martedì 11 marzo 2014

Storie, controstorie e false verità sul Risorgimento: da Fenestrelle all'eccidio di Pontelandolfo

Sul "Mattino di oggi un ottimo articolo di Gigi Di Fiore, che ben spiega come mai il 17 marzo ci sia poco da festeggiare...



di Gigi Di Fiore
Fonte: Il Mattino

Negli ultimi tempi si assiste ad uno strano fenomeno, che sembra rovesciare la categoria del cosiddetto revisionismo. E' il revisionismo del revisionismo, fenomeno tutto italiano e tutto concentrato sul nostro Risorgimento. Accademici, ricercatori, cultori di storia si affannano a smentire, e rivedere documenti e ricerche che hanno riletto vicende oscure e per anni rimosse. Vicende che riguardano, guarda caso, l'annessione del Mezzogiorno al resto dell'Italia.

Ha cominciato, tra i primi, il professore di storia medievale Alessandro Barbero. Dopo decenni di inerzia, spinto da pubblicazioni di "storici non patentati" (come lui li definisce), ha speso molte energie, limitandosi a ricerche vicino casa sua (leggi Archivio di Stato di Torino), per ridimensionare il fenomeno dei prigionieri napoletani, catturati dall'esercito piemontese e spediti al Nord in tristi luoghi di detenzione come Fenestrelle.

Obiettivo della ricerca era smentire l'esistenza di un fenomeno vasto (eppure documenti ufficiali parlano di 8mila meridionali trasferiti al nord come prigionieri di guerra), con decine di morti tra strutture di detenzione, trasferimenti forzati al nord e ospedali militari. L'obiettivo era fare scalpore, probabilmente vendere un libro, ripetere che solo gli storici di professione possono occuparsi di certe cose e che tutto era stato già detto e scritto nei termini accettati da anni dall'accademia ufficiale.

Certo, è ben strano che, se tutto, sulla nostra storia Risorgimentale, è stato già scritto, esistano ancora cattedre universitarie che studiano quel periodo. A che serve una ricerca su qualcosa di cui si sa tutto? Mistero. Ma, sul tema, un bel libricino, scritto da Gennaro De Crescenzo e intitolato "Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle" riprende la questione. E allarga il campo di visuale.

Citando, alla sua maniera, fonti e documenti, De Crescenzo solletica la curiosità del ricercatore vero, disposto anche a spostarsi in più parti d'Italia per visionare più archivi, e suggerisce documenti conservati in registri parrocchiali e ospedali militari, dove compaiono più tracce di prigionieri militari del sud morti tra il 1861 e il 1863.

Non si capisce dove voglia portare questo filone revisionista del revisionismo se non a rivendicare le "patenti di storico", per chissà quali fini. La verità è materia difficile, ha bisogno sempre di allargare il campo delle fonti, arare episodi trascurati, arricchirsi di sensibilità che mutano con il passare degli anni.

Sui prigionieri napoletani, i lati oscuri erano molto semplici: la guerra del Piemonte contro le Due Sicilie non era dichiarata; si era sempre detto che i soldati sardo-piemontesi venivano a portare civiltà contro lo straniero (ma poi lo stesso ministro Manfredo Fanti fu costretto ad ammettere in Parlamento il 18 aprile 1861 che, nelle Due Sicilie, l'esercito era composto da italiani); si era sempre evidenziato che l'annessione non aveva avuto oppositori, se non qualche mercenario straniero, che tutto era stato una passeggiata finita dopo l'ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860.

Evidentemente, quei prigionieri furono fonte di imbarazzo anche allora: dimostravano l'esistenza di una guerra tra due Stati legittimi, tra due Stati italiani, una guerra che aveva tutte le sembianze di una conquista. Ma tant'è. Mi sembra assai più incredibile il tentativo, attraverso la ripresa del libricino di Davide Fernando Panella pubblicato ben 12 anni fa, di ridimensionare la portata di quello che fu un vero e proprio eccidio compiuto dalle truppe piemontesi-italiane a Pontelandolfo in provincia di Benevento. Proprio nel saggio di Panella si legge: "Risulta in modo evidente che, nell'anno 1861, a Pontelandolfo la mortalità raggiunse un picco molto elevato rispetto al decennio precedente". Dall'eccidio del 14 agosto 1861 al dicembre, i morti risultarono infatti 199.

