomini e l'Evis, l'esercito dei volontari per l'indipendeza della Sicilia al comando di Concetto Gallo.
Pur appartenendo alla nostra storia più recente, si può dire alla cronaca, la vicenda dell'indipendentismo siciliano, che ebbe i suoi morti, è una delle pagine più oscure della vita siciliana e italiana. Forse perchè i suoi protagonisti si chiusero in uno sdegnato silenzio, lasciando a storici e saggisti il compito di interpretare gli avveimenti.
Il risultato, però, continua ad essere tutta una serie di nuovi interrogativi: come nacque, realmente, l'indipendentismo ? Dietro gli indipendentisti siciliani c'erano poi gli americani che volevano fare della Sicilia la "quarantanovesima stella" ?
E ancora: che influenza ebbe la mafia sulle vicende dell'indipendentismo ? E Salvatore Giuliano ? Il bandito che ruolo giocò nell'esercito siciliano ? E, infine, era vero che i Savoia avrebbero voluto fare della Sicilia la loro testa di ponte per riconquistare l'Italia dopo il referendum del 1946 ?
Per quasi trent'anni queste domande sono state poste a Concetto Gallo, il comandante dell'Evis, uno dei principali protagonisti dell'indipendentismo, enza avere mai una risposta. Poi all'età di 61 anni, esattamente nel 1974, l'ex deputato della Costituente e all'Assemblea siciliana, decise, anche per merito del Prof. Giuseppe Sambataro, di raccontare per l'europeo, in un'intervista a Enzo Magrì, la storia di quei tragici avvenimenti cominciando dalla nscita dell'indipendentismo per finire alla battaglia di Piano della Fiera che segnò la fine del suo esercito.
Più che un'intervista - dalla prima domanda -, Magrì raccolse un vero e proprio "Memoriale", anzi un Dossier" di pregiato valore documentale. Avendone trovata la minuta tra le carte ingiallite dal tempo, (n.d.r.: è il Prof. Salvatore Musumeci che trova tali carte) dell'archivio storico del Mis, ne riproponiamo la pubblicazione - articolata in una serie di appuntamenti -, ritenendola fonte di particolare interesse storico.

L'INTERVISTA

Onorevole Gallo, come e perchè nacque l'Indipendentismo ?

