giovedì 3 settembre 2015

SUD CUORE IMMENSO


Di Antonio Rosato

Novembre 1943, la feroce battaglia sulla linea GUSTAV assume aspetti che Dante avrebbe potuto descrivere solo aggiungendo un girone in più nell’Inferno della sua divina commedia, il girone peggiore, quello più crudele e zeppo di sofferenze inenarrabili forse. 

Fortificazioni tedesche ben congeniate e alleati dall’altra parte del Garigliano convinti di sfondare si giocano la crudele partita a suon di assalti e bombardamenti incessanti via mare, terra e aria. Al centro la popolazione civile, ignara e ottenebrata dagli eventi al centro della disputa. Perlopiù vecchi donne e bambini perché gli uomini in salute sono chi al fronte, chi prigioniero nei vari campi di lavoro o concentramento sparsi in giro per il mondo. 

Manca cibo, manca acqua potabile. Le bestie quali requisite per soddisfare le esigenze alimentari dei tedeschi, quali cadute sotto le bombe assieme ai loro padroni. Fame e freddo sono solo un contorno alle sofferenze dei feriti, mutilati o morti sotto gli attacchi. Ricoveri non ve ne sono, ne tantomeno ripari poiché il 100% delle abitazioni in alcuni comuni come Castelforte e San Cosma e Damiano sono state abbattute dai bombardamenti. Gli altri invece, quelle donne e bambini o anziani graziati da quella mano invisibile che ha deviato quella scheggia o quella raffica, si porteranno per il resto della vita  fino alla tomba danni psicologici mai sanati. Giorni e giorni senza dormire, e notti illuminate a giorno dai traccianti o dalle granate. Lacrime non se ne versano più, finite da tempo,  e i bambini, quando i bombardamenti erano meno fitti o si spostavano sulle montagne, giocavano tra le macerie con la neve caduta copiosa o i resti delle granate, e spesso anche inesplose o esplose tra piccole ed innocenti  mani che hanno come unica colpa quella di essere venuti al mondo negli anni sbagliati.
Ma dopo mesi e mesi insonni, mangiando erba destinate solitamente alle capre, sradicata tra i muri o nei fossi in paese, perchè fuori paese i campi minati non permettevano di andare, e rassegnati alla morte, arriva la speranza di salvezza. Sotto i bombardamenti vengono sfilati gli abitanti per portarli la dove la guerra non c’è. Mia nonna mi raccontava sempre di quella notte. 

Mio zio che appena camminava e mio padre di pochi giorni  nato sotto i bombardamenti del 23 dicembre del “43 legato con una sciarpa dietro le spalle, si incamminarono assieme ad altre persone. Con gli occhi ancora pieni di terrore e sgranati come se fosse stato ieri mi narrava di quando per non inciampare sulle mine a strappo passavano sui morti del Rio Ravi. Senza scarpe e senza bagagli. Mettendo i piedi uno dietro l’altro sui morti perchè il passaggio era più sicuro. Spesso, senza toccare terra per metri e metri. Giorni di cammino, e poi i camion. Salirono su senza neanche sapere la destinazione, senza chiedere, senza cibo acqua e con l’unico bagaglio al seguito quello della speranza.

La guerra oramai era alle spalle anche se i fischi delle granate e dei proiettili ancora restavano nelle orecchie. Ad essere sincero penso che questi non siano mai andati via e sia poi invecchiata con questi sibili nelle  orecchie e nella testa, solo che non ne parlava, ma sicuramente ci conviveva. I mezzi diretti a sud, quel profondo sud che Lei non aveva mai ne visto nè visitato. Quel Sud meraviglioso che ha accolto questi sfollati a braccia aperte. Lei nello specifico fu destinata assieme ad altre famiglie in quel di CARBONE in provincia di Potenza. Furono accolti con pane appositamente sfornato e formaggio. Sapori oramai dimenticati da mesi. Mi racconta di compaesani che appena messo il primo boccone in bocca hanno dato di stomaco perche vuoto da troppi giorni e non più abituato a ricevere cibo. Ogni famiglia di Carbone, ma cosi anche a Castrovillari, Cittanova, Maratea etc, aprirono le porte di casa a questi profughi di guerra. Profughi definiti allora SFOLLATI.

