Durante la sua storia millenaria la fortezza di Gaeta ha dovuto sostenere molti assedi, il più famoso dei quali – e quello più gravido di conseguenze storiche – è quello del 1860-61, che vide tramontare definitivamente il Regno delle Due Sicilie e che è legato all’eroismo di Maria Sofia Wittelsbach, sorella dell’Imperatrice Sissi e ultima Regina di Napoli.
di Gianandrea de Antonellis
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La fortezza di Gaeta è indissolubilmente legata all’assedio del 1860-‘61, che vide l’ultimo Re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, resistere strenuamente all’assalto delle truppe piemontesi.
In realtà, nella sua più che millenaria storia, cominciata nell’anno 846 in funzione antisaracena, Gaeta dovette difendersi per ben quindici volte da un assedio militare. Solo nel periodo borbonico se ne contano sei: il primo fu del 1734, durò da maggio ad agosto e vide Carlo, futuro Re di Spagna, nei panni dell’assediante (andava a conquistare il Regno di Napoli, allora viceregno austriaco); una volta conquistata, la fortezza venne resa ancor più salda e divenne il fulcro della potenza militare del Regno. Carlo amava molto la città, tanto che nel 1738 vi celebrò le proprie nozze con Maria Amalia Walburg; in tale occasione il sovrano concesse a Gaeta il titolo di “Fedelissima”.
Al tempo della Rivoluzione, la fortezza fu occupata dall’esercito invasore francese (20 dicembre 1798) e venne riconquistata dai napoletani solo sette mesi dopo (31 luglio 1799). Con la venuta dei napoleonidi subì altri due assedi: il primo tra il 12 febbraio ed il 18 luglio 1806, quando i francesi conquistarono il Regno; il secondo dall’11 maggio all’8 agosto 1815, quando gli austriaci lo liberarono.
In particolare quello del 1806 è considerato – dopo quello del 1860 – il più importante assedio subito dalla roccaforte: le truppe francesi erano comandate del generale Massena, mentre la valorosa difesa della piazzaforte venne condotta da parte del principe d’Assia Luigi Philippstadt con l’aiuto della flotta inglese di Sidney-Smith. La caduta di Gaeta concluse la campagna francese per la conquista del Napoletano e segnò l’istituzione del regno dì Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat.
Nel 1815 la strenua difesa della città, condotta eroicamente per sei mesi dal generale Alessandro Begani, costituì l’ultima pagina della resistenza del Murat contro la riconquista del regno di Napoli da parte delle truppe napoletane ed austriache. Ritornata Gaeta ai Borbone, con Ferdinando II Gaeta, per le sue particolari condizioni climatiche, divenne la residenza estiva della famiglia reale: furono eseguiti notevoli opere militari e nel 1854 vi fu istituita una Scuola Nautica.
A fianco di tali lavori – che, va aggiunto, non aumentarono particolarmente la potenza difensiva ed offensiva della città – la città si arricchì di varie opere civili: dal rimboschimento di Monte Orlando all’apertura della strada lungo la marina dell’antico borgo, il Corso Attico (oggi Lungomare Caboto) dal ripristino delle strade interne alla ricostruzione della chiesa di San Francesco.
Un assedio tragico e memorabile
Se l’assedio del 1806 fu il più lungo, quello piemontese, durato dal 9 novembre 1860 al 13 febbraio 1861, fu il più duro, il più famoso ed il più glorioso, oltre che il più carico di conseguenze per il regno napoletano.
«Noi» scrisse Teodoro Salzillo, un testimone diretto dei fatti «tenendo presenti il valore, le risorse ed il numero degli aggressori e degli aggre¬diti di ogni singola difesa in questa piazza sostenuta, crediamo che la difesa più ricca di gloria militare è stata quella del 1860-‘61, la quale, sebbene perdurò tre mesi e mezzo e non cinque come quella del 1806 (che è stata la più lunga), pure deve assolutamente anteporsi alle altre, stimandola degna di maggior lode: tanto più che ebbe 76 giorni di fuoco sì spesso, ostinato e micidiale che anche nei propri letti venivano ucci¬si i malati e i feriti. Questo fatto orribile (accaduto nel secolo che s’è detto del progresso) fu oggetto di un richiamo del Governatore, ma ebbe da Cialdini la cinica risposta: le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Tremenda risposta!… che la storia registrerà ad eterna vergogna di chi osò pronunciar¬la!».
L’ufficiale borbonico si riferiva al cinismo del generale Enrico Cialdini (che a conclusione della guerra avrebbe ricevuta da Vittorio Emanuele il titolo di duca di Gaeta), il quale riuscì ad espugnare la rocca solo ricorrendo a metodi efferati, cioè bombardandola senza pietà.