"Uno dei primi a riprendere la sua attività a Catania, nell'agosto del 1943, fu un famoso chirurgo: il Prof. Santi Rindone. Tre giorni dopo l'invasione alleata, vale a dire l'otto agosto 1943, Rindone aveva aperto la sua clinica in via Papale. E, cosa strana, quello stesso giorno si registrò un andirivieni di malati straordinario.
Era il professore in persona che riceveva gli ospiti, tutti appartenente alla borghesia catanese. E quando qualche malato non gli garbava rispondeva: "Oggi non visito" . Veramente non erano malati. Erano tutti indipendentisti. Uomini noti al Prof. Rindone, con i quali, mesi prima, durante il fascismo, si era incontrato nella sua villa di San Giovanni La Punta, alle falde dell'Etna.
L'antifascismo siciliano, questo purtroppo non è mai stato scritto, fu nella sua stragrande maggioranza indipendentismo. Se in Sicilia il fascismo non aveva incontrato molti entusiasmi, sin dal suo nascere, nel 1922, fu per una sola ragione: perchè il fascismo era stato considerato l'ultimo prodotto imposto dall'Italia alla Sicilia: l'ultima stupidità, che aveva lasciato dietro di sè una scia di sangue e di morti. Ora, quella mattina dell'otto agosto 1943, mentre da Catania transitavano file di carri armati dirette verso Messina, un gruppo di maggiorenti catanesi stava decidendo come fare in modo che il fascismo fosse, veramente, l'ultimo prodotto d'importazione dal Nord.
La soluzione era pronta: l'indipendentismo. Indipendentisti erano quasi tutti i catanesi, aristocratici, borghesi e non. A quella riunione erano presenti tutti gli uomini più importanti della città: Carlo Ardizzone, primo sindaco di Catania, nominati dagli Alleati, che uscirà dal Movimento; l'avvocato Ulisse Galante, Franz e Guglielmo duchi di Carcaci, Romeo Perrotta, l'avvocato Nicolosi Tedeschi, Attilio Castrogiovanni, l'avvocato Vito Patti, il professore Cappellani, l'avvocato Gaglio, gli avvocati Giuseppe e Antonino Bruno, e molti, molti altri ancora.
C'eravamo, naturalmente, io e mio padre e l'avvocato Gallo Poggi che sarebbe stato il sindaco di Catania degli anni Cinquanta, il sindaco che avrebbe rifiutato il teatro Massimo a Scelba.
Io non so come gli altri siano arrivati all'indipendentismo. Nella mia famiglia lo si era sempre respirato con l'aria. I Savoia ci avevano rovinato. Un mio avo, luogotenente di Ferdinando di Borbone, era stato costretto, subito dopo l'arrivo in Sicilia di Garibaldi, a fuggire esule a Malta e la nuova amministrazione ne aveva approfittato per confiscargli tutti i beni, compreso Palazzo Gallo, che mio padre riscattò successivmente a rate.
In me, poi, operava, più che negli altri, uno spirito di libertà che era indissolublmente connaturato con la mia esistenza. Io, per esempio, ho avuto il coraggio, da giovane, di infrangere una tradizione di famiglia secondo la quale ogni Gallo doveva fare il professionista, l'avvocato in particolare. Proprio per uno spirito di indipendenza, proprio per raggiungere un'immediata indipendenza economica mi iscrissi alle commerciali e divenni rappresentante.
Da giovane contavo tra i miei amici degli aristocratici con spirito sportivo: il principe di Cerami, corridore automobilista, quel Giovanni Lavaggi, aviatore, che morì volando verso l'Etiopia con l'esploratore Franchetti e il ministro Luigi Razza. Per parte mia, io mi interessavo di boxe. Vincere una borsa significava avere il soldi per un'altra avventura, per un altro viaggio con gli amici senza doverli chiedere ai genitori. Commercializzavo anche i rapporti familiari. Una volta, ancora studente, scoprìi che mio padre, avvocato, passava cinquanta centesimi per ogni foglio dello studio battuto a macchina. Mi misi d'accordo con lui e le commissioni passarono a me.
Fu questo senso di libertà che mi fece rifiutare il fascismo. Iin toto: nella sua ideologia e nelle sue mascherate.
Finita la guerra, dei quarantaquattro milioni di italiani che avevano applaudito Mussolini nelle piazze non se ne trovò uno solo: tutti martiri del fascismo.
Io non fui ne martire ne fascista. Racconto un episodio per dare la misura dei miei rapporti col fascismo. Attorno al 1934 avevo già una piccola azienda abbastanza avviata. Un giorno mi arrivò una cartolina che mi imponeva di presentarmi al gruppo rionale Armando Casalini, che si trovava in via Manzoni, di fronte all'attuale sede della Questura. Mi ricevette un caposezione e mi spiegò che con quella cartolina volevano diecimila lire.
Disse: " Siccome dobbiamo rinnovare tutto il mobilio della sede, voi siete stato tassato per 10.000 lire". Con diecimila lire del '34 ci si poteva comperare una casa. Risposi: "Ma sa lei quanto ci vuole per guadagnare 10.000 lire ?". E lui: "Così è stato stabilito". Me ne andai. Arrivò una seconda cartolina. Poi una terza con scritto "Ultimo avviso". Questa volta mi volevano vederre a Palazzo dei Chierici; addrittura il federale.
Il federale di Catania, a quel tempo, era Pietrangelo Mammano, un compagno di scuola di mio fratello, il maggiore. Andai a Palazzo dei Chierici e mi fecero sedere in una sala. A un certo punto arrivarono due militi armati di moschetto, mi si misero ai lati e così entrammo nell'ufficio del federale. Io dicevo tra me e me: "Ma che, sono scemi ' Ma dove mi devono portare, alla fucilazione?". Pietrangelo Mammano era seduto dietro a un grande tavolo: il gomito appoggiato sul tavolo; la mano destra a visiera.
Entrando salutai: "Ciao, Pietro". Ma lui subito: " Questa cartolina è indirizzata a voi ?" Prima di rispondere domandai: "Ma scusa, Pietro, non ce ne sono sedie qui ?". E lui, alzando il tono della voce: "Ho detto, questa cartolina è indirizzata a voi ?". Risposi: " Si, quella cartolina e indirizzata a me" - "E alllora perchè non vi siete presentato ?". Dissi: " Perchè siccome c'è scritto ultimo avviso, pensavo che dopo questa cartolina non ne sarebbero più arrivate".
"Fuori", fece lui. E mi sbatterono fuori. Poi mi deferirono alla commissione di disciplina, ma non venne preso alcun provvedimento perchè mio padre, avvocato civilista, fece rilevare che non potevano darmi alcuna sanzione per il semplice motivo che non essendo io un loro iscritto non potevo essere giudicato da nessuna commissione ".



Indipendentismo come antifascismo

I siciliani vissero il Fascismo come un ulteriore asservimento all’Italia, e la fine della guerra rappresentò l’occasione ideale per liberarsi della italica tirannia



«In Sicilia, in un clima di abusi di potere e di soprusi maturò l’antifascismo; un antifascismo che si accentuò a mano a mano che ci si avvicinava alla guerra. Inizialmente questo antifascismo era dei più vari colori, come nel resto d’Italia: socialista, comunista, liberale. Poi, l’atteggiamento di Badoglio e il proclama di Roatta che parlava di “italiani e di siciliani fedeli”, fedeli come i cani, fecero coagulare l’antifascismo attorno all’indipendentismo siciliano.