Ridotti a poco più che ruderi umani, dove non si capiva se la pelle era osso o ancora poteva definirsi pelle, entrarono in una casa vera dopo mesi. Casa aperta e messa a disposizione di persone sconosciute. Cose che solo al Sud forse possono accadere. La gara di solidarietà in paese fu commovente, con scene da da libro “Cuore”. Latte per i bambini, uova e maccheroni fatti in casa, cotti sul fuoco del camino. Quel fuoco che emanava non calore, ma amore. 

Quell’amore meridionale che abbiamo nel sangue. Da noi l’ospite ancora oggi è sacro.  Queste persone erano sfortunate, erano sfollati come i Siriani oggi. E si parlava con i propri figli mettendoli al corrente che da quella sera avrebbero diviso la stanza con un bambino bisognoso, più sfortunato di loro, per questo bisognava stringersi un pochettino di più e condividere tutto. 

Scarpe nuove e vestiti per i bambini “SFOLLATI” e per le mamme. Un letto, cibo e il caldo di una casa. Tutto questo, pensate, senza chiedere nulla in cambio e spessissimo senza neanche capirsi perché i dialetti erano troppo diversi e non tutti conoscevano l’italiano imposto 60 anni prima. Sfollati, cosi si chiamavano. 

Ma oggi il sud non ha perso quel grande cuore e quell’amore che ha verso l’essere umano e per il prossimo. Anche oggi il nostro meridione strappa dall’acqua quei migranti disperati provenienti chi sa da dove. Sulle coste siciliane non si chiede il passaporto, quelle sono cose per buracrati senza faccia e senza cuore. Ma si offre una coperta per scaldarsi, o un paio di ciabatte. Non si chiede al bambino da dove viene, ma gli si offre il cartone di latte e qualche biscotto. Non siamo come alcuni governanti gelidi e senza cuore del nord italia e nord europa. Noi siamo il sud. Che si chiamino sfollati, o profughi, o migranti a noi non interessa. Ho visto in Tv donne meridionali piangere, commosse dalle condizioni e dai racconti di quella povera gente che qualcuno invece vorrebbe affondare a mare. 

Ho visto anziani portare dei panini e vestitini dismessi dei nipotini. Senza chiedere nulla in cambio, come nel “44. E il cuore che è diverso, la sensibilità verso il prossimo, di cui ne vado fiero, che è diversa. Mai nessuno si sognerebbe nel nostro sud di costruire muri o barricate. Nessuno si sognerebbe di tatuare su un braccio un numero. Nessuno si preoccuperebbe di innalzare barriere di filo spinato o far rincorrere dai cani i migranti. Noi siamo il sud, cosi diverso, cosi civile, cosi solidale e cosi ospitale. Non ci importa il colore della pelle, nè il passaporto. 

E mentre nei palazzi Europei in francese o in inglese non si prendono decisioni, da noi al sud senza capirsi , senza conoscere l’arabo o il francese si aiutano queste persone a prescindere da ogni altra considerazione. Si porge la mano verso  il mare e si tira fuori quell’essere spaventato e indifeso che in quel momento ha bisogno. Questo è il nostro sud, e ne vado fiero e orgoglioso. Mentre ad altre latitudini politivi e faccendieri si accapigliano nei palazzi facendo a gara a chi è più razzista,noi siamo diversi da sempre. E la storia lo dice. Vorrei concludere questo mio post con delle parole prese in prestito da un grandissimo meridionale, Totò. 
Parole che vorrei dedicare a quelli che fanno barricate o vorrebbero bombardare i barconi. Parole però, che forse solo noi riusciamo seriamente a comprendere e farle nostre nell’animo:


“Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"



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Di Antonio Rosato

Novembre 1943, la feroce battaglia sulla linea GUSTAV assume aspetti che Dante avrebbe potuto descrivere solo aggiungendo un girone in più nell’Inferno della sua divina commedia, il girone peggiore, quello più crudele e zeppo di sofferenze inenarrabili forse. 

