venerdì 19 dicembre 2008

Islanda: noi, popolo di ipotecati


Di Raffaele Oriani


Li chiamano già «i vecchi tempi». Negli anni migliori c’erano più Range Rover qui che in tutta la Scandinavia.
E per i compleanni dei vichinghi - come avevano ribattezzato gli yuppie delle grandi banche - il regalo preferito era Elton John che intonava happy birthday. Fino a due mesi fa l’unico problema era il rumore dei jet privati in decollo dall’aeroporto cittadino.
L’unica preoccupazione una casa più grande, un Suv più potente, il prossimo week end a Parigi. Ora che le gru sono ferme, le casse vuote e c’è la coda per scappare in Europa, verrebbe da dire che se la sono cercata. Se non fosse che il freddo, l’aria e la neve bianca di Reykjavik sembrano una garanzia di innocenza.
Come il sorriso di Gudny Magnusdottir che ha trentadue anni, cinque figli, è senza lavoro e si è messa in coda anche lei. Invece di lamentarsi va ogni mattina all’ufficio di collocamento, e mentre aspetta il suo turno offre a tutti biscotti alla cannella, cioccolata calda e musica natalizia con lo stereo che ha portato da casa: «Mi hanno licenziata, sono piena di debiti e il prossimo mese dovrò restituire la Skoda Oktavia che ho comprato l’altr’anno». Prende il thermos, versa una tazza anche a noi: «È un momento difficile, ma la mia vita è bella, e non ho paura di niente».

La vita è bella in Islanda. Anche in quest’inverno con quattro ore di luce e un buco da novanta miliardi di euro. Il 6 ottobre scorso il primo ministro Geir Haarde compare in televisione per annunciare che la festa è finita. Peccato: è stato bello spingersi fino a Copenaghen per issare la bandiera dell’isola sui Magasin du nord e l’Hotel d’Angleterre, le due perle commerciali degli ex colonizzatori danesi. Ed è stato bello pensare che i tycoon dei ghiacci potessero mangiarsi i consumatori inglesi della catena di giocattoli Hamleys, dei grandi magazzini Oasis, o addirittura dei supermercati Woolworth: «Per noi è sempre stato vitale muoverci, conoscere nuovi paesi e conquistare nuovi mercati» ci dice lo scrittore Einar Már Gudmundsson. «Basti pensare che nella nostra lingua stupido si dice heimskur, letteralmente “chi resta a casa”».

Peccato: sembrava un viaggio e invece erano debiti, fuffa, illusioni, un volo finanziario che si schianta tra le pernacchie del mondo. La festa è finita, le Range Rover sono ribattezzate game over, gli ultimi bar di lusso «fanno molto 2007» e Ólöf Sigfúsdóttir, antropologa dell’Accademia di Reykjavik, sintetizza con durezza il pensiero di tanti: «Per arricchirsi i nostri banchieri hanno ipotecato il popolo». Non resta che tornare a terra: cent’anni fa erano pareti di legno, tetti di torba e menù di patate. Oggi sono una montagna di debiti che travolgono i trecentomila abitanti dell’isola: «Ho comprato casa un anno fa» ci dice la giornalista Kolfinna Baldvinsdóttir in un italiano impeccabile. «Metà l’ho pagata in contanti, metà con un mutuo. Ad agosto dovevo alla banca dodici milioni di corone, tre mesi dopo sono diventati ventotto». C’è chi la chiama tempesta perfetta, chi terremoto finanziario, Kolfinna preferisce parlare di truffa legalizzata: «Dov’erano le autorità di controllo? Che faceva il nostro governo? Perché non hanno fermato il delirio dei banchieri?». Nell’agosto 2007 Jon Heidar, trasportatore ventinovenne, si compra un furgone con un mutuo di un milione e duecentomila corone: «Un anno dopo si sono ripresi il furgone, ho perso il lavoro, ma il mio debito è cresciuto a un milione e settecentomila corone». Un incubo: la corona perde terreno, ma i debiti sono in euro, dollari e yen. E così più paghi e più devi, più aumenta il valore del mutuo e meno vale il bene per cui ti sei indebitato. Il regista Jon Gustafsson racconta di un amico che sta per vendere casa pur di liberarsi delle ipoteche sul suo Toyota Land Cruiser: «Sono stati anni folli. Io ho studiato in Canada, e quando sono rientrato nel 2005 non ci potevo credere: in città si parlava solo di cilindrate, metri quadri e investimenti azionari». Sarà vero che la vita è bella in Islanda?

