giovedì 19 dicembre 2019

La mafia è il vero nemico del Mezzogiorno!

Un dibattito che infiamma gli animi: la mafia esisteva prima dell’Unità d’Italia o ha fatto la sua comparsa dopo?
In prossimità della tappa siciliana del “Laboratorio Sud”, organizzato da Left e transform! italia, con l’appuntamento di Catania del prossimo 20 Dicembre 2019, prima di proseguire il suo tour l’anno prossimo in altre Regioni del Sud ove esplorerà le svariate problematiche che attanagliano le nostre Regioni meridionali, analizziamo in questo articolo le radici di una delle principali cause della “Nuova Questione Meridionale”, la mafia o forse sarebbe meglio definirle le mafie, da sempre principali ostacolo della rinascita del Mezzogiorno. Mafie da debellare in un Sud che da sempre resiste ed una Sicilia che, come da titolo della tappa di Catania, “non si arrende” alle loro prevaricazioni.
Di Giovanni Maniscalco 
L’argomento, al di là delle discussioni sui social network che testimoniano un interesse sempre vivo e che coincidono che il revisionismo storico che negli ultimi anni ha portato il Sud Italia ad andare al di là delle verità ufficiali sul periodo del Risorgimento, è stato oggetto di studio da parte di molti storici e intellettuali siciliani. Ma non solo. Proprio sui media viene ricordata una intervista a Rocco Chinnici (magistrato ucciso con auto bomba): “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismodobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”.
Cosa voleva dire il fondatore del pool antimafia, che prima dell’Unità non c’era criminalità in Sicilia? Certamente no. Con ogni probabilità, voleva dire, e questo coinciderebbe con le analisi di tanti studiosi, che la mafia, così come l’abbiamo conosciuta, ha preso forma dopo il processo unitario. Che prima di allora c’erano  certamente esempi di prepotenza criminosa, ma non si poteva parlare di mafia intesa come organizzazione socio-politica. Non era neanche una prerogativa solo siciliana: nei Promessi sposi, Manzoni descrive personaggi che non è difficile oggi etichettare come ‘mafiosi’ ed è un romanzo storico e come tale ritrae la società milanese del 1600.
Tornando ai fatti risorgimentali, è nota l’alleanza tra Garibaldi e i picciotti siciliani, l’eccidio di Bronte ne è la prova più eclatante, e lo stesso Garibaldi scrisse nel suo diario:“E Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta, 11 maggio 1860”.
Insomma, come scrive Valerio Rizzo (storico), “non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, in quanto già esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale. Forse ciò che non si accetta è il fatto che tali germi siano stati innaffiati
Bene ha fatto  Ghezzi(storico) a ricordare la figura di Garibaldi. Ed io , anzi penso che noi di Garibaldi conosciamo ancora molto poco. Dovremmo saperne di più. Ciò che sappiamo di positivo e che è emerso molto bene nella relazione di Ghezzi, è soltanto un aspetto di questo eroe, di questo grande della Patria. Ma quello che dovremo conoscere è anche per quale motivo il progetto garibaldino dell’impresa dello Stato nazionale nel Mezzogiorno sia fallito.
Perché fallì allora e continua a fallire ancora oggi. C’è una spiegazione storica. Una è la mafia, ma non la sola che possa giustificare la condizione di insufficienza del Mezzogiorno rispetto alla storia nazionale e alle necessità che lo Stato ha di essere più avanzato, europeo. Cosa che di fatto non avviene.