Fortificazioni tedesche ben congeniate e alleati dall’altra parte del Garigliano convinti di sfondare si giocano la crudele partita a suon di assalti e bombardamenti incessanti via mare, terra e aria. Al centro la popolazione civile, ignara e ottenebrata dagli eventi al centro della disputa. Perlopiù vecchi donne e bambini perché gli uomini in salute sono chi al fronte, chi prigioniero nei vari campi di lavoro o concentramento sparsi in giro per il mondo. 

Manca cibo, manca acqua potabile. Le bestie quali requisite per soddisfare le esigenze alimentari dei tedeschi, quali cadute sotto le bombe assieme ai loro padroni. Fame e freddo sono solo un contorno alle sofferenze dei feriti, mutilati o morti sotto gli attacchi. Ricoveri non ve ne sono, ne tantomeno ripari poiché il 100% delle abitazioni in alcuni comuni come Castelforte e San Cosma e Damiano sono state abbattute dai bombardamenti. Gli altri invece, quelle donne e bambini o anziani graziati da quella mano invisibile che ha deviato quella scheggia o quella raffica, si porteranno per il resto della vita  fino alla tomba danni psicologici mai sanati. Giorni e giorni senza dormire, e notti illuminate a giorno dai traccianti o dalle granate. Lacrime non se ne versano più, finite da tempo,  e i bambini, quando i bombardamenti erano meno fitti o si spostavano sulle montagne, giocavano tra le macerie con la neve caduta copiosa o i resti delle granate, e spesso anche inesplose o esplose tra piccole ed innocenti  mani che hanno come unica colpa quella di essere venuti al mondo negli anni sbagliati.
Ma dopo mesi e mesi insonni, mangiando erba destinate solitamente alle capre, sradicata tra i muri o nei fossi in paese, perchè fuori paese i campi minati non permettevano di andare, e rassegnati alla morte, arriva la speranza di salvezza. Sotto i bombardamenti vengono sfilati gli abitanti per portarli la dove la guerra non c’è. Mia nonna mi raccontava sempre di quella notte. 

Mio zio che appena camminava e mio padre di pochi giorni  nato sotto i bombardamenti del 23 dicembre del “43 legato con una sciarpa dietro le spalle, si incamminarono assieme ad altre persone. Con gli occhi ancora pieni di terrore e sgranati come se fosse stato ieri mi narrava di quando per non inciampare sulle mine a strappo passavano sui morti del Rio Ravi. Senza scarpe e senza bagagli. Mettendo i piedi uno dietro l’altro sui morti perchè il passaggio era più sicuro. Spesso, senza toccare terra per metri e metri. Giorni di cammino, e poi i camion. Salirono su senza neanche sapere la destinazione, senza chiedere, senza cibo acqua e con l’unico bagaglio al seguito quello della speranza.

La guerra oramai era alle spalle anche se i fischi delle granate e dei proiettili ancora restavano nelle orecchie. Ad essere sincero penso che questi non siano mai andati via e sia poi invecchiata con questi sibili nelle  orecchie e nella testa, solo che non ne parlava, ma sicuramente ci conviveva. I mezzi diretti a sud, quel profondo sud che Lei non aveva mai ne visto nè visitato. Quel Sud meraviglioso che ha accolto questi sfollati a braccia aperte. Lei nello specifico fu destinata assieme ad altre famiglie in quel di CARBONE in provincia di Potenza. Furono accolti con pane appositamente sfornato e formaggio. Sapori oramai dimenticati da mesi. Mi racconta di compaesani che appena messo il primo boccone in bocca hanno dato di stomaco perche vuoto da troppi giorni e non più abituato a ricevere cibo. Ogni famiglia di Carbone, ma cosi anche a Castrovillari, Cittanova, Maratea etc, aprirono le porte di casa a questi profughi di guerra. Profughi definiti allora SFOLLATI.