E la culla dell’indipendentismo catanese era Villa Rindone, a San Giovanni La Punta, dove l’illustre chirurgo, ex deputato al Parlamento prefascista, si trovava sfollato nel 1943. Rindone e tutti gli altri, compreso me, erano già convinti, nel 1942, che la guerra fosse perduta e che bisognasse pensare a un nuovo assetto politico per la Sicilia. Si aveva la sensazione che la catastrofe della guerra fosse uno di quei ritorni storici in seguito ai quali i popoli che erano stati asserviti ne dovevano approfittare.

E questa sensazione, voglio dire l’idea dell’indipendenza, si diffondeva rapidamente. Solo più tardi sapemmo che un gruppo di giovani si riuniva, contemporaneamente a noi, e indipendentemente da noi, nella chiesa della Mercede parlando degli stessi temi che venivano dibattuti dai maggiorenti in casa Rindone. Così come scoprimmo che nell’altro versante dell’isola, Andrea Finocchiaro Aprile, ex deputato liberale al Parlamento prefascista, uomo eccezionale, di grande prestigio e di onestà, stava operando per l’indipendentismo insieme con Lucio Tasca, primo sindaco di Palermo. Antonino Varvaro e altri. Era stato proprio nel precedente mese di luglio, all’entrata degli americani a Palermo, che Finocchiaro Aprile aveva fatto un proclama e aveva scritto a tutti i suoi ex colleghi deputati siciliani al Parlamento prima di Mussolini proponendo una lotta politica per l’indipendenza. Il fatto è che noi siamo stati afflitti da due cose: da un pugno di traditori che ci hanno abbandonato al momento delle battaglie decisive e dall’ignavia che ha lasciato agli altri il compito di scrivere per nostro conto. E gli altri hanno scritto menzogne.

Ad ogni buon conto, lasciamo le digressioni. Dicevo che l’otto agosto 1943 gli indipendentisti catanesi si riunirono in casa Rindone. Non c’era niente da dibattere. Tutto era stato dibattuto nei mesi precedenti. E così da casa Rindone uscì un manifesto con le firme di tutti i presenti: era l’atto costitutivo in Catania del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Ed era con una copia di questo manifesto che io e un giornalista, Concetto Battiato, partimmo per Palermo per prendere contatto col padre spirituale dell’indipendentismo: Andrea Finocchiaro Aprile. Quando lo incontrammo era in casa del genero, Frasca Polara. Finocchiaro Aprile aveva sulle spalle un impermeabile del genero e si stava friggendo due uova su una spiritiera. La sua unica ricchezza erano tre discorsi: i cosiddetti “discorsi dell’Aurora” che io portai a Catania. Alcuni mesi dopo, il 9 dicembre 1943, Andrea Finocchiaro Aprile fondò ufficialmente a Palermo il Movimento (trasformando il Cis, “Comitato per l’Indipendenza della Sicilia”, in Mis, ndr).

Una sera, in una sala da ballo catanese, un ufficiale della divisione Sabauda fendette la folla dei danzatori e si avvicinò alla coppia che stava al centro della sala.

Il dancing era a Guardia-Ognina, una borgata alla periferia di Catania. Era uno dei primi balli dopo i triboli della guerra. Era presente anche il prefetto Fazio, nominato dagli inglesi. Impettito e tracotante, l’ufficiale fermò i due danzatori: erano l’avvocato Antonio Bruno e la sorella. L’avvocato Antonio Bruno portava all’occhiello il distintivo della Trinacria: le tre gambe e la faccia di donna. “Si tolga quel distintivo”, disse l’ufficiale all’avvocato. “Io non tolgo niente”, rispose l’avvocato Bruno.

La musica cessò e tutti gli occhi furono rivolti al centro della sala. Compresi quelli del prefetto Fazio nominato dagli alleati. “Si tolga quel distintivo oppure esca fuori”, tuonò ancora l’ufficiale della Sabauda. “Io non mi tolgo il distintivo e non esco fuori”, replicò l’avvocato indignato. “Allora lei è un vigliacco”, concluse l’ufficiale.

A quelle parole l’avvocato Bruno lasciò la sorella e uscì con l’ufficiale. Seguì lo svenimento della sorella dell’avvocato Bruno, e un putiferio durante il quale l’ufficiale staccò dall’occhiello la Trinacria al giovane avvocato.

Io non c’ero a quella festa. Ma lo seppi una mezz’ora più tardi. Furente come potevo essere furente in quegli anni, andai a cercare subito il giornalista Concetto Battiato e tentai di fare aprire una tipografia. Impossibile. Allora, sempre con Concetto Battiato, recuperai una macchina da scrivere e in due ore battemmo cento copie di un cartello di sfida a tutti gli ufficiali della divisione Sabauda.