Dalla loro i piemontesi avevano un recente ritrovato della tecnica militare: vale a dire i cannoni rigati, che assicuravano una precisione di tiro molto maggiore dei cannoni ad anima liscia, oltre a consentire una maggiore velocità e forza di penetrazione.
Sessantamila furono gli ordigni lanciati su Gaeta (8000 solo il giorno 8 gennaio), che si abbatterono non solo sui quasi 1000 ufficiali e oltre 10000 soldati, ma anche sulla popolazione civile rimasta all’interno delle mura. In ben due occasioni i Piemontesi riuscirono a colpire le polveriere borboniche, provocando gravi guasti alle difese napoletane e un numero impressionante di morti, che si sommarono a quelli giornalieri causati dai combattimenti e dall’epidemia di tifo che imperversò nella fortezza.
I cannoneggiamenti provenivano da Mola di Gaeta (odierna Formia), dove aveva sede il comando piemontese, e dal mare: divennero più intensi quando la flotta francese, che per un certo periodo si era interposta, venne costretta ad allontanarsi a causa delle pressioni diplomatiche inglesi.
Irritato per la strenua resistenza napoletana, Cialdini non rispettò alcun codice cavalleresco: quando venne centrata la polveriera Transilvania, le batterie d’assedio piemontesi concentrarono il fuoco sulle macerie per impedire i soccorsi, sparando sui barellieri e provocando il crescere dell’epidemia di tifo, a causa della decomposizione dei cadaveri a cui non si era potuta dare sepoltura. Il tutto mentre gli ufficiali piemontesi a Mola batte¬vano le mani come a uno spettacolo, come riporta nelle sue memorie il ministro borbonico Pietro Calà d’Ulloa.
Ciò avveniva durante le trattative di resa: infatti Francesco II, inorridito dalle stragi dei propri soldati ed avendo compreso ormai di essere stato definitivamente abbandonato al suo destino dai sovrani stranieri, aveva chiesto una sospensione delle ostilità per trattare la capitolazione; ma mentre i suoi ufficiali si trovavano a colloquio con Cialdini, il bombardamento continuò implacabilmente, colpendo appunto la seconda polveriera.
L’eroina della fortezza: Maria Sofia, ultima Regina delle Due Sicilie
Il Re e la Regina restarono comunque fino all’ultimo in quella che era divenuta la capitale provvisoria del Regno. Su Maria Sofia erano state esercitate affettuose pressioni affinché anch’ella si recasse a Roma con la suocera o a Monaco dai suoi parenti, per aspettarvi, al sicuro, che la situazione si risolvesse in qualche maniera. Ma non era stato possibile convincerla ad abbandonare il marito e a lasciare la fortezza assediata: per tutto il tempo della battaglia, incurante dei proiettili che le fischiavano accanto, la Regina si era aggirata tra bastioni e batterie, senza dar segno di turbamento, spronando con la sua presenza i soldati e recandosi negli ospedali per visitare i feriti.
A tal proposito va ricordato un episodio: Cialdini (o forse il governo piemontese), temendo negative reazioni internazionali se qualcosa di spiacevole fosse successo alla Regina, la cui fama di eroica combattente si era già diffusa in tutta Europa, aveva proposto agli assediati di innalzare una bandiera nera sull’abitazione reale, per dar modo agli artiglieri piemontesi di riconoscerla e di evitare di colpirla. Maria Sofia, informata, aveva chiesto che si esponesse il drappo nero sugli ospedali anziché che sulla propria abitazione.
Decenni dopo, Gabriele d’Annunzio nel suo romanzo Trionfo della morte, avrebbe rievocato il coraggio della giovanissima sovrana, definita “aquilotta bavara”, pronta a portare una parola di conforto o un soccorso materiale ai soldati sottoposti al fuoco nemico; anche Marcel Proust, che conobbe personalmente l’ex regina di Napoli, nella Recherche ricordò «quanto un tempo si era mostrata coraggiosa questa donna eroica che, regina-soldato, aveva combattuto sugli spalti di Gaeta».
Dopo la capitolazione, firmata il 13 febbraio, la coppia reale lasciò Gaeta a bordo di una nave francese inviata da Napoleone III, diretta a Roma, dove avrebbe vissuto, nel vano tentativo di riconquistare il proprio regno, fino alla presa della Città Eterna nel 1870.
