Piero Barucci, componente dell’Autorità garante della concorrenza ed ex ministro del Tesoro, analizza le cause del rovescio economico mondiale, guarda con preoccupazione all’Italia e formula alcune proposte per uscire dalla recessione
“La crisi? Colpa del doppio deficit dell’economia statunitense. Se ne esce rispettando il vincolo di bilancio, l’unica soluzione per costruire realtà sociali che combinino crescita e giustizia sociale”. Piero Barucci, oggi componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e già professore di economia politica all’Università di Siena, e ministro del Tesoro nei governi Amato Ciampi (il suo nome è legato alle prime grandi privatizzazioni degli anni ‘90), rompe il suo tradizionale riserbo per dire la sua sull’attuale crisi economica.
Professor Barucci, innanzitutto ci può spiegare dal suo punto di vista chi sono i “responsabili” della crisi dei subprime? I governi? Le banche centrali? Gli istituti finanziari?
Siamo di fronte ad una crisi di estese e profonde dimensioni. Ha origini lontane, anche se è esplosa nel segmento dei cosiddetti “subprimes”. Il fatto è che ancora non ne conosciamo correttamente la dimensione e che non siano, conseguentemente, in grado di individuare ed in quale proporzione ne è stato colpito. Secondo l’idea che mi sono fatto, la ragione strutturale che ha determinato la grave crisi è da ricercare nel doppio deficit dell’economia statunitense che dura ormai da qualche lustro. Ciò ha provocato degli importanti flussi di valuta che si sono tradotti in anomale riserve valutarie di parecchi paesi oltre che l’esigenza degli USA di creare le condizioni macroeconomiche per trovare qualcuno disposto a comprare i titoli del passivo americano. E siccome i tassi di interesse erano relativamente bassi, bisognava cercare di garantire rendimenti anomali di capitali e favorevoli occasioni per chi andava ad investire sul capitale di imprese basate USA. La condizione di questo scenario era dunque duplice: bisognava mantenere alto il tasso di crescita dell’economia USA e lasciare che gli intermediari finanziari escogitassero dei modi per mantenere elevati i tassi di rendimento delle attività finanziarie creando delle condizioni, e dei mercati, che fossero alternativi rispetto a quelle rintracciabili nei mercati organizzati ufficiali.
E quindi?
Se i tassi di riferimento erano, in ipotesi del 4%, visto che i costi di capitali in gestione erano più o meno di questo livello, strumenti finanziari che garantivano rendimenti del 7 od 8% l’anno, contenevano in realtà alte aliquote di rischio assunte in modo non tanto inconsapevole, quanto non rese note. Ma il risparmiatore aveva tutte le possibilità di rendersi conto che andava ad investire in strumenti finanziari tutt’altro che indenni dal rischio del mercato.
“La crisi? Colpa del doppio deficit dell’economia statunitense. Se ne esce rispettando il vincolo di bilancio, l’unica soluzione per costruire realtà sociali che combinino crescita e giustizia sociale”. Piero Barucci, oggi componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e già professore di economia politica all’Università di Siena, e ministro del Tesoro nei governi Amato Ciampi (il suo nome è legato alle prime grandi privatizzazioni degli anni ‘90), rompe il suo tradizionale riserbo per dire la sua sull’attuale crisi economica.
Professor Barucci, innanzitutto ci può spiegare dal suo punto di vista chi sono i “responsabili” della crisi dei subprime? I governi? Le banche centrali? Gli istituti finanziari?
Siamo di fronte ad una crisi di estese e profonde dimensioni. Ha origini lontane, anche se è esplosa nel segmento dei cosiddetti “subprimes”. Il fatto è che ancora non ne conosciamo correttamente la dimensione e che non siano, conseguentemente, in grado di individuare ed in quale proporzione ne è stato colpito. Secondo l’idea che mi sono fatto, la ragione strutturale che ha determinato la grave crisi è da ricercare nel doppio deficit dell’economia statunitense che dura ormai da qualche lustro. Ciò ha provocato degli importanti flussi di valuta che si sono tradotti in anomale riserve valutarie di parecchi paesi oltre che l’esigenza degli USA di creare le condizioni macroeconomiche per trovare qualcuno disposto a comprare i titoli del passivo americano. E siccome i tassi di interesse erano relativamente bassi, bisognava cercare di garantire rendimenti anomali di capitali e favorevoli occasioni per chi andava ad investire sul capitale di imprese basate USA. La condizione di questo scenario era dunque duplice: bisognava mantenere alto il tasso di crescita dell’economia USA e lasciare che gli intermediari finanziari escogitassero dei modi per mantenere elevati i tassi di rendimento delle attività finanziarie creando delle condizioni, e dei mercati, che fossero alternativi rispetto a quelle rintracciabili nei mercati organizzati ufficiali.