Ancora ci si arrocca sui numeri: furono solo tredicii morti, altro che eccidio. I tredici noti sono quelli ufficiali, scolpiti nella famosa lapide voluta dal Comune (dove compaiono anche i nomi dei quattro uccisi dalla banda dei briganti di Cosimo Giordano sette giorni prima), in una manifestazione del 1973. Fu la manifestazione cui partecipò anche Carlo Alianello, che da poco aveva pubblicato il suo unico saggio con l'editore Rusconi: "La conquista del Sud". Fu proprio Alianello, molto prima di Pino Aprile, in quel libro del 1972 a paragonare l'eccidio di Pontelandolfo alle stragi naziste.

Ecco cosa scrisse l'autore de "L'eredità della priora" e dell'"Alfiere": "A proposito, cos'è questa faccenda di Pontelandolfo e Casalduni, delle quali località nessuna storia cosiddetta conformista, parla mai o accenna appena? Robetta; qualcosina di simile a quelle assai più recenti di Marzabotto e Filetto, moltiplicate almeno per tre. Cosa avrebbero fatto, nella seconda guerra mondiale, le Ss di Himmler, se qualche villaggio italiano si fosse proclamato antitedesco e antifascista? Be', i piemontesi fecero la medesima cosa, ma ci misero più impegno, un tantino più d'ira".

A cercare e studiare, tra registri parrocchiali, documenti dell'Ufficio storico dell'Esercito a Roma, carte comunali, si scopre che quella del 14 agosto 1861 fu una strage per "diritto di rappresaglia". Ho speso molto tempo a cercare verità su quella vicenda, nel 2004 pubblicai i nomi dei 41 soldati piemontesi uccisi in precedenza e i 3 scampati (non furono 45 soldati morti, come sostiene qualcuno: i documenti all'Ufficio storico sono chiari), poi mi dilungai sulla figura del colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri che guidò la colonna dei 300 bersaglieri. Il mio primo libro sull'eccidio è del 1998, ristampato di recente con Focus storia: "1861, Pontelandolfo e Casalduni un massacro dimenticato". Libro citato e ripreso anche da Pino Aprile.

Ebbene, nei registri di morti e vivi nell'anno successivo alla strage, risulta che i defunti furono maggiori di quelli di anni precedenti e poi seguenti. Non solo. Nel dibattito parlamentare del dicembre 1861, l'onorevole milanese Giuseppe Ferrari racconta gli orrori visti ("solo 3 case lasciate intatte") e i giornali dell'epoca parlano di 164 morti accertati.

L'anagrafe allora non era così avanzata come oggi, non c'erano computer né impiegati comunali addetti alla materia. A Pontelandolfo, poi, ci fu anche molta difficoltà a trovare i corpi rimasti sotto le case incendiate e carbonizzati. E poi la vergogna, la paura e denunciare i nomi di congiunti morti, nel timore di qualche ulteriore rappresaglia dei soldati che pure ci fu nei giorni successivi. Piaccia o no, a me non è mai piaciuto l'orrore di quell'atto, Pontelandolfo resta una pagina nera della nostra storia unitaria.

Nel 2011, a nome dell'Italia unita, andò a chiedere scusa a Pontelandolfo anche Giuliano Amato nella veste di presidente del Comitato per le celebrazioni dei 150 anni. Negli atti parlamentari del 1861, nei documenti diplomatici, negli affannosi dispacci militari (che ho pubblicato ne "I vinti del Risorgimento" nel 2004 e poi in "Controstoria dell'unità d'Italia" nel 2007) si legge l'orrore: civili uccisi a  freddo, per rappresaglia, perchè ritenuti amici dei briganti.

Eppure quella era già regno d'Italia da 5 mesi, ma il Sud era in preda ad una guerra civile. No, l'annessione del Mezzogiorno al resto della penisola non fu una passeggiata. Ma c'è chi vuole ancora sminuire la violenza e i metodi che furono necessari nel Mezzogiorno subito dopo la marcia di Garibaldi: senza cannoni e fucili, il Sud non sarebbe stato tenuto unito al resto d'Italia. La verità è fatta di più finestre, non solo quelle che convengono. Almeno che non si abbiano altri obiettivi.