Caduta Gaeta, nelle fortezze di Messina e di Civitella del Tronto due altre guarnigioni borboniche continuarono a resistere, combattendo eroicamente la loro battaglia perduta fin quasi alla fine di marzo.
Fonte:Radici CRistiane n. 32 - Febb/Marzo 2008
di Gianandrea de Antonellis
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La fortezza di Gaeta è indissolubilmente legata all’assedio del 1860-‘61, che vide l’ultimo Re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, resistere strenuamente all’assalto delle truppe piemontesi.
In realtà, nella sua più che millenaria storia, cominciata nell’anno 846 in funzione antisaracena, Gaeta dovette difendersi per ben quindici volte da un assedio militare. Solo nel periodo borbonico se ne contano sei: il primo fu del 1734, durò da maggio ad agosto e vide Carlo, futuro Re di Spagna, nei panni dell’assediante (andava a conquistare il Regno di Napoli, allora viceregno austriaco); una volta conquistata, la fortezza venne resa ancor più salda e divenne il fulcro della potenza militare del Regno. Carlo amava molto la città, tanto che nel 1738 vi celebrò le proprie nozze con Maria Amalia Walburg; in tale occasione il sovrano concesse a Gaeta il titolo di “Fedelissima”.
Al tempo della Rivoluzione, la fortezza fu occupata dall’esercito invasore francese (20 dicembre 1798) e venne riconquistata dai napoletani solo sette mesi dopo (31 luglio 1799). Con la venuta dei napoleonidi subì altri due assedi: il primo tra il 12 febbraio ed il 18 luglio 1806, quando i francesi conquistarono il Regno; il secondo dall’11 maggio all’8 agosto 1815, quando gli austriaci lo liberarono.
In particolare quello del 1806 è considerato – dopo quello del 1860 – il più importante assedio subito dalla roccaforte: le truppe francesi erano comandate del generale Massena, mentre la valorosa difesa della piazzaforte venne condotta da parte del principe d’Assia Luigi Philippstadt con l’aiuto della flotta inglese di Sidney-Smith. La caduta di Gaeta concluse la campagna francese per la conquista del Napoletano e segnò l’istituzione del regno dì Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat.
Nel 1815 la strenua difesa della città, condotta eroicamente per sei mesi dal generale Alessandro Begani, costituì l’ultima pagina della resistenza del Murat contro la riconquista del regno di Napoli da parte delle truppe napoletane ed austriache. Ritornata Gaeta ai Borbone, con Ferdinando II Gaeta, per le sue particolari condizioni climatiche, divenne la residenza estiva della famiglia reale: furono eseguiti notevoli opere militari e nel 1854 vi fu istituita una Scuola Nautica.
A fianco di tali lavori – che, va aggiunto, non aumentarono particolarmente la potenza difensiva ed offensiva della città – la città si arricchì di varie opere civili: dal rimboschimento di Monte Orlando all’apertura della strada lungo la marina dell’antico borgo, il Corso Attico (oggi Lungomare Caboto) dal ripristino delle strade interne alla ricostruzione della chiesa di San Francesco.
Un assedio tragico e memorabile
Se l’assedio del 1806 fu il più lungo, quello piemontese, durato dal 9 novembre 1860 al 13 febbraio 1861, fu il più duro, il più famoso ed il più glorioso, oltre che il più carico di conseguenze per il regno napoletano.
«Noi» scrisse Teodoro Salzillo, un testimone diretto dei fatti «tenendo presenti il valore, le risorse ed il numero degli aggressori e degli aggre¬diti di ogni singola difesa in questa piazza sostenuta, crediamo che la difesa più ricca di gloria militare è stata quella del 1860-‘61, la quale, sebbene perdurò tre mesi e mezzo e non cinque come quella del 1806 (che è stata la più lunga), pure deve assolutamente anteporsi alle altre, stimandola degna di maggior lode: tanto più che ebbe 76 giorni di fuoco sì spesso, ostinato e micidiale che anche nei propri letti venivano ucci¬si i malati e i feriti. Questo fatto orribile (accaduto nel secolo che s’è detto del progresso) fu oggetto di un richiamo del Governatore, ma ebbe da Cialdini la cinica risposta: le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Tremenda risposta!… che la storia registrerà ad eterna vergogna di chi osò pronunciar¬la!».
L’ufficiale borbonico si riferiva al cinismo del generale Enrico Cialdini (che a conclusione della guerra avrebbe ricevuta da Vittorio Emanuele il titolo di duca di Gaeta), il quale riuscì ad espugnare la rocca solo ricorrendo a metodi efferati, cioè bombardandola senza pietà.