Qualcosa non andava già prima. E Björk, il geniale folletto che da Reykjavik ha conquistato le platee più esigenti del mondo, il 28 giugno fa un concerto a cui assiste un islandese su dieci: lo chiama Náttúra perché vuole protestare contro la costruzione di due megaimpianti di produzione di alluminio, e ricordare che c’è anche uno sviluppo diverso, con meno profitto, meno inquinamento, più qualità e più rispetto per l’ambiente dell’isola. Oggi a Io donna dice che la crisi è una chance: «Noi islandesi siamo pochi, e quando finiamo contro il muro ci finiamo tutti assieme. Ma siamo molto determinati, e sappiamo riprenderci in fretta. Spero che useremo questo momento durissimo per mostrare a tutti che si può lavorare diversamente ». Fa male la caduta, ma quel volo andava comunque fermato… «L’Islanda» continua Björk «è stata una colonia danese per oltre seicento anni. Dopo l’indipendenza del 1944 siamo cresciuti in fretta e con troppa ingordigia. Ora è il momento di essere umili e di tornare alle cose più autenticamente islandesi». Molto naturali, supertecnologiche.

Come le coltivazioni molecolari di Orf, azienda leader nella produzione di proteine che dalla crisi di questi mesi ha tutto da guadagnare: «Finalmente anche noi potremo assumere i migliori» ci dice il Ceo Björn Orvar. «Negli ultimi cinque anni i ragazzi più promettenti correvano tutti in banca». O come il Suv di Rósa Halldórsdóttir che invece di arrancare come i gemelli di città tra un caffè e una lezione di yoga corre sulle piste innevate che dal porticciolo di Höfn puntano al Vatnajokull, il ghiacciaio più esteso d’Europa. Qui la vita d’Islanda è bella davvero, a ogni curva tocca spalancare la bocca come bambini incantati, e a ogni sosta incontriamo tipi che farebbero felice Björk: pescatori contenti perché il paese ha di nuovo bisogno di loro («il crollo delle banche è la vendetta del pesce» ci dice un omome che ha appena venduto mille tonnellate d’aringhe), contadini che immaginano lussuose spa e alberghi di nicchia dove oggi l’ultima lingua del ghiacciaio incontra la prima sorgente d’acqua termale («ci vogliono due milioni di euro, ma vedrà che li troviamo»). In compagnia del suo Mitsubishi e dei suoi tre cani siberiani, Rósa Halldórsdóttir perlustra il deserto ghiacciato, mette in rete voci di terra e di mare, promuove progetti per il mercato dell’alimentazione e del turismo. Chissà se intendeva questo Björk quando ci ha detto:
«Sento che possiamo cambiare. Se ci crediamo tutti ce la facciamo di sicuro».

A cambiare pensa anche Kristin Petursdottir, che a Reykjavik è diventata una star perché guida Audur, uno dei pochi istituti finanziari sopravvissuti al ciclone:
«In realtà lavoravo in una delle grandi banche che sono fallite ad ottobre, ma due anni fa mi sono detta che non era per me: come donna non potevo accettare tanta opacità, tanta voglia di bonus e quell’ossessione per i profitti di trimestre in trimestre». Come donna? «Oh, sì. Sono convinta che c’è un modo femminile di stare sul mercato: ai nostri clienti consigliamo di investire in aziende con un futuro, ci siamo sempre tenuti alla larga dai prodotti di pura speculazione». Chissà se intendeva questo Björk dicendo che «quest’emergenza è una notte piena di luci di speranza». Ma intanto sarà notte un bel po’, e bisogna decidere con chi è meglio passarla. La piccola folla che si raduna ogni sabato davanti al Parlamento non ne vuole sapere di tenersi i leader che hanno sfasciato il paese. A guidarli è Hördur Torfason, celebre chansonnier che ha alle spalle trent’anni di scontri per i diritti dei gay d’Islanda. Gli chiediamo se è più dura ora o quando fece il suo clamoroso outing nell’agosto del ‘75. Ci risponde che allora erano una minoranza, oggi sono in piazza per tutti. La folla arriva, ascolta, applaude, si disperde in silenzio nei bar del centro. Lo slogan più gettonato è splendidamente laconico: «Noi protestiamo tutti». Il freddo, l’aria e la neve di Reykjavik sembrano una garanzia che tutti finiranno per rimettersi in piedi.
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Di Raffaele Oriani