Affiggemmo copie di quel cartello, di notte, davanti al comando della divisione e sui muri della città. E siccome era l’ora in cui tornavano le pattuglie di ronda, disarmammo tutte le pattuglie che incontrammo. Poi andai a casa e attesi pazientemente al telefono. Ma non chiamò nessuno.

La guerra al Movimento era già stata dichiarata dal governo Badoglio prima e dal governo Bonomi dopo. Il 28 gennaio 1944 gli alleati avevano consegnato la Sicilia al governo provvisorio italiano e, per prima cosa, l’Italia, il pezzo d’Italia libera, aveva deciso di frustrare con tutti i mezzi a disposizione l’indipendentismo nascente in Sicilia. Qualcuno ci abbandona, come Guarino Amelia, che il venti di gennaio 1944 era latore di un manifesto di Andrea Finocchiaro Aprile a Catania, e sette giorni dopo partecipò al convegno dei comitati di liberazione a Bari.

Ma il movimento non solo era forte. Cresceva e si moltiplicava. E rapidamente si scontrò col potere italiano rappresentato dalla divisione Sabauda mandata apposta per reprimere ogni velleità di indipendentismo.
Gli episodi sono degni dei Vespri. Quello con l’avvocato Bruno è uno di quelli incruenti. Ma scorse anche il sangue. Un nostro iscritto che affiggeva un manifesto in via Etnea venne fatto segno a un colpo di fucile che gli sfiorò il giubbotto. Un altro, il fratello del primo, venne colpito da una fucilata al petto e sopravvisse. A quest’ultimo episodio ero presente anch’io: armato, cominciai a sparare in aria in piena via Etnea per creare panico.

Movimento e autorità locali arrivarono ai ferri corti. Noi indipendentisti catanesi costituimmo legalmente il Movimento per l’indipendenza siciliana e mandammo una copia del verbale alle autorità con un poscritto di Romeo Perrotta, segretario provinciale del Movimento. Poscritto nel quale si precisava che si trattava di una pura e semplice notifica alle autorità ma in quanto autorità locali e non come rappresentanti dello Stato italiano col quale noi non volevamo avere nulla a che spartire.
Il potere, costituito da poco sotto l’egida del governo di Bari, si vendicò con l’ostruzionismo. Finocchiaro Aprile venne a Catania per tenere un discorso ai catanesi. Chiedemmo un locale dove riunirci. Ma il locale ci venne negato sfacciatamente. Allora alzammo l’ingegno. Uno di noi possedeva un grande palazzo adibito a scuola privata. Sloggiammo la scuola privata, organizzammo due piani, installammo gli altoparlanti e Andrea Finocchiaro Aprile poté parlare. Al comizio fece seguito un duro scontro con i nostri avversari “in borghese” (ovvero, appartenenti alle forze dell’ordine, ndr), con quelli del Movimento unitario italiano capeggiati dal principe Borghese, fratello di Valerio Borghese, che aveva sposato la figlia del principe di Manganelli».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Il racconto di Concetto Gallo evidenzia come in Sicilia, tra il 1942-43, dilagasse ovunque il sentimento indipendentista, rendendosi interprete dei bisogni e del malcontento del Popolo Siciliano. Fu, dunque, Gallo il trait-d’union tra il gruppo catanese del Mis e quello palermitano del Cis che, il 9 dicembre 1943, con propria delibera assunse la denominazione – caldeggiata e già informalmente usata a Catania dal prof. Santi Rindone e dai suoi collaboratori –, di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. La connotazione di movimento era intenzionale perché il Mis si proponeva di radunare sotto le proprie bandiere, uomini e gruppi di qualsiasi ideologia, purché convergenti sull’obiettivo comune ed unificante dell’indipendenza della Sicilia.

Questa scelta costituiva una delle ragioni per le quali l’indipendentismo siciliano fu accolto, trasversalmente, in ogni ambiente della società siciliana dell’epoca. Ma fu anche il suo tallone d’Achille, perché di fronte ad ogni problema concreto si verificavano scissioni e divergenze di opinioni che nel tempo avrebbero indebolito, mortalmente, il progetto indipendentista.

(2. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)


Fonte:Siciliani e Sicilianità
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Storia del Movimento per l'Indipendeza della Sicilia, raccontata dal comandate dell'EVIS, secondo Turri, successore di Canepa, in una intervista poco nota del 1974.