Dalla loro i piemontesi avevano un recente ritrovato della tecnica militare: vale a dire i cannoni rigati, che assicuravano una precisione di tiro molto maggiore dei cannoni ad anima liscia, oltre a consentire una maggiore velocità e forza di penetrazione.
Sessantamila furono gli ordigni lanciati su Gaeta (8000 solo il giorno 8 gennaio), che si abbatterono non solo sui quasi 1000 ufficiali e oltre 10000 soldati, ma anche sulla popolazione civile rimasta all’interno delle mura. In ben due occasioni i Piemontesi riuscirono a colpire le polveriere borboniche, provocando gravi guasti alle difese napoletane e un numero impressionante di morti, che si sommarono a quelli giornalieri causati dai combattimenti e dall’epidemia di tifo che imperversò nella fortezza.
I cannoneggiamenti provenivano da Mola di Gaeta (odierna Formia), dove aveva sede il comando piemontese, e dal mare: divennero più intensi quando la flotta francese, che per un certo periodo si era interposta, venne costretta ad allontanarsi a causa delle pressioni diplomatiche inglesi.
Irritato per la strenua resistenza napoletana, Cialdini non rispettò alcun codice cavalleresco: quando venne centrata la polveriera Transilvania, le batterie d’assedio piemontesi concentrarono il fuoco sulle macerie per impedire i soccorsi, sparando sui barellieri e provocando il crescere dell’epidemia di tifo, a causa della decomposizione dei cadaveri a cui non si era potuta dare sepoltura. Il tutto mentre gli ufficiali piemontesi a Mola batte¬vano le mani come a uno spettacolo, come riporta nelle sue memorie il ministro borbonico Pietro Calà d’Ulloa.
Ciò avveniva durante le trattative di resa: infatti Francesco II, inorridito dalle stragi dei propri soldati ed avendo compreso ormai di essere stato definitivamente abbandonato al suo destino dai sovrani stranieri, aveva chiesto una sospensione delle ostilità per trattare la capitolazione; ma mentre i suoi ufficiali si trovavano a colloquio con Cialdini, il bombardamento continuò implacabilmente, colpendo appunto la seconda polveriera.
L’eroina della fortezza: Maria Sofia, ultima Regina delle Due Sicilie
Il Re e la Regina restarono comunque fino all’ultimo in quella che era divenuta la capitale provvisoria del Regno. Su Maria Sofia erano state esercitate affettuose pressioni affinché anch’ella si recasse a Roma con la suocera o a Monaco dai suoi parenti, per aspettarvi, al sicuro, che la situazione si risolvesse in qualche maniera. Ma non era stato possibile convincerla ad abbandonare il marito e a lasciare la fortezza assediata: per tutto il tempo della battaglia, incurante dei proiettili che le fischiavano accanto, la Regina si era aggirata tra bastioni e batterie, senza dar segno di turbamento, spronando con la sua presenza i soldati e recandosi negli ospedali per visitare i feriti.
A tal proposito va ricordato un episodio: Cialdini (o forse il governo piemontese), temendo negative reazioni internazionali se qualcosa di spiacevole fosse successo alla Regina, la cui fama di eroica combattente si era già diffusa in tutta Europa, aveva proposto agli assediati di innalzare una bandiera nera sull’abitazione reale, per dar modo agli artiglieri piemontesi di riconoscerla e di evitare di colpirla. Maria Sofia, informata, aveva chiesto che si esponesse il drappo nero sugli ospedali anziché che sulla propria abitazione.
Decenni dopo, Gabriele d’Annunzio nel suo romanzo Trionfo della morte, avrebbe rievocato il coraggio della giovanissima sovrana, definita “aquilotta bavara”, pronta a portare una parola di conforto o un soccorso materiale ai soldati sottoposti al fuoco nemico; anche Marcel Proust, che conobbe personalmente l’ex regina di Napoli, nella Recherche ricordò «quanto un tempo si era mostrata coraggiosa questa donna eroica che, regina-soldato, aveva combattuto sugli spalti di Gaeta».
Dopo la capitolazione, firmata il 13 febbraio, la coppia reale lasciò Gaeta a bordo di una nave francese inviata da Napoleone III, diretta a Roma, dove avrebbe vissuto, nel vano tentativo di riconquistare il proprio regno, fino alla presa della Città Eterna nel 1870.
Caduta Gaeta, nelle fortezze di Messina e di Civitella del Tronto due altre guarnigioni borboniche continuarono a resistere, combattendo eroicamente la loro battaglia perduta fin quasi alla fine di marzo.
Fonte:Radici CRistiane n. 32 - Febb/Marzo 2008
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