E quindi?
Se i tassi di riferimento erano, in ipotesi del 4%, visto che i costi di capitali in gestione erano più o meno di questo livello, strumenti finanziari che garantivano rendimenti del 7 od 8% l’anno, contenevano in realtà alte aliquote di rischio assunte in modo non tanto inconsapevole, quanto non rese note. Ma il risparmiatore aveva tutte le possibilità di rendersi conto che andava ad investire in strumenti finanziari tutt’altro che indenni dal rischio del mercato.
La responsabilità principale dell’attuale stato di cose va ritrovata in chi negli USA ha permesso uno sviluppo non sostenibile. Le autorità di vigilanza, adattando le regole ai nuovi mercati senza l’aspirazione a regolamentarli, hanno avuto le loro responsabilità. Gli intermediari hanno fatto voracemente, e senza una visione lungimirante, il loro mestiere, cercando di cogliere ogni opportunità che l’assetto legislativo esistente loro permetteva. Oggi è relativamente agevole fare valutazioni di questo tipo (od una analoga o diversa) e spartire le responsabilità fra i diversi protagonisti. Mi chiedo quale sarebbe stato il costo, politico e sociale, da sopportare tre o quattro anni fa, quando tutto sembrava andare per il meglio, per una Autorità che avesse deciso apertamente di porre fine ad un ciclo che sembrava dispensare a tutti sviluppo, benessere, occupazione e certezze.
C’è chi paragona la crisi al 1929. Secondo lei quanto è credibile il parallelo? Quali sono le somiglianze, e quali le differenze?
Crisi di questo genere non hanno precedenti, in particolare quando si compiono confronti fra realtà che distano ottanta anni. Cerchiamo di fare i conti con la crisi con cui abbiamo a che fare e lasciamo le comparazioni a chi fa storia. Basterà dire che la dimensione, la struttura degli eventi, il quadro istituzionale di riferimento, l’ampiezza, sono oggi del tutto diversi da quelli del 1929.
C’è chi dice che ha fallito l’ideologia del liberismo, e chi risponde che il capitalismo ha ancora “i secoli contati”. Lei da che parte sta?
In proposito non mi sembra utile abbandonarsi alla voglia di giungere a conclusioni troppo generalizzanti su temi che richiederebbero un libro per essere affrontati. Mi limiterei a due notazioni. La prima: il criterio, ovvero, il principio di rispettare il vincolo di bilancio in strutture altamente concorrenziali mi sembra che rappresenti l’unica soluzione per costruire realtà sociali che riescano a combinare crescita e giustizia sociale. La seconda: seguo con atteggiamento distaccato questa discussione sulla “fine del capitalismo”, non perché si tratti di temi che non meritino attenzione, ma perché mi pare che si debba prestare più riguardo alla vitalità del principio della libera impresa, ai mille modi in cui può manifestarsi, ai sistemi comparati diversi che esso può essere in grado di conseguire: il tutto secondo il ruolo che la politica decide di assegnarsi.
E’ possibile vedere in questa crisi un “declino” dell’economia retta dagli Usa come paese-guida? E all’emersione di nuove potenze economiche?
Quello degli USA e della sua economia è un declino atteso. Tutti i futurologi dicono che nell’ultimo quarto del secolo avverrà il sorpasso. Per quanto mi riguarda azzarderei a prevedere che nel nostro secolo emergano “nuove potenze”. Mi fermerei qui, aggiungendo che c’è un ciclo storico che caratterizza ogni civiltà. Questo accadrà anche per gli USA. Sulla natura e la lunghezza del ciclo non avverto alcun bisogno di fare previsioni.
La crisi in atto è uno spartiacque che cambierà la vita, i paradigmi economici e sociali nel prossimo futuro?
Credo che, come per tutte le crisi rilevanti e profonde, anche in questo caso si avranno dei mutamenti. Non sarebbe male che potesse prendere corpo anche una diversa scala di valori sociali. Ma non mi faccio troppe illusioni. Temo che fra quattro o cinque anni il valore preminente tornerà ad essere quello del massimo profitto e che quello della giustizia sociale continuerà ad essere un obiettivo asintotico al quale tutti vorrebbero tendere, ma con scarsa fortuna.
Passiamo ai piani per affrontare l’emergenza. Ritiene che i salvataggi statunitensi e il Tarp siano la strada giusta da perseguire l’obiettivo?