Li chiamano già «i vecchi tempi». Negli anni migliori c’erano più Range Rover qui che in tutta la Scandinavia.
E per i compleanni dei vichinghi - come avevano ribattezzato gli yuppie delle grandi banche - il regalo preferito era Elton John che intonava happy birthday. Fino a due mesi fa l’unico problema era il rumore dei jet privati in decollo dall’aeroporto cittadino.
L’unica preoccupazione una casa più grande, un Suv più potente, il prossimo week end a Parigi. Ora che le gru sono ferme, le casse vuote e c’è la coda per scappare in Europa, verrebbe da dire che se la sono cercata. Se non fosse che il freddo, l’aria e la neve bianca di Reykjavik sembrano una garanzia di innocenza.
Come il sorriso di Gudny Magnusdottir che ha trentadue anni, cinque figli, è senza lavoro e si è messa in coda anche lei. Invece di lamentarsi va ogni mattina all’ufficio di collocamento, e mentre aspetta il suo turno offre a tutti biscotti alla cannella, cioccolata calda e musica natalizia con lo stereo che ha portato da casa: «Mi hanno licenziata, sono piena di debiti e il prossimo mese dovrò restituire la Skoda Oktavia che ho comprato l’altr’anno». Prende il thermos, versa una tazza anche a noi: «È un momento difficile, ma la mia vita è bella, e non ho paura di niente».

La vita è bella in Islanda. Anche in quest’inverno con quattro ore di luce e un buco da novanta miliardi di euro. Il 6 ottobre scorso il primo ministro Geir Haarde compare in televisione per annunciare che la festa è finita. Peccato: è stato bello spingersi fino a Copenaghen per issare la bandiera dell’isola sui Magasin du nord e l’Hotel d’Angleterre, le due perle commerciali degli ex colonizzatori danesi. Ed è stato bello pensare che i tycoon dei ghiacci potessero mangiarsi i consumatori inglesi della catena di giocattoli Hamleys, dei grandi magazzini Oasis, o addirittura dei supermercati Woolworth: «Per noi è sempre stato vitale muoverci, conoscere nuovi paesi e conquistare nuovi mercati» ci dice lo scrittore Einar Már Gudmundsson. «Basti pensare che nella nostra lingua stupido si dice heimskur, letteralmente “chi resta a casa”».

Peccato: sembrava un viaggio e invece erano debiti, fuffa, illusioni, un volo finanziario che si schianta tra le pernacchie del mondo. La festa è finita, le Range Rover sono ribattezzate game over, gli ultimi bar di lusso «fanno molto 2007» e Ólöf Sigfúsdóttir, antropologa dell’Accademia di Reykjavik, sintetizza con durezza il pensiero di tanti: «Per arricchirsi i nostri banchieri hanno ipotecato il popolo». Non resta che tornare a terra: cent’anni fa erano pareti di legno, tetti di torba e menù di patate. Oggi sono una montagna di debiti che travolgono i trecentomila abitanti dell’isola: «Ho comprato casa un anno fa» ci dice la giornalista Kolfinna Baldvinsdóttir in un italiano impeccabile. «Metà l’ho pagata in contanti, metà con un mutuo. Ad agosto dovevo alla banca dodici milioni di corone, tre mesi dopo sono diventati ventotto». C’è chi la chiama tempesta perfetta, chi terremoto finanziario, Kolfinna preferisce parlare di truffa legalizzata: «Dov’erano le autorità di controllo? Che faceva il nostro governo? Perché non hanno fermato il delirio dei banchieri?». Nell’agosto 2007 Jon Heidar, trasportatore ventinovenne, si compra un furgone con un mutuo di un milione e duecentomila corone: «Un anno dopo si sono ripresi il furgone, ho perso il lavoro, ma il mio debito è cresciuto a un milione e settecentomila corone». Un incubo: la corona perde terreno, ma i debiti sono in euro, dollari e yen. E così più paghi e più devi, più aumenta il valore del mutuo e meno vale il bene per cui ti sei indebitato. Il regista Jon Gustafsson racconta di un amico che sta per vendere casa pur di liberarsi delle ipoteche sul suo Toyota Land Cruiser: «Sono stati anni folli. Io ho studiato in Canada, e quando sono rientrato nel 2005 non ci potevo credere: in città si parlava solo di cilindrate, metri quadri e investimenti azionari». Sarà vero che la vita è bella in Islanda?