(Intervista di E.Magri, 1974 - Riproposta nel 2009 sul settimanale "Gazzettino di Giarre" dal Prof. Salvatore Musumeci")

Un breve prologo del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Oltre sessant'anni fa la Sicilia combattè la sua guerra di indipendenza contro l'Italia; una guerra della quale oramai sono pochi a ricordare i particolari: una vera e propria guerra con eserciti schierati in campo che culminò nella battaglia campale il 29 dicembre 1945, a Monte San Mauro nei pressi di Caltagirone, tra l'esercito italiano comprendente cinquemila uomini e l'Evis, l'esercito dei volontari per l'indipendeza della Sicilia al comando di Concetto Gallo.
Pur appartenendo alla nostra storia più recente, si può dire alla cronaca, la vicenda dell'indipendentismo siciliano, che ebbe i suoi morti, è una delle pagine più oscure della vita siciliana e italiana. Forse perchè i suoi protagonisti si chiusero in uno sdegnato silenzio, lasciando a storici e saggisti il compito di interpretare gli avveimenti.
Il risultato, però, continua ad essere tutta una serie di nuovi interrogativi: come nacque, realmente, l'indipendentismo ? Dietro gli indipendentisti siciliani c'erano poi gli americani che volevano fare della Sicilia la "quarantanovesima stella" ?
E ancora: che influenza ebbe la mafia sulle vicende dell'indipendentismo ? E Salvatore Giuliano ? Il bandito che ruolo giocò nell'esercito siciliano ? E, infine, era vero che i Savoia avrebbero voluto fare della Sicilia la loro testa di ponte per riconquistare l'Italia dopo il referendum del 1946 ?
Per quasi trent'anni queste domande sono state poste a Concetto Gallo, il comandante dell'Evis, uno dei principali protagonisti dell'indipendentismo, enza avere mai una risposta. Poi all'età di 61 anni, esattamente nel 1974, l'ex deputato della Costituente e all'Assemblea siciliana, decise, anche per merito del Prof. Giuseppe Sambataro, di raccontare per l'europeo, in un'intervista a Enzo Magrì, la storia di quei tragici avvenimenti cominciando dalla nscita dell'indipendentismo per finire alla battaglia di Piano della Fiera che segnò la fine del suo esercito.
Più che un'intervista - dalla prima domanda -, Magrì raccolse un vero e proprio "Memoriale", anzi un Dossier" di pregiato valore documentale. Avendone trovata la minuta tra le carte ingiallite dal tempo, (n.d.r.: è il Prof. Salvatore Musumeci che trova tali carte) dell'archivio storico del Mis, ne riproponiamo la pubblicazione - articolata in una serie di appuntamenti -, ritenendola fonte di particolare interesse storico.

L'INTERVISTA

Onorevole Gallo, come e perchè nacque l'Indipendentismo ?