Mi sembra che anche i suoi autori non abbiano certezza alcuna sulla efficacia delle misure che stanno varando. Ma questo dipende dalle ragioni che ho schematizzato nella prima risposta. Tutti sono alla ricerca della misura opportuna, ma temo che tutti stiano cercando di capire le ragioni originarie ed il sistema delle interdipendenze che da esso ne sono derivate.
I primi passi di Obama sono sostanzialmente in linea con quelli della precedente amministrazione. Pensa che il presidente Usa caratterizzerà in modo più netto, in futuro, le sue scelte?
Sulla carta il Presidente USA in carica aspira ad essere diverso dal precedente. Vedremo che cosa sarà capace di fare. Sono un po’ preoccupato per la valanga per le attese che ha attivato. Gli faccio gli auguri più sinceri.
L’Europa: il sistema economico dei singoli paesi ha risentito, chi più chi meno, alla crisi. Da una parte c’è l’Inghilterra, dall’altra la Germania. Ritiene che sia stato fatto abbastanza, finora, per superare le difficoltà?
Non trascurerei la Conferenza Elvetica, i paesi scandinavi e, naturalmente, l’Islanda. Tutti i paesi le cui banche hanno patrimoni in gestione, banche di investimento, o passività che sono state in qualche modo “trattate” sono state colpite dalla crisi. Ogni paese ha cercato di porre in atto le misure che poteva e che gli erano consentite dalle condizioni del bilancio, dal ruolo della Banca centrale, e così via. Ho idea che ancora, sia in USA, che in Europa, che in Italia si dovrà tornare con un mix di misure diverso caso da caso.
L’Italia e la crisi: il governo usa toni rassicuranti, ma il rischio che gli istituti bancari finiscano nel vortice esiste. Un suo parere.
Non scorgo nessuno che usi toni rassicuranti a proposito della crisi. In Italia non sembra vi siano soverchie preoccupazioni per il nostro sistema bancario, ma per il resto ci sono solo motivi di ansietà.
Nei prossimi mesi sui mercati finanziari arriveranno offerte enormi di titoli di stato (tutti i paesi che fanno politiche di deficit spending lo fanno finanziandosi così..) Ci sarà una forte concorrenza tra i vari paesi, e il mercato privilegerà quelli più solidi: Germania, ad esempio, ma anche Usa (nonostante il fortissimo debito pubblico). Pensa che ci troveremo in difficoltà?
L’anno in corso prevede un ricco programma di emissioni, netto e semplici rinnovi, per imprese e Stati. Ci sarà senza dubbio molta concorrenza, ma azzardo a dire che l’Italia non dovrebbe avvertire grandi difficoltà a rinnovare il proprio passivo. In fondo abbiamo l’euro e non la lira e gli equilibri garantiti a livello europeo dovrebbero essere una garanzia per tutti. La riduzione crescente nello spread fra bund e BTP mi sembra sia una ragione in più per non sottovalutare i rischi, ma anche per non farsi prendere da timori ad oggi non motivati.
Fonte: Giornalettismo/Pubblicato da Liberal
C’è chi paragona la crisi al 1929. Secondo lei quanto è credibile il parallelo? Quali sono le somiglianze, e quali le differenze?
Crisi di questo genere non hanno precedenti, in particolare quando si compiono confronti fra realtà che distano ottanta anni. Cerchiamo di fare i conti con la crisi con cui abbiamo a che fare e lasciamo le comparazioni a chi fa storia. Basterà dire che la dimensione, la struttura degli eventi, il quadro istituzionale di riferimento, l’ampiezza, sono oggi del tutto diversi da quelli del 1929.
C’è chi dice che ha fallito l’ideologia del liberismo, e chi risponde che il capitalismo ha ancora “i secoli contati”. Lei da che parte sta?
In proposito non mi sembra utile abbandonarsi alla voglia di giungere a conclusioni troppo generalizzanti su temi che richiederebbero un libro per essere affrontati. Mi limiterei a due notazioni. La prima: il criterio, ovvero, il principio di rispettare il vincolo di bilancio in strutture altamente concorrenziali mi sembra che rappresenti l’unica soluzione per costruire realtà sociali che riescano a combinare crescita e giustizia sociale. La seconda: seguo con atteggiamento distaccato questa discussione sulla “fine del capitalismo”, non perché si tratti di temi che non meritino attenzione, ma perché mi pare che si debba prestare più riguardo alla vitalità del principio della libera impresa, ai mille modi in cui può manifestarsi, ai sistemi comparati diversi che esso può essere in grado di conseguire: il tutto secondo il ruolo che la politica decide di assegnarsi.
