martedì 8 settembre 2009

8 Settembre 1943 - Il re sabaudo, con la corte scappò da Roma, portando con sè casse piene di soldi dimostrando al mondo lo "spessore" della casata


Il 9 settembre 1943 Vittorio Emanuele III, la moglie e la sua corte decisero di abbandonare la Capitale, lasciando senza alcun ordine le truppe, già ampiamente sbandate alla notizia dell’armistizio la sera dell’8 settembre.

Si tratta di una delle pagine più buie e squalificanti per la monarchia, che ancora oggi qualche ex monarchico o fascista, con pretese di storico, cerca di giustificare in nome della salvaguardia della “continuità dello

Mario Roatta, responsabile della difesa armata di RomaStato” che spiegherebbe la precipitosa fuga di corte. Sono balle, naturalmente.

L’impreparazione, la superficialità, a tratti perfino comica, del Governo Badoglio e del re stesso si dimostrarono, la sera dell’8 settembre, è proprio il caso di dire, sovrani. Negli accordi con gli americani sfociati nell’”armistizio corto” di Cassibile, gli italiani avevano chiesto di non rendere pubblica la resa almeno fino al 12 settembre. Ciò avrebbe fornito un po’ più di tempo per preparare la fuga, in vista dell’inevitabile reazione tedesca. In quelle ore, infatti, Badoglio e il suo staff, così come Vittorio Emanuele e la sua famiglia, sembravano temere più di ogni altra cosa i tedeschi e la loro terribile ira. Dopo esserne stati fedeli alleati negli ultimi anni, aver approvato anche le leggi razziste contro gli ebrei, ora il piccolo sovrano e la sua corte scoprivano la pericolosità di averli come nemici.

Ciò li indusse, in quelle concitate ore del tardo pomeriggio dell’8 settembre, a non sapere bene cosa fare. Il re si riunì con un consiglio della corona al Quirinale, per discutere il da farsi. Oramai si aveva la sicurezza che il generale Eisenhower annunciasse in serata la firma dell’armistizio, innescando la reazione dell’esercito di Hitler.

Alla firma dell’accordo con gli americani, il plenipotenziario italiano, generale Giuseppe Castellano, aveva concordato una collaborazione con Eisenhower in vista di quella che avrebbe dovuto essere la “difesa militare di Roma”. Se la corte romana e l’imbelle governo badogliano non avessero avuto come unico obiettivo quello di salvare la pelle, si sarebbero impegnati in una resistenza armata contro le truppe tedesche per tentare di scongiurare i terribili nove mesi di occupazione nazista, le deportazioni degli ebrei, le uccisioni di oppositori, le torture della Gestapo a via Tasso.

Ma la sera del 7 settembre, i generali Taylor e Bedell-Smith, inviati dal governo americano per concordare le azioni militari a difesa di Roma, e soprattutto l’invio di un corpo di paracadutisti nei cieli della Capitale, trovarono il deserto. Alle nove, il generale Carboni, responsabile della difesa di Roma, che pure era stato delegato a riceverli, si trovava ad una festa, Badoglio dormiva, non c’era il capo di Stato maggiore Ambrosio, impegnato in un trasloco. Gli inviati americani trovarono soltanto un colonnello che non conosceva l’inglese e che dovette fare buon viso a cattivo gioco, di fronte alla naturale irritazione degli alti ufficiali americani.

Alla fine, svegliato Badoglio, si riuscì a convincere gli americani ad inviare un telegramma ad Eisenhower con il quale gli si chiedeva di sospendere l’operazione militare in difesa di Roma, anche perché il Governo italiano non aveva fatto nulla per organizzare il territorio, le truppe erano allo sbando e senza ordini, dato che l’unico vero interesse era stato quello di cercare una via di salvezza personale per la corte e i suoi uomini. Gli americani accettarono, non senza contrarietà. Roma sarà senza difese di fronte all’ira tedesca.

Così, al ridicolo consiglio della corona dell’8 arrivò la notizia che Eisenhower aveva diffuso il testo dell’armistizio e tutti persero la testa. Ci fu perfino chi propose di sconfessarne il contenuto, asserendo che la richiesta di resa di Cassibile era stata un’idea bislacca di Badoglio. Questi furono i personaggi che avrebbero dovuto, nell’”ora del destino”, portare alla “gloria” la nostra storia patria.