"Uno dei primi a riprendere la sua attività a Catania, nell'agosto del 1943, fu un famoso chirurgo: il Prof. Santi Rindone. Tre giorni dopo l'invasione alleata, vale a dire l'otto agosto 1943, Rindone aveva aperto la sua clinica in via Papale. E, cosa strana, quello stesso giorno si registrò un andirivieni di malati straordinario.
Era il professore in persona che riceveva gli ospiti, tutti appartenente alla borghesia catanese. E quando qualche malato non gli garbava rispondeva: "Oggi non visito" . Veramente non erano malati. Erano tutti indipendentisti. Uomini noti al Prof. Rindone, con i quali, mesi prima, durante il fascismo, si era incontrato nella sua villa di San Giovanni La Punta, alle falde dell'Etna.
L'antifascismo siciliano, questo purtroppo non è mai stato scritto, fu nella sua stragrande maggioranza indipendentismo. Se in Sicilia il fascismo non aveva incontrato molti entusiasmi, sin dal suo nascere, nel 1922, fu per una sola ragione: perchè il fascismo era stato considerato l'ultimo prodotto imposto dall'Italia alla Sicilia: l'ultima stupidità, che aveva lasciato dietro di sè una scia di sangue e di morti. Ora, quella mattina dell'otto agosto 1943, mentre da Catania transitavano file di carri armati dirette verso Messina, un gruppo di maggiorenti catanesi stava decidendo come fare in modo che il fascismo fosse, veramente, l'ultimo prodotto d'importazione dal Nord.
La soluzione era pronta: l'indipendentismo. Indipendentisti erano quasi tutti i catanesi, aristocratici, borghesi e non. A quella riunione erano presenti tutti gli uomini più importanti della città: Carlo Ardizzone, primo sindaco di Catania, nominati dagli Alleati, che uscirà dal Movimento; l'avvocato Ulisse Galante, Franz e Guglielmo duchi di Carcaci, Romeo Perrotta, l'avvocato Nicolosi Tedeschi, Attilio Castrogiovanni, l'avvocato Vito Patti, il professore Cappellani, l'avvocato Gaglio, gli avvocati Giuseppe e Antonino Bruno, e molti, molti altri ancora.
C'eravamo, naturalmente, io e mio padre e l'avvocato Gallo Poggi che sarebbe stato il sindaco di Catania degli anni Cinquanta, il sindaco che avrebbe rifiutato il teatro Massimo a Scelba.
Io non so come gli altri siano arrivati all'indipendentismo. Nella mia famiglia lo si era sempre respirato con l'aria. I Savoia ci avevano rovinato. Un mio avo, luogotenente di Ferdinando di Borbone, era stato costretto, subito dopo l'arrivo in Sicilia di Garibaldi, a fuggire esule a Malta e la nuova amministrazione ne aveva approfittato per confiscargli tutti i beni, compreso Palazzo Gallo, che mio padre riscattò successivmente a rate.
In me, poi, operava, più che negli altri, uno spirito di libertà che era indissolublmente connaturato con la mia esistenza. Io, per esempio, ho avuto il coraggio, da giovane, di infrangere una tradizione di famiglia secondo la quale ogni Gallo doveva fare il professionista, l'avvocato in particolare. Proprio per uno spirito di indipendenza, proprio per raggiungere un'immediata indipendenza economica mi iscrissi alle commerciali e divenni rappresentante.
Da giovane contavo tra i miei amici degli aristocratici con spirito sportivo: il principe di Cerami, corridore automobilista, quel Giovanni Lavaggi, aviatore, che morì volando verso l'Etiopia con l'esploratore Franchetti e il ministro Luigi Razza. Per parte mia, io mi interessavo di boxe. Vincere una borsa significava avere il soldi per un'altra avventura, per un altro viaggio con gli amici senza doverli chiedere ai genitori. Commercializzavo anche i rapporti familiari. Una volta, ancora studente, scoprìi che mio padre, avvocato, passava cinquanta centesimi per ogni foglio dello studio battuto a macchina. Mi misi d'accordo con lui e le commissioni passarono a me.
Fu questo senso di libertà che mi fece rifiutare il fascismo. Iin toto: nella sua ideologia e nelle sue mascherate.
Finita la guerra, dei quarantaquattro milioni di italiani che avevano applaudito Mussolini nelle piazze non se ne trovò uno solo: tutti martiri del fascismo.
Io non fui ne martire ne fascista. Racconto un episodio per dare la misura dei miei rapporti col fascismo. Attorno al 1934 avevo già una piccola azienda abbastanza avviata. Un giorno mi arrivò una cartolina che mi imponeva di presentarmi al gruppo rionale Armando Casalini, che si trovava in via Manzoni, di fronte all'attuale sede della Questura. Mi ricevette un caposezione e mi spiegò che con quella cartolina volevano diecimila lire.
Disse: " Siccome dobbiamo rinnovare tutto il mobilio della sede, voi siete stato tassato per 10.000 lire". Con diecimila lire del '34 ci si poteva comperare una casa. Risposi: "Ma sa lei quanto ci vuole per guadagnare 10.000 lire ?". E lui: "Così è stato stabilito". Me ne andai. Arrivò una seconda cartolina. Poi una terza con scritto "Ultimo avviso". Questa volta mi volevano vederre a Palazzo dei Chierici; addrittura il federale.
Il federale di Catania, a quel tempo, era Pietrangelo Mammano, un compagno di scuola di mio fratello, il maggiore. Andai a Palazzo dei Chierici e mi fecero sedere in una sala. A un certo punto arrivarono due militi armati di moschetto, mi si misero ai lati e così entrammo nell'ufficio del federale. Io dicevo tra me e me: "Ma che, sono scemi ' Ma dove mi devono portare, alla fucilazione?". Pietrangelo Mammano era seduto dietro a un grande tavolo: il gomito appoggiato sul tavolo; la mano destra a visiera.
Entrando salutai: "Ciao, Pietro". Ma lui subito: " Questa cartolina è indirizzata a voi ?" Prima di rispondere domandai: "Ma scusa, Pietro, non ce ne sono sedie qui ?". E lui, alzando il tono della voce: "Ho detto, questa cartolina è indirizzata a voi ?". Risposi: " Si, quella cartolina e indirizzata a me" - "E alllora perchè non vi siete presentato ?". Dissi: " Perchè siccome c'è scritto ultimo avviso, pensavo che dopo questa cartolina non ne sarebbero più arrivate".
"Fuori", fece lui. E mi sbatterono fuori. Poi mi deferirono alla commissione di disciplina, ma non venne preso alcun provvedimento perchè mio padre, avvocato civilista, fece rilevare che non potevano darmi alcuna sanzione per il semplice motivo che non essendo io un loro iscritto non potevo essere giudicato da nessuna commissione ".