Qualcosa non andava già prima. E Björk, il geniale folletto che da Reykjavik ha conquistato le platee più esigenti del mondo, il 28 giugno fa un concerto a cui assiste un islandese su dieci: lo chiama Náttúra perché vuole protestare contro la costruzione di due megaimpianti di produzione di alluminio, e ricordare che c’è anche uno sviluppo diverso, con meno profitto, meno inquinamento, più qualità e più rispetto per l’ambiente dell’isola. Oggi a Io donna dice che la crisi è una chance: «Noi islandesi siamo pochi, e quando finiamo contro il muro ci finiamo tutti assieme. Ma siamo molto determinati, e sappiamo riprenderci in fretta. Spero che useremo questo momento durissimo per mostrare a tutti che si può lavorare diversamente ». Fa male la caduta, ma quel volo andava comunque fermato… «L’Islanda» continua Björk «è stata una colonia danese per oltre seicento anni. Dopo l’indipendenza del 1944 siamo cresciuti in fretta e con troppa ingordigia. Ora è il momento di essere umili e di tornare alle cose più autenticamente islandesi». Molto naturali, supertecnologiche.

Come le coltivazioni molecolari di Orf, azienda leader nella produzione di proteine che dalla crisi di questi mesi ha tutto da guadagnare: «Finalmente anche noi potremo assumere i migliori» ci dice il Ceo Björn Orvar. «Negli ultimi cinque anni i ragazzi più promettenti correvano tutti in banca». O come il Suv di Rósa Halldórsdóttir che invece di arrancare come i gemelli di città tra un caffè e una lezione di yoga corre sulle piste innevate che dal porticciolo di Höfn puntano al Vatnajokull, il ghiacciaio più esteso d’Europa. Qui la vita d’Islanda è bella davvero, a ogni curva tocca spalancare la bocca come bambini incantati, e a ogni sosta incontriamo tipi che farebbero felice Björk: pescatori contenti perché il paese ha di nuovo bisogno di loro («il crollo delle banche è la vendetta del pesce» ci dice un omome che ha appena venduto mille tonnellate d’aringhe), contadini che immaginano lussuose spa e alberghi di nicchia dove oggi l’ultima lingua del ghiacciaio incontra la prima sorgente d’acqua termale («ci vogliono due milioni di euro, ma vedrà che li troviamo»). In compagnia del suo Mitsubishi e dei suoi tre cani siberiani, Rósa Halldórsdóttir perlustra il deserto ghiacciato, mette in rete voci di terra e di mare, promuove progetti per il mercato dell’alimentazione e del turismo. Chissà se intendeva questo Björk quando ci ha detto:
«Sento che possiamo cambiare. Se ci crediamo tutti ce la facciamo di sicuro».

A cambiare pensa anche Kristin Petursdottir, che a Reykjavik è diventata una star perché guida Audur, uno dei pochi istituti finanziari sopravvissuti al ciclone:
«In realtà lavoravo in una delle grandi banche che sono fallite ad ottobre, ma due anni fa mi sono detta che non era per me: come donna non potevo accettare tanta opacità, tanta voglia di bonus e quell’ossessione per i profitti di trimestre in trimestre». Come donna? «Oh, sì. Sono convinta che c’è un modo femminile di stare sul mercato: ai nostri clienti consigliamo di investire in aziende con un futuro, ci siamo sempre tenuti alla larga dai prodotti di pura speculazione». Chissà se intendeva questo Björk dicendo che «quest’emergenza è una notte piena di luci di speranza». Ma intanto sarà notte un bel po’, e bisogna decidere con chi è meglio passarla. La piccola folla che si raduna ogni sabato davanti al Parlamento non ne vuole sapere di tenersi i leader che hanno sfasciato il paese. A guidarli è Hördur Torfason, celebre chansonnier che ha alle spalle trent’anni di scontri per i diritti dei gay d’Islanda. Gli chiediamo se è più dura ora o quando fece il suo clamoroso outing nell’agosto del ‘75. Ci risponde che allora erano una minoranza, oggi sono in piazza per tutti. La folla arriva, ascolta, applaude, si disperde in silenzio nei bar del centro. Lo slogan più gettonato è splendidamente laconico: «Noi protestiamo tutti». Il freddo, l’aria e la neve di Reykjavik sembrano una garanzia che tutti finiranno per rimettersi in piedi.

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