Il re a Pescara

Naturalmente, si decise di rispettare l’accordo di Cassibile e tutti se ne andarono, senza avvertire nessuno, né gli altri capi militari, né i ministri, anch’essi abbandonati a se stessi. Nella notte del 9 settembre, Mario Roatta, responsabile della difesa di Roma, annunciò al re che i tedeschi stavano attaccando dappertutto e che era necessario fuggire. Come responsabile della difesa della Capitale, Roatta non era riuscito a mettere a punto altra strategia che la fuga. Per questo sarà processato e condannato dopo la guerra, ma, purtroppo, amnistiato e morirà da uomo libero, nonostante i misfatti compiuti.

Il piccolo re non se lo fece ripetere due volte e si organizzò un imponente corteo di auto che, imboccò la via Tiburtina, in direzione di Pescara. Nonostante il fatto che “i tedeschi stiano attaccando dappertutto”, il convoglio non incontrò alcuna difficoltà; venne anche fermato tre volte dai posti di blocco nazisti e poi fatto proseguire. Tutto ciò indurrà qualcuno (come Ruggero Zangrandi nel libro “L’Italia tradita”) a prospettare un accordo fra monarchia e tedeschi per la fuga e la consegna della Capitale a Hitler. Un’ipotesi infamante che costerà perfino una condanna penale al giornalista ma che, agli occhi degli storici, non può essere del tutto esclusa, per quanto senza una documentazione di supporto. Infatti, ogni atto ed ogni decisione di quelle ore nella corte del piccolo re e dei suoi ministri erano chiaramente contrassegnati dal desiderio di salvare la pelle, costi quel che costi e un eventuale salvacondotto di Kesserling, responsabile militare della piazza romana, in cambio della vita, a costo di sacrificare quelle dei romani che così indecentemente avevano governato, sarebbe stata gradita da quegli uomini in fuga.

Così, sul molo di Ortona, in Abruzzo, la corvetta “Baionetta” si adoperò di trasportare 59 sbandati di corte a Brindisi, consentendo loro di salvarsi (ma le persone al seguito erano molte di più e ci furono tafferugli per trovare un posto sul battello; un’altra disgustosa scena di viltà offertaci da casa Savoia).

Roma città aperta

Lasciata a se stessa, la Capitale fu rapidamente conquistata dall’esercito tedesco. Ma in modo tale da suscitare più di una perplessità. Innanzitutto, pur essendo già in corso gli scontri fra esercito italiano e tedesco, il generale Ambrosio, capo di stato maggiore, non diramò mai la “Memoria op. 44”, approvata a fine agosto, che prevedeva un architettato piano di resistenza ai tedeschi. In secondo luogo, i militari italiani furono collocati in zone dell’Urbe che sembravano favorire la rapida avanzata nazista. Lo stesso Kesserling non era per niente sicuro di poter conquistare la Capitale. Il suo esercito era oramai pressato su più fronti e lo stesso Hitler si era limitato a ordinare l’arresto di Badoglio e del re, non esattamente l’occupazione territoriale. Insomma, Roma poteva essere salvata se solo avesse avuto un Capo di Stato e dei generali meno pavidi, che avessero messo nel conto la perdita della vita pur di compensare parzialmente i disastri fino a quel momento compiuti.

Ma ciò, sfortunatamente, non avvenne. E i tedeschi poterono rivalersi con tutta la loro ferocia sui romani. L’unica autorità che non abbandonò mai l’Urbe fu il Papa, Pio XII. Lui, in effetti, non si lasciò intimorire dalle minacce naziste e decise di rinchiudersi in Vaticano, con la non peregrina prospettiva di essere deportato. Un’altra pasta rispetto al piccolo re.

APPROFONDIMENTI

Sono stati tradotti in italiano i verbali delle sedute giornaliere del führer con i suoi generali (tr. di Flavia Paoli, Libreria Editrice Goriziana, pp. 692, Euro 38). In quella relativa alla giornata delle dimissioni di Mussolini, Hitler mostra di non fidarsi di Badoglio e propende per l’occupazione immediata di Roma, cosa che avverrà invece soltanto dopo l’8 settembre.