Indipendentismo come antifascismo

I siciliani vissero il Fascismo come un ulteriore asservimento all’Italia, e la fine della guerra rappresentò l’occasione ideale per liberarsi della italica tirannia



«In Sicilia, in un clima di abusi di potere e di soprusi maturò l’antifascismo; un antifascismo che si accentuò a mano a mano che ci si avvicinava alla guerra. Inizialmente questo antifascismo era dei più vari colori, come nel resto d’Italia: socialista, comunista, liberale. Poi, l’atteggiamento di Badoglio e il proclama di Roatta che parlava di “italiani e di siciliani fedeli”, fedeli come i cani, fecero coagulare l’antifascismo attorno all’indipendentismo siciliano.

E la culla dell’indipendentismo catanese era Villa Rindone, a San Giovanni La Punta, dove l’illustre chirurgo, ex deputato al Parlamento prefascista, si trovava sfollato nel 1943. Rindone e tutti gli altri, compreso me, erano già convinti, nel 1942, che la guerra fosse perduta e che bisognasse pensare a un nuovo assetto politico per la Sicilia. Si aveva la sensazione che la catastrofe della guerra fosse uno di quei ritorni storici in seguito ai quali i popoli che erano stati asserviti ne dovevano approfittare.

E questa sensazione, voglio dire l’idea dell’indipendenza, si diffondeva rapidamente. Solo più tardi sapemmo che un gruppo di giovani si riuniva, contemporaneamente a noi, e indipendentemente da noi, nella chiesa della Mercede parlando degli stessi temi che venivano dibattuti dai maggiorenti in casa Rindone. Così come scoprimmo che nell’altro versante dell’isola, Andrea Finocchiaro Aprile, ex deputato liberale al Parlamento prefascista, uomo eccezionale, di grande prestigio e di onestà, stava operando per l’indipendentismo insieme con Lucio Tasca, primo sindaco di Palermo. Antonino Varvaro e altri. Era stato proprio nel precedente mese di luglio, all’entrata degli americani a Palermo, che Finocchiaro Aprile aveva fatto un proclama e aveva scritto a tutti i suoi ex colleghi deputati siciliani al Parlamento prima di Mussolini proponendo una lotta politica per l’indipendenza. Il fatto è che noi siamo stati afflitti da due cose: da un pugno di traditori che ci hanno abbandonato al momento delle battaglie decisive e dall’ignavia che ha lasciato agli altri il compito di scrivere per nostro conto. E gli altri hanno scritto menzogne.

Ad ogni buon conto, lasciamo le digressioni. Dicevo che l’otto agosto 1943 gli indipendentisti catanesi si riunirono in casa Rindone. Non c’era niente da dibattere. Tutto era stato dibattuto nei mesi precedenti. E così da casa Rindone uscì un manifesto con le firme di tutti i presenti: era l’atto costitutivo in Catania del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Ed era con una copia di questo manifesto che io e un giornalista, Concetto Battiato, partimmo per Palermo per prendere contatto col padre spirituale dell’indipendentismo: Andrea Finocchiaro Aprile. Quando lo incontrammo era in casa del genero, Frasca Polara. Finocchiaro Aprile aveva sulle spalle un impermeabile del genero e si stava friggendo due uova su una spiritiera. La sua unica ricchezza erano tre discorsi: i cosiddetti “discorsi dell’Aurora” che io portai a Catania. Alcuni mesi dopo, il 9 dicembre 1943, Andrea Finocchiaro Aprile fondò ufficialmente a Palermo il Movimento (trasformando il Cis, “Comitato per l’Indipendenza della Sicilia”, in Mis, ndr).

Una sera, in una sala da ballo catanese, un ufficiale della divisione Sabauda fendette la folla dei danzatori e si avvicinò alla coppia che stava al centro della sala.

Il dancing era a Guardia-Ognina, una borgata alla periferia di Catania. Era uno dei primi balli dopo i triboli della guerra. Era presente anche il prefetto Fazio, nominato dagli inglesi. Impettito e tracotante, l’ufficiale fermò i due danzatori: erano l’avvocato Antonio Bruno e la sorella. L’avvocato Antonio Bruno portava all’occhiello il distintivo della Trinacria: le tre gambe e la faccia di donna. “Si tolga quel distintivo”, disse l’ufficiale all’avvocato. “Io non tolgo niente”, rispose l’avvocato Bruno.

La musica cessò e tutti gli occhi furono rivolti al centro della sala. Compresi quelli del prefetto Fazio nominato dagli alleati. “Si tolga quel distintivo oppure esca fuori”, tuonò ancora l’ufficiale della Sabauda. “Io non mi tolgo il distintivo e non esco fuori”, replicò l’avvocato indignato. “Allora lei è un vigliacco”, concluse l’ufficiale.

A quelle parole l’avvocato Bruno lasciò la sorella e uscì con l’ufficiale. Seguì lo svenimento della sorella dell’avvocato Bruno, e un putiferio durante il quale l’ufficiale staccò dall’occhiello la Trinacria al giovane avvocato.