Chi sono realmente i Mille? Ragazzi che si alzano una mattina e si imbarcano per fare la guerra ai Borbone? Sono giovani senza arte né parte? Militanti di circoli culturali? Hanno tutto l’ottimismo dei giovani, ma anche una visione letteraria della Sicilia. Per loro, questa, è la terra di Omero, di Ulisse, dei naufraghi di Troia. E’ la terra dei vulcani e dei Ciclopi, di Scilla e di Cariddi, della maga Circe e del canto irresistibile delle Sirene. E’ la terra dove Goethe cercava la bellezza, i colori, la classicità. Certamente sono ragazzi sui vent’anni, molto giovani, animati da un forte spirito patriottico. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è se siano realmente consapevoli di quello che stanno facendo. Giovani come Ippolito Nievo, Giuseppe Bandi, Giuseppe Cesare Abba ed altri, ad un certo punto della loro impresa, si imbattono in situazioni che non sempre capiscono appieno o per le quali non sembrano mostrare un grande interesse. Mi riferisco, ad esempio, all’Editto garibaldino con il quale si concedono ai contadini le terre a condizione che si mettano al seguito delle battaglie che l’eroe dei due Mondi sta conducendo per liberare l’Italia. I contadini credono a quello che dice loro Garibaldi. Si mettono al suo seguito. Ma quando cominciano a rivendicare il loro diritto alla terra sono fucilati sotto i colpi dei plotoni di esecuzione di Nino Bixio. Cosa succede veramente?
Come dice Verga ci sono due visioni e due interpretazioni della libertà. Per i contadini è una cosa, per i baroni un’altra. I fatti di Bronte sono lo spartiacque di questa divaricazione. Bixio che cosa fa? Sceglie. Nella sua visione i contadini senza terra sono un ostacolo. Sceglie i baroni. Ci mette, con questa sua decisione, in condizione di capire che alla base della spedizione dei Mille c’è una vocazione di classe. Tendenzialmente borghese, come nello spirito repubblicano, ma di fatto, nello specifico della condizione meridionale, aristocratica. I fatti di Bronte ci dimostrano, se ci fossero ancora dubbi, che la rivoluzione del 1860, come dell’intero Risorgimento nazionale, fu al centro-Nord un processo di riscossa borghese, ma al Sud ebbe i caratteri di una reazione conservatrice e sanguinaria, filo aristocratica. Da qui cominciano le due Italie. E poco conta che a sostenere l’aristocrazia feudale fossero i filoborbonici o alcune forze legate al nascente Stato unitario. Tolti i Borbone e subentrati i Piemontesi, non ci fu nel Mezzogiorno un ribaltamento di classi sociali. I ricchi rimasero ricchi e i poveri, cioè i contadini, i mezzadri, i braccianti, i giornalieri, tornarono ad essere fatalmente più poveri. La struttura sociale feudale non mutò di una virgola. La questione è, dunque, questa. Cosa ha significato l’Unità d’Italia nelle azioni delle classi che l’hanno dominata e governata? Cosa ha rappresentato il mito dietro il quale si nascondeva qualcosa di diverso e di oscuro rispetto al semplice nazionalismo? 
Durante il fascismo la mafia continuò ad esistere e si trasformò. Non fu debellata, come racconta Cesare Mori, il “Prefetto di ferro”. Mori fece una lotta accanita contro il brigantaggio ma non contro i mafiosi che stavano dentro le Prefetture, le Questure, i palazzi dei Municipi, formando delle consorterie. Fece una guerra ai “pesci piccoli”. Quando arrivò ai “pesci grossi” lo stesso Mussolini lo fece destituire.