E’ possibile vedere in questa crisi un “declino” dell’economia retta dagli Usa come paese-guida? E all’emersione di nuove potenze economiche?
Quello degli USA e della sua economia è un declino atteso. Tutti i futurologi dicono che nell’ultimo quarto del secolo avverrà il sorpasso. Per quanto mi riguarda azzarderei a prevedere che nel nostro secolo emergano “nuove potenze”. Mi fermerei qui, aggiungendo che c’è un ciclo storico che caratterizza ogni civiltà. Questo accadrà anche per gli USA. Sulla natura e la lunghezza del ciclo non avverto alcun bisogno di fare previsioni.
La crisi in atto è uno spartiacque che cambierà la vita, i paradigmi economici e sociali nel prossimo futuro?
Credo che, come per tutte le crisi rilevanti e profonde, anche in questo caso si avranno dei mutamenti. Non sarebbe male che potesse prendere corpo anche una diversa scala di valori sociali. Ma non mi faccio troppe illusioni. Temo che fra quattro o cinque anni il valore preminente tornerà ad essere quello del massimo profitto e che quello della giustizia sociale continuerà ad essere un obiettivo asintotico al quale tutti vorrebbero tendere, ma con scarsa fortuna.
Passiamo ai piani per affrontare l’emergenza. Ritiene che i salvataggi statunitensi e il Tarp siano la strada giusta da perseguire l’obiettivo?
Mi sembra che anche i suoi autori non abbiano certezza alcuna sulla efficacia delle misure che stanno varando. Ma questo dipende dalle ragioni che ho schematizzato nella prima risposta. Tutti sono alla ricerca della misura opportuna, ma temo che tutti stiano cercando di capire le ragioni originarie ed il sistema delle interdipendenze che da esso ne sono derivate.
I primi passi di Obama sono sostanzialmente in linea con quelli della precedente amministrazione. Pensa che il presidente Usa caratterizzerà in modo più netto, in futuro, le sue scelte?
Sulla carta il Presidente USA in carica aspira ad essere diverso dal precedente. Vedremo che cosa sarà capace di fare. Sono un po’ preoccupato per la valanga per le attese che ha attivato. Gli faccio gli auguri più sinceri.
L’Europa: il sistema economico dei singoli paesi ha risentito, chi più chi meno, alla crisi. Da una parte c’è l’Inghilterra, dall’altra la Germania. Ritiene che sia stato fatto abbastanza, finora, per superare le difficoltà?
Non trascurerei la Conferenza Elvetica, i paesi scandinavi e, naturalmente, l’Islanda. Tutti i paesi le cui banche hanno patrimoni in gestione, banche di investimento, o passività che sono state in qualche modo “trattate” sono state colpite dalla crisi. Ogni paese ha cercato di porre in atto le misure che poteva e che gli erano consentite dalle condizioni del bilancio, dal ruolo della Banca centrale, e così via. Ho idea che ancora, sia in USA, che in Europa, che in Italia si dovrà tornare con un mix di misure diverso caso da caso.
L’Italia e la crisi: il governo usa toni rassicuranti, ma il rischio che gli istituti bancari finiscano nel vortice esiste. Un suo parere.
Non scorgo nessuno che usi toni rassicuranti a proposito della crisi. In Italia non sembra vi siano soverchie preoccupazioni per il nostro sistema bancario, ma per il resto ci sono solo motivi di ansietà.
Nei prossimi mesi sui mercati finanziari arriveranno offerte enormi di titoli di stato (tutti i paesi che fanno politiche di deficit spending lo fanno finanziandosi così..) Ci sarà una forte concorrenza tra i vari paesi, e il mercato privilegerà quelli più solidi: Germania, ad esempio, ma anche Usa (nonostante il fortissimo debito pubblico). Pensa che ci troveremo in difficoltà?
L’anno in corso prevede un ricco programma di emissioni, netto e semplici rinnovi, per imprese e Stati. Ci sarà senza dubbio molta concorrenza, ma azzardo a dire che l’Italia non dovrebbe avvertire grandi difficoltà a rinnovare il proprio passivo. In fondo abbiamo l’euro e non la lira e gli equilibri garantiti a livello europeo dovrebbero essere una garanzia per tutti. La riduzione crescente nello spread fra bund e BTP mi sembra sia una ragione in più per non sottovalutare i rischi, ma anche per non farsi prendere da timori ad oggi non motivati.
Fonte: Giornalettismo/Pubblicato da Liberal
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