Io non c’ero a quella festa. Ma lo seppi una mezz’ora più tardi. Furente come potevo essere furente in quegli anni, andai a cercare subito il giornalista Concetto Battiato e tentai di fare aprire una tipografia. Impossibile. Allora, sempre con Concetto Battiato, recuperai una macchina da scrivere e in due ore battemmo cento copie di un cartello di sfida a tutti gli ufficiali della divisione Sabauda.

Affiggemmo copie di quel cartello, di notte, davanti al comando della divisione e sui muri della città. E siccome era l’ora in cui tornavano le pattuglie di ronda, disarmammo tutte le pattuglie che incontrammo. Poi andai a casa e attesi pazientemente al telefono. Ma non chiamò nessuno.

La guerra al Movimento era già stata dichiarata dal governo Badoglio prima e dal governo Bonomi dopo. Il 28 gennaio 1944 gli alleati avevano consegnato la Sicilia al governo provvisorio italiano e, per prima cosa, l’Italia, il pezzo d’Italia libera, aveva deciso di frustrare con tutti i mezzi a disposizione l’indipendentismo nascente in Sicilia. Qualcuno ci abbandona, come Guarino Amelia, che il venti di gennaio 1944 era latore di un manifesto di Andrea Finocchiaro Aprile a Catania, e sette giorni dopo partecipò al convegno dei comitati di liberazione a Bari.

Ma il movimento non solo era forte. Cresceva e si moltiplicava. E rapidamente si scontrò col potere italiano rappresentato dalla divisione Sabauda mandata apposta per reprimere ogni velleità di indipendentismo.
Gli episodi sono degni dei Vespri. Quello con l’avvocato Bruno è uno di quelli incruenti. Ma scorse anche il sangue. Un nostro iscritto che affiggeva un manifesto in via Etnea venne fatto segno a un colpo di fucile che gli sfiorò il giubbotto. Un altro, il fratello del primo, venne colpito da una fucilata al petto e sopravvisse. A quest’ultimo episodio ero presente anch’io: armato, cominciai a sparare in aria in piena via Etnea per creare panico.

Movimento e autorità locali arrivarono ai ferri corti. Noi indipendentisti catanesi costituimmo legalmente il Movimento per l’indipendenza siciliana e mandammo una copia del verbale alle autorità con un poscritto di Romeo Perrotta, segretario provinciale del Movimento. Poscritto nel quale si precisava che si trattava di una pura e semplice notifica alle autorità ma in quanto autorità locali e non come rappresentanti dello Stato italiano col quale noi non volevamo avere nulla a che spartire.
Il potere, costituito da poco sotto l’egida del governo di Bari, si vendicò con l’ostruzionismo. Finocchiaro Aprile venne a Catania per tenere un discorso ai catanesi. Chiedemmo un locale dove riunirci. Ma il locale ci venne negato sfacciatamente. Allora alzammo l’ingegno. Uno di noi possedeva un grande palazzo adibito a scuola privata. Sloggiammo la scuola privata, organizzammo due piani, installammo gli altoparlanti e Andrea Finocchiaro Aprile poté parlare. Al comizio fece seguito un duro scontro con i nostri avversari “in borghese” (ovvero, appartenenti alle forze dell’ordine, ndr), con quelli del Movimento unitario italiano capeggiati dal principe Borghese, fratello di Valerio Borghese, che aveva sposato la figlia del principe di Manganelli».

Commento del Prof. Salvatore Musumeci, Presidente Nazionale del Mis

Il racconto di Concetto Gallo evidenzia come in Sicilia, tra il 1942-43, dilagasse ovunque il sentimento indipendentista, rendendosi interprete dei bisogni e del malcontento del Popolo Siciliano. Fu, dunque, Gallo il trait-d’union tra il gruppo catanese del Mis e quello palermitano del Cis che, il 9 dicembre 1943, con propria delibera assunse la denominazione – caldeggiata e già informalmente usata a Catania dal prof. Santi Rindone e dai suoi collaboratori –, di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. La connotazione di movimento era intenzionale perché il Mis si proponeva di radunare sotto le proprie bandiere, uomini e gruppi di qualsiasi ideologia, purché convergenti sull’obiettivo comune ed unificante dell’indipendenza della Sicilia.

Questa scelta costituiva una delle ragioni per le quali l’indipendentismo siciliano fu accolto, trasversalmente, in ogni ambiente della società siciliana dell’epoca. Ma fu anche il suo tallone d’Achille, perché di fronte ad ogni problema concreto si verificavano scissioni e divergenze di opinioni che nel tempo avrebbero indebolito, mortalmente, il progetto indipendentista.

(2. Continua –“Memorie” di Concetto Gallo, da un’intervista di E. Magrì, 1974)


Fonte:Siciliani e Sicilianità
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