Brani tratti da:
Il Corsaro Rosso
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Il 9 settembre 1943 Vittorio Emanuele III, la moglie e la sua corte decisero di abbandonare la Capitale, lasciando senza alcun ordine le truppe, già ampiamente sbandate alla notizia dell’armistizio la sera dell’8 settembre.

Si tratta di una delle pagine più buie e squalificanti per la monarchia, che ancora oggi qualche ex monarchico o fascista, con pretese di storico, cerca di giustificare in nome della salvaguardia della “continuità dello

Mario Roatta, responsabile della difesa armata di RomaStato” che spiegherebbe la precipitosa fuga di corte. Sono balle, naturalmente.

L’impreparazione, la superficialità, a tratti perfino comica, del Governo Badoglio e del re stesso si dimostrarono, la sera dell’8 settembre, è proprio il caso di dire, sovrani. Negli accordi con gli americani sfociati nell’”armistizio corto” di Cassibile, gli italiani avevano chiesto di non rendere pubblica la resa almeno fino al 12 settembre. Ciò avrebbe fornito un po’ più di tempo per preparare la fuga, in vista dell’inevitabile reazione tedesca. In quelle ore, infatti, Badoglio e il suo staff, così come Vittorio Emanuele e la sua famiglia, sembravano temere più di ogni altra cosa i tedeschi e la loro terribile ira. Dopo esserne stati fedeli alleati negli ultimi anni, aver approvato anche le leggi razziste contro gli ebrei, ora il piccolo sovrano e la sua corte scoprivano la pericolosità di averli come nemici.

Ciò li indusse, in quelle concitate ore del tardo pomeriggio dell’8 settembre, a non sapere bene cosa fare. Il re si riunì con un consiglio della corona al Quirinale, per discutere il da farsi. Oramai si aveva la sicurezza che il generale Eisenhower annunciasse in serata la firma dell’armistizio, innescando la reazione dell’esercito di Hitler.

Alla firma dell’accordo con gli americani, il plenipotenziario italiano, generale Giuseppe Castellano, aveva concordato una collaborazione con Eisenhower in vista di quella che avrebbe dovuto essere la “difesa militare di Roma”. Se la corte romana e l’imbelle governo badogliano non avessero avuto come unico obiettivo quello di salvare la pelle, si sarebbero impegnati in una resistenza armata contro le truppe tedesche per tentare di scongiurare i terribili nove mesi di occupazione nazista, le deportazioni degli ebrei, le uccisioni di oppositori, le torture della Gestapo a via Tasso.

Ma la sera del 7 settembre, i generali Taylor e Bedell-Smith, inviati dal governo americano per concordare le azioni militari a difesa di Roma, e soprattutto l’invio di un corpo di paracadutisti nei cieli della Capitale, trovarono il deserto. Alle nove, il generale Carboni, responsabile della difesa di Roma, che pure era stato delegato a riceverli, si trovava ad una festa, Badoglio dormiva, non c’era il capo di Stato maggiore Ambrosio, impegnato in un trasloco. Gli inviati americani trovarono soltanto un colonnello che non conosceva l’inglese e che dovette fare buon viso a cattivo gioco, di fronte alla naturale irritazione degli alti ufficiali americani.

Alla fine, svegliato Badoglio, si riuscì a convincere gli americani ad inviare un telegramma ad Eisenhower con il quale gli si chiedeva di sospendere l’operazione militare in difesa di Roma, anche perché il Governo italiano non aveva fatto nulla per organizzare il territorio, le truppe erano allo sbando e senza ordini, dato che l’unico vero interesse era stato quello di cercare una via di salvezza personale per la corte e i suoi uomini. Gli americani accettarono, non senza contrarietà. Roma sarà senza difese di fronte all’ira tedesca.

Così, al ridicolo consiglio della corona dell’8 arrivò la notizia che Eisenhower aveva diffuso il testo dell’armistizio e tutti persero la testa. Ci fu perfino chi propose di sconfessarne il contenuto, asserendo che la richiesta di resa di Cassibile era stata un’idea bislacca di Badoglio. Questi furono i personaggi che avrebbero dovuto, nell’”ora del destino”, portare alla “gloria” la nostra storia patria.