Ridotti a poco più che ruderi umani, dove non si capiva se la pelle era osso o ancora poteva definirsi pelle, entrarono in una casa vera dopo mesi. Casa aperta e messa a disposizione di persone sconosciute. Cose che solo al Sud forse possono accadere. La gara di solidarietà in paese fu commovente, con scene da da libro “Cuore”. Latte per i bambini, uova e maccheroni fatti in casa, cotti sul fuoco del camino. Quel fuoco che emanava non calore, ma amore. 

Quell’amore meridionale che abbiamo nel sangue. Da noi l’ospite ancora oggi è sacro.  Queste persone erano sfortunate, erano sfollati come i Siriani oggi. E si parlava con i propri figli mettendoli al corrente che da quella sera avrebbero diviso la stanza con un bambino bisognoso, più sfortunato di loro, per questo bisognava stringersi un pochettino di più e condividere tutto. 

Scarpe nuove e vestiti per i bambini “SFOLLATI” e per le mamme. Un letto, cibo e il caldo di una casa. Tutto questo, pensate, senza chiedere nulla in cambio e spessissimo senza neanche capirsi perché i dialetti erano troppo diversi e non tutti conoscevano l’italiano imposto 60 anni prima. Sfollati, cosi si chiamavano. 

Ma oggi il sud non ha perso quel grande cuore e quell’amore che ha verso l’essere umano e per il prossimo. Anche oggi il nostro meridione strappa dall’acqua quei migranti disperati provenienti chi sa da dove. Sulle coste siciliane non si chiede il passaporto, quelle sono cose per buracrati senza faccia e senza cuore. Ma si offre una coperta per scaldarsi, o un paio di ciabatte. Non si chiede al bambino da dove viene, ma gli si offre il cartone di latte e qualche biscotto. Non siamo come alcuni governanti gelidi e senza cuore del nord italia e nord europa. Noi siamo il sud. Che si chiamino sfollati, o profughi, o migranti a noi non interessa. Ho visto in Tv donne meridionali piangere, commosse dalle condizioni e dai racconti di quella povera gente che qualcuno invece vorrebbe affondare a mare. 

Ho visto anziani portare dei panini e vestitini dismessi dei nipotini. Senza chiedere nulla in cambio, come nel “44. E il cuore che è diverso, la sensibilità verso il prossimo, di cui ne vado fiero, che è diversa. Mai nessuno si sognerebbe nel nostro sud di costruire muri o barricate. Nessuno si sognerebbe di tatuare su un braccio un numero. Nessuno si preoccuperebbe di innalzare barriere di filo spinato o far rincorrere dai cani i migranti. Noi siamo il sud, cosi diverso, cosi civile, cosi solidale e cosi ospitale. Non ci importa il colore della pelle, nè il passaporto. 

E mentre nei palazzi Europei in francese o in inglese non si prendono decisioni, da noi al sud senza capirsi , senza conoscere l’arabo o il francese si aiutano queste persone a prescindere da ogni altra considerazione. Si porge la mano verso  il mare e si tira fuori quell’essere spaventato e indifeso che in quel momento ha bisogno. Questo è il nostro sud, e ne vado fiero e orgoglioso. Mentre ad altre latitudini politivi e faccendieri si accapigliano nei palazzi facendo a gara a chi è più razzista,noi siamo diversi da sempre. E la storia lo dice. Vorrei concludere questo mio post con delle parole prese in prestito da un grandissimo meridionale, Totò. 
Parole che vorrei dedicare a quelli che fanno barricate o vorrebbero bombardare i barconi. Parole però, che forse solo noi riusciamo seriamente a comprendere e farle nostre nell’animo:


“Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"



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