Dunque, la mafia la fa da padrona con uno Stato che è dall’altra parte della barricata. Gli Alleati, al loro arrivo in Sicilia, nel 1943, trovano questo fenomeno tutt’altro che debellato, e si chiedono il motivo per il quale in varie realtà esso sia abbastanza radicato. Non trovano più la mafia  del primissimo Novecento, ma la nuova mafia ricostruita tutta per intero sotto il fascismo, rafforzatasi nelle sue connessioni con il potere, soprattutto nelle grandi città. Una mafia solida, tanto che gli alleati la notano, la registrano, ne parlano nei loro rapporti. Ad esempio il capitano dell’Oss(servizio segreto inglese) Scotten la descrive minutamente e mette in rilievo il pericolo che rappresenta. Alla fine non può fare altro che  proporre al governo britannico una pacifica convivenza. La spia conosce la Sicilia, ci vive, ha le idee chiare e annota: “La mafia è un sistema di racket politico ai piani alti e di tipo criminale ai bassi livelli”. Ma anche: “La popolazione siciliana non crede che i Carabinieri o gli altri corpi di Polizia siano in grado di affrontare la mafia. Li ritiene corrotti, deboli e, in molti casi, in combutta con la stessa mafia”. Questo pensiero, di quella epoca, non esiste più nella mente dei Siciliani
Negli anni del dopo guerra in poi si è affermato un blocco di potere politico-mafioso-burocratico ed imprenditoriale che si è sempre più rafforzato utilizzando l’autonomia della regione Sicilia  e con il disinteresse, spesso complice, dei governi nazionali. Ma nonostante le difficoltà e le tragicità che presentano la lotta alla mafia, la maggioranza dei Siciliani crede che la mafia può e deve essere sconfitta, non dimenticando che si è opposto, (Magistrati; Forze di Polizia; Uomini Politici; Più di 40 Sindacalisti fra il 1944/48; Giornalisti; Imprenditori; Pubblici dipendenti; Lavoratori; ecc.)  per affermare i principi della democrazia, dei diritti dei cittadini e dei lavoratori, è stato ucciso dai killer mafiosi. La Sicilia e l’intero Mezzogiorno ha pagato un enorme tributo di sangue versato dai sui figli migliori per cercare di sconfiggere la bestia mafiosa. Questo tributo non è mai messo in particolare evidenza da media e politici, quasi a voler confermare stereotipi e discriminazioni. Solo sradicando le mafie che depredano ed insanguinano da decenni la Sicilia, il Sud e l’intero Paese può ripartire. 
Ecco perché è giusto dire che le mafie sono il vero nemico del Mezzogiorno, da combattere uniti e da debellare quanto prima.

Fonte: Transform






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Un dibattito che infiamma gli animi: la mafia esisteva prima dell’Unità d’Italia o ha fatto la sua comparsa dopo?
In prossimità della tappa siciliana del “Laboratorio Sud”, organizzato da Left e transform! italia, con l’appuntamento di Catania del prossimo 20 Dicembre 2019, prima di proseguire il suo tour l’anno prossimo in altre Regioni del Sud ove esplorerà le svariate problematiche che attanagliano le nostre Regioni meridionali, analizziamo in questo articolo le radici di una delle principali cause della “Nuova Questione Meridionale”, la mafia o forse sarebbe meglio definirle le mafie, da sempre principali ostacolo della rinascita del Mezzogiorno. Mafie da debellare in un Sud che da sempre resiste ed una Sicilia che, come da titolo della tappa di Catania, “non si arrende” alle loro prevaricazioni.
Di Giovanni Maniscalco 
L’argomento, al di là delle discussioni sui social network che testimoniano un interesse sempre vivo e che coincidono che il revisionismo storico che negli ultimi anni ha portato il Sud Italia ad andare al di là delle verità ufficiali sul periodo del Risorgimento, è stato oggetto di studio da parte di molti storici e intellettuali siciliani. Ma non solo. Proprio sui media viene ricordata una intervista a Rocco Chinnici (magistrato ucciso con auto bomba): “Prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismodobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”.
Cosa voleva dire il fondatore del pool antimafia, che prima dell’Unità non c’era criminalità in Sicilia? Certamente no. Con ogni probabilità, voleva dire, e questo coinciderebbe con le analisi di tanti studiosi, che la mafia, così come l’abbiamo conosciuta, ha preso forma dopo il processo unitario. Che prima di allora c’erano  certamente esempi di prepotenza criminosa, ma non si poteva parlare di mafia intesa come organizzazione socio-politica. Non era neanche una prerogativa solo siciliana: nei Promessi sposi, Manzoni descrive personaggi che non è difficile oggi etichettare come ‘mafiosi’ ed è un romanzo storico e come tale ritrae la società milanese del 1600.