Fonte: Il Mattino


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Sul "Mattino di oggi un ottimo articolo di Gigi Di Fiore, che ben spiega come mai il 17 marzo ci sia poco da festeggiare...



di Gigi Di Fiore
Fonte: Il Mattino

Negli ultimi tempi si assiste ad uno strano fenomeno, che sembra rovesciare la categoria del cosiddetto revisionismo. E' il revisionismo del revisionismo, fenomeno tutto italiano e tutto concentrato sul nostro Risorgimento. Accademici, ricercatori, cultori di storia si affannano a smentire, e rivedere documenti e ricerche che hanno riletto vicende oscure e per anni rimosse. Vicende che riguardano, guarda caso, l'annessione del Mezzogiorno al resto dell'Italia.

Ha cominciato, tra i primi, il professore di storia medievale Alessandro Barbero. Dopo decenni di inerzia, spinto da pubblicazioni di "storici non patentati" (come lui li definisce), ha speso molte energie, limitandosi a ricerche vicino casa sua (leggi Archivio di Stato di Torino), per ridimensionare il fenomeno dei prigionieri napoletani, catturati dall'esercito piemontese e spediti al Nord in tristi luoghi di detenzione come Fenestrelle.

Obiettivo della ricerca era smentire l'esistenza di un fenomeno vasto (eppure documenti ufficiali parlano di 8mila meridionali trasferiti al nord come prigionieri di guerra), con decine di morti tra strutture di detenzione, trasferimenti forzati al nord e ospedali militari. L'obiettivo era fare scalpore, probabilmente vendere un libro, ripetere che solo gli storici di professione possono occuparsi di certe cose e che tutto era stato già detto e scritto nei termini accettati da anni dall'accademia ufficiale.

Certo, è ben strano che, se tutto, sulla nostra storia Risorgimentale, è stato già scritto, esistano ancora cattedre universitarie che studiano quel periodo. A che serve una ricerca su qualcosa di cui si sa tutto? Mistero. Ma, sul tema, un bel libricino, scritto da Gennaro De Crescenzo e intitolato "Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle" riprende la questione. E allarga il campo di visuale.

Citando, alla sua maniera, fonti e documenti, De Crescenzo solletica la curiosità del ricercatore vero, disposto anche a spostarsi in più parti d'Italia per visionare più archivi, e suggerisce documenti conservati in registri parrocchiali e ospedali militari, dove compaiono più tracce di prigionieri militari del sud morti tra il 1861 e il 1863.

Non si capisce dove voglia portare questo filone revisionista del revisionismo se non a rivendicare le "patenti di storico", per chissà quali fini. La verità è materia difficile, ha bisogno sempre di allargare il campo delle fonti, arare episodi trascurati, arricchirsi di sensibilità che mutano con il passare degli anni.

Sui prigionieri napoletani, i lati oscuri erano molto semplici: la guerra del Piemonte contro le Due Sicilie non era dichiarata; si era sempre detto che i soldati sardo-piemontesi venivano a portare civiltà contro lo straniero (ma poi lo stesso ministro Manfredo Fanti fu costretto ad ammettere in Parlamento il 18 aprile 1861 che, nelle Due Sicilie, l'esercito era composto da italiani); si era sempre evidenziato che l'annessione non aveva avuto oppositori, se non qualche mercenario straniero, che tutto era stato una passeggiata finita dopo l'ingresso di Garibaldi a Napoli il 7 settembre 1860.

Evidentemente, quei prigionieri furono fonte di imbarazzo anche allora: dimostravano l'esistenza di una guerra tra due Stati legittimi, tra due Stati italiani, una guerra che aveva tutte le sembianze di una conquista. Ma tant'è. Mi sembra assai più incredibile il tentativo, attraverso la ripresa del libricino di Davide Fernando Panella pubblicato ben 12 anni fa, di ridimensionare la portata di quello che fu un vero e proprio eccidio compiuto dalle truppe piemontesi-italiane a Pontelandolfo in provincia di Benevento. Proprio nel saggio di Panella si legge: "Risulta in modo evidente che, nell'anno 1861, a Pontelandolfo la mortalità raggiunse un picco molto elevato rispetto al decennio precedente". Dall'eccidio del 14 agosto 1861 al dicembre, i morti risultarono infatti 199.