Il re a Pescara

Naturalmente, si decise di rispettare l’accordo di Cassibile e tutti se ne andarono, senza avvertire nessuno, né gli altri capi militari, né i ministri, anch’essi abbandonati a se stessi. Nella notte del 9 settembre, Mario Roatta, responsabile della difesa di Roma, annunciò al re che i tedeschi stavano attaccando dappertutto e che era necessario fuggire. Come responsabile della difesa della Capitale, Roatta non era riuscito a mettere a punto altra strategia che la fuga. Per questo sarà processato e condannato dopo la guerra, ma, purtroppo, amnistiato e morirà da uomo libero, nonostante i misfatti compiuti.

Il piccolo re non se lo fece ripetere due volte e si organizzò un imponente corteo di auto che, imboccò la via Tiburtina, in direzione di Pescara. Nonostante il fatto che “i tedeschi stiano attaccando dappertutto”, il convoglio non incontrò alcuna difficoltà; venne anche fermato tre volte dai posti di blocco nazisti e poi fatto proseguire. Tutto ciò indurrà qualcuno (come Ruggero Zangrandi nel libro “L’Italia tradita”) a prospettare un accordo fra monarchia e tedeschi per la fuga e la consegna della Capitale a Hitler. Un’ipotesi infamante che costerà perfino una condanna penale al giornalista ma che, agli occhi degli storici, non può essere del tutto esclusa, per quanto senza una documentazione di supporto. Infatti, ogni atto ed ogni decisione di quelle ore nella corte del piccolo re e dei suoi ministri erano chiaramente contrassegnati dal desiderio di salvare la pelle, costi quel che costi e un eventuale salvacondotto di Kesserling, responsabile militare della piazza romana, in cambio della vita, a costo di sacrificare quelle dei romani che così indecentemente avevano governato, sarebbe stata gradita da quegli uomini in fuga.

Così, sul molo di Ortona, in Abruzzo, la corvetta “Baionetta” si adoperò di trasportare 59 sbandati di corte a Brindisi, consentendo loro di salvarsi (ma le persone al seguito erano molte di più e ci furono tafferugli per trovare un posto sul battello; un’altra disgustosa scena di viltà offertaci da casa Savoia).

Roma città aperta

Lasciata a se stessa, la Capitale fu rapidamente conquistata dall’esercito tedesco. Ma in modo tale da suscitare più di una perplessità. Innanzitutto, pur essendo già in corso gli scontri fra esercito italiano e tedesco, il generale Ambrosio, capo di stato maggiore, non diramò mai la “Memoria op. 44”, approvata a fine agosto, che prevedeva un architettato piano di resistenza ai tedeschi. In secondo luogo, i militari italiani furono collocati in zone dell’Urbe che sembravano favorire la rapida avanzata nazista. Lo stesso Kesserling non era per niente sicuro di poter conquistare la Capitale. Il suo esercito era oramai pressato su più fronti e lo stesso Hitler si era limitato a ordinare l’arresto di Badoglio e del re, non esattamente l’occupazione territoriale. Insomma, Roma poteva essere salvata se solo avesse avuto un Capo di Stato e dei generali meno pavidi, che avessero messo nel conto la perdita della vita pur di compensare parzialmente i disastri fino a quel momento compiuti.

Ma ciò, sfortunatamente, non avvenne. E i tedeschi poterono rivalersi con tutta la loro ferocia sui romani. L’unica autorità che non abbandonò mai l’Urbe fu il Papa, Pio XII. Lui, in effetti, non si lasciò intimorire dalle minacce naziste e decise di rinchiudersi in Vaticano, con la non peregrina prospettiva di essere deportato. Un’altra pasta rispetto al piccolo re.

APPROFONDIMENTI

Sono stati tradotti in italiano i verbali delle sedute giornaliere del führer con i suoi generali (tr. di Flavia Paoli, Libreria Editrice Goriziana, pp. 692, Euro 38). In quella relativa alla giornata delle dimissioni di Mussolini, Hitler mostra di non fidarsi di Badoglio e propende per l’occupazione immediata di Roma, cosa che avverrà invece soltanto dopo l’8 settembre.

Brani tratti da:
Il Corsaro Rosso

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