Tornando ai fatti risorgimentali, è nota l’alleanza tra Garibaldi e i picciotti siciliani, l’eccidio di Bronte ne è la prova più eclatante, e lo stesso Garibaldi scrisse nel suo diario:“E Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta, 11 maggio 1860”.
Insomma, come scrive Valerio Rizzo (storico), “non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, in quanto già esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale. Forse ciò che non si accetta è il fatto che tali germi siano stati innaffiati
Bene ha fatto  Ghezzi(storico) a ricordare la figura di Garibaldi. Ed io , anzi penso che noi di Garibaldi conosciamo ancora molto poco. Dovremmo saperne di più. Ciò che sappiamo di positivo e che è emerso molto bene nella relazione di Ghezzi, è soltanto un aspetto di questo eroe, di questo grande della Patria. Ma quello che dovremo conoscere è anche per quale motivo il progetto garibaldino dell’impresa dello Stato nazionale nel Mezzogiorno sia fallito.
Perché fallì allora e continua a fallire ancora oggi. C’è una spiegazione storica. Una è la mafia, ma non la sola che possa giustificare la condizione di insufficienza del Mezzogiorno rispetto alla storia nazionale e alle necessità che lo Stato ha di essere più avanzato, europeo. Cosa che di fatto non avviene.
Chi sono realmente i Mille? Ragazzi che si alzano una mattina e si imbarcano per fare la guerra ai Borbone? Sono giovani senza arte né parte? Militanti di circoli culturali? Hanno tutto l’ottimismo dei giovani, ma anche una visione letteraria della Sicilia. Per loro, questa, è la terra di Omero, di Ulisse, dei naufraghi di Troia. E’ la terra dei vulcani e dei Ciclopi, di Scilla e di Cariddi, della maga Circe e del canto irresistibile delle Sirene. E’ la terra dove Goethe cercava la bellezza, i colori, la classicità. Certamente sono ragazzi sui vent’anni, molto giovani, animati da un forte spirito patriottico. Ma la domanda che ci dobbiamo fare è se siano realmente consapevoli di quello che stanno facendo. Giovani come Ippolito Nievo, Giuseppe Bandi, Giuseppe Cesare Abba ed altri, ad un certo punto della loro impresa, si imbattono in situazioni che non sempre capiscono appieno o per le quali non sembrano mostrare un grande interesse. Mi riferisco, ad esempio, all’Editto garibaldino con il quale si concedono ai contadini le terre a condizione che si mettano al seguito delle battaglie che l’eroe dei due Mondi sta conducendo per liberare l’Italia. I contadini credono a quello che dice loro Garibaldi. Si mettono al suo seguito. Ma quando cominciano a rivendicare il loro diritto alla terra sono fucilati sotto i colpi dei plotoni di esecuzione di Nino Bixio. Cosa succede veramente?
Come dice Verga ci sono due visioni e due interpretazioni della libertà. Per i contadini è una cosa, per i baroni un’altra. I fatti di Bronte sono lo spartiacque di questa divaricazione. Bixio che cosa fa? Sceglie. Nella sua visione i contadini senza terra sono un ostacolo. Sceglie i baroni. Ci mette, con questa sua decisione, in condizione di capire che alla base della spedizione dei Mille c’è una vocazione di classe. Tendenzialmente borghese, come nello spirito repubblicano, ma di fatto, nello specifico della condizione meridionale, aristocratica. I fatti di Bronte ci dimostrano, se ci fossero ancora dubbi, che la rivoluzione del 1860, come dell’intero Risorgimento nazionale, fu al centro-Nord un processo di riscossa borghese, ma al Sud ebbe i caratteri di una reazione conservatrice e sanguinaria, filo aristocratica. Da qui cominciano le due Italie. E poco conta che a sostenere l’aristocrazia feudale fossero i filoborbonici o alcune forze legate al nascente Stato unitario. Tolti i Borbone e subentrati i Piemontesi, non ci fu nel Mezzogiorno un ribaltamento di classi sociali. I ricchi rimasero ricchi e i poveri, cioè i contadini, i mezzadri, i braccianti, i giornalieri, tornarono ad essere fatalmente più poveri. La struttura sociale feudale non mutò di una virgola. La questione è, dunque, questa. Cosa ha significato l’Unità d’Italia nelle azioni delle classi che l’hanno dominata e governata? Cosa ha rappresentato il mito dietro il quale si nascondeva qualcosa di diverso e di oscuro rispetto al semplice nazionalismo? 