Ancora ci si arrocca sui numeri: furono solo tredicii morti, altro che eccidio. I tredici noti sono quelli ufficiali, scolpiti nella famosa lapide voluta dal Comune (dove compaiono anche i nomi dei quattro uccisi dalla banda dei briganti di Cosimo Giordano sette giorni prima), in una manifestazione del 1973. Fu la manifestazione cui partecipò anche Carlo Alianello, che da poco aveva pubblicato il suo unico saggio con l'editore Rusconi: "La conquista del Sud". Fu proprio Alianello, molto prima di Pino Aprile, in quel libro del 1972 a paragonare l'eccidio di Pontelandolfo alle stragi naziste.

Ecco cosa scrisse l'autore de "L'eredità della priora" e dell'"Alfiere": "A proposito, cos'è questa faccenda di Pontelandolfo e Casalduni, delle quali località nessuna storia cosiddetta conformista, parla mai o accenna appena? Robetta; qualcosina di simile a quelle assai più recenti di Marzabotto e Filetto, moltiplicate almeno per tre. Cosa avrebbero fatto, nella seconda guerra mondiale, le Ss di Himmler, se qualche villaggio italiano si fosse proclamato antitedesco e antifascista? Be', i piemontesi fecero la medesima cosa, ma ci misero più impegno, un tantino più d'ira".

A cercare e studiare, tra registri parrocchiali, documenti dell'Ufficio storico dell'Esercito a Roma, carte comunali, si scopre che quella del 14 agosto 1861 fu una strage per "diritto di rappresaglia". Ho speso molto tempo a cercare verità su quella vicenda, nel 2004 pubblicai i nomi dei 41 soldati piemontesi uccisi in precedenza e i 3 scampati (non furono 45 soldati morti, come sostiene qualcuno: i documenti all'Ufficio storico sono chiari), poi mi dilungai sulla figura del colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri che guidò la colonna dei 300 bersaglieri. Il mio primo libro sull'eccidio è del 1998, ristampato di recente con Focus storia: "1861, Pontelandolfo e Casalduni un massacro dimenticato". Libro citato e ripreso anche da Pino Aprile.

Ebbene, nei registri di morti e vivi nell'anno successivo alla strage, risulta che i defunti furono maggiori di quelli di anni precedenti e poi seguenti. Non solo. Nel dibattito parlamentare del dicembre 1861, l'onorevole milanese Giuseppe Ferrari racconta gli orrori visti ("solo 3 case lasciate intatte") e i giornali dell'epoca parlano di 164 morti accertati.

L'anagrafe allora non era così avanzata come oggi, non c'erano computer né impiegati comunali addetti alla materia. A Pontelandolfo, poi, ci fu anche molta difficoltà a trovare i corpi rimasti sotto le case incendiate e carbonizzati. E poi la vergogna, la paura e denunciare i nomi di congiunti morti, nel timore di qualche ulteriore rappresaglia dei soldati che pure ci fu nei giorni successivi. Piaccia o no, a me non è mai piaciuto l'orrore di quell'atto, Pontelandolfo resta una pagina nera della nostra storia unitaria.

Nel 2011, a nome dell'Italia unita, andò a chiedere scusa a Pontelandolfo anche Giuliano Amato nella veste di presidente del Comitato per le celebrazioni dei 150 anni. Negli atti parlamentari del 1861, nei documenti diplomatici, negli affannosi dispacci militari (che ho pubblicato ne "I vinti del Risorgimento" nel 2004 e poi in "Controstoria dell'unità d'Italia" nel 2007) si legge l'orrore: civili uccisi a  freddo, per rappresaglia, perchè ritenuti amici dei briganti.

Eppure quella era già regno d'Italia da 5 mesi, ma il Sud era in preda ad una guerra civile. No, l'annessione del Mezzogiorno al resto della penisola non fu una passeggiata. Ma c'è chi vuole ancora sminuire la violenza e i metodi che furono necessari nel Mezzogiorno subito dopo la marcia di Garibaldi: senza cannoni e fucili, il Sud non sarebbe stato tenuto unito al resto d'Italia. La verità è fatta di più finestre, non solo quelle che convengono. Almeno che non si abbiano altri obiettivi.

Fonte: Il Mattino


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