Durante il fascismo la mafia continuò ad esistere e si trasformò. Non fu debellata, come racconta Cesare Mori, il “Prefetto di ferro”. Mori fece una lotta accanita contro il brigantaggio ma non contro i mafiosi che stavano dentro le Prefetture, le Questure, i palazzi dei Municipi, formando delle consorterie. Fece una guerra ai “pesci piccoli”. Quando arrivò ai “pesci grossi” lo stesso Mussolini lo fece destituire.
Dunque, la mafia la fa da padrona con uno Stato che è dall’altra parte della barricata. Gli Alleati, al loro arrivo in Sicilia, nel 1943, trovano questo fenomeno tutt’altro che debellato, e si chiedono il motivo per il quale in varie realtà esso sia abbastanza radicato. Non trovano più la mafia  del primissimo Novecento, ma la nuova mafia ricostruita tutta per intero sotto il fascismo, rafforzatasi nelle sue connessioni con il potere, soprattutto nelle grandi città. Una mafia solida, tanto che gli alleati la notano, la registrano, ne parlano nei loro rapporti. Ad esempio il capitano dell’Oss(servizio segreto inglese) Scotten la descrive minutamente e mette in rilievo il pericolo che rappresenta. Alla fine non può fare altro che  proporre al governo britannico una pacifica convivenza. La spia conosce la Sicilia, ci vive, ha le idee chiare e annota: “La mafia è un sistema di racket politico ai piani alti e di tipo criminale ai bassi livelli”. Ma anche: “La popolazione siciliana non crede che i Carabinieri o gli altri corpi di Polizia siano in grado di affrontare la mafia. Li ritiene corrotti, deboli e, in molti casi, in combutta con la stessa mafia”. Questo pensiero, di quella epoca, non esiste più nella mente dei Siciliani
Negli anni del dopo guerra in poi si è affermato un blocco di potere politico-mafioso-burocratico ed imprenditoriale che si è sempre più rafforzato utilizzando l’autonomia della regione Sicilia  e con il disinteresse, spesso complice, dei governi nazionali. Ma nonostante le difficoltà e le tragicità che presentano la lotta alla mafia, la maggioranza dei Siciliani crede che la mafia può e deve essere sconfitta, non dimenticando che si è opposto, (Magistrati; Forze di Polizia; Uomini Politici; Più di 40 Sindacalisti fra il 1944/48; Giornalisti; Imprenditori; Pubblici dipendenti; Lavoratori; ecc.)  per affermare i principi della democrazia, dei diritti dei cittadini e dei lavoratori, è stato ucciso dai killer mafiosi. La Sicilia e l’intero Mezzogiorno ha pagato un enorme tributo di sangue versato dai sui figli migliori per cercare di sconfiggere la bestia mafiosa. Questo tributo non è mai messo in particolare evidenza da media e politici, quasi a voler confermare stereotipi e discriminazioni. Solo sradicando le mafie che depredano ed insanguinano da decenni la Sicilia, il Sud e l’intero Paese può ripartire. 
Ecco perché è giusto dire che le mafie sono il vero nemico del Mezzogiorno, da combattere uniti e da debellare quanto prima.

Fonte: Transform






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