di Bruno Pappalardo
Ci furono tempi in cui si parlava di “posto fisso”.
E’ una dolce favola che vale la pena raccontarla ai propri nipoti o figlioli. Iniziava proprio con la canonica locuzione: “C’era una volta,…
“Pensa, tesoro mio, c’era un volta, un paese in cui la gente era contenta, … quasi tutti possedeva una entrata sicura e fissa mensile per la propria famiglia e per i figli dei figli e per il futuro. Poi giunse un esercito di uomini cattivi che tutto distrusse”
Erano gli anni dove molti soffrivano travaso di bile, di rabbia. Molti soffrivano perché esisteva Il Pubblico Impiego, anche quello privato, partecipato, parificato o statale. Se solo si accennava ad un insegnante, un docente, immediatamente lo si emarginava quasi fosse un appestato; incredibile!. Non era parte della comunità perché non ero uno di loro, ovverosia non appartenenti allo stesso comparto di liberi professionisti o commercianti o altro.
Tanto era la collera di questi che, pur non avendo una chiara convinzione ideo-politica, votavano a Destra. Accadde che gli auspici di costoro giunsero davvero! Venne, infatti, la nana cattiva, scura in volto,… la “brunetta”e che, in un battito d’ala, sbaragliò la vita di tanti e tutto finì,… pure la stabilità del PIL
Il “posto fisso” era il “posto sicuro” da cui attingere denaro per favolose Finanziarie e tagli.
Con un intercalare tutto nostro; non un vero e proprio proverbio con la pertinente predizione, non una pillola di saggezza da seguire ma, piuttosto una constatazione. Veniva detta, ogni tanto verso chi possedeva quella modestissima sicurezza per i propri figli ma come fossero i veri colpevoli, mi ripeto, d’ essere, ad esempio, un insegnante;
“Ma a voi che v’importa, lo stipendio va e viene beato voi,… ‘a nave cammina e ‘a fava se coce”
Intendevano provocare e detrarre il “beneficio” genesi, secondo loro, solo del miglior profitto con il minimo sforzo. Suscitava in me, tuttavia, sempre un fastidio ma non per i motivi per cui si è detto.
Veniva piuttosto in mente una storia che avevo letto e che mi lasciava ferito e un senso di sacrificio e fatica che pareva ch’io stesso mi fossi espulso. Quel senso di colpa di cui spesso si parla e si racconta per un meridionale emigrato. Non era così, ovviamente, ma lasciava l’amaro alla gola come una grossa corda.
Quel dire era un chiodo puntuto che penetrava il fianco mio ma credo d’ogni meridionale.
Un tempo, ancora più indietro della favola, il nostro popolo dovette, tra la fine dell’800 e primi decenni del ‘900 lasciare la propria terra, sui famosi “bastimenti”
Durante il lungo viaggio di mesi, infatti, (cerco di dirla corta) i nostri lontani padri “espatrianti” conducevano con loro dei sacchetti di fave. Preciso, non fagioli o ceci;… mi pare inutile spiegarne il motivo. Beh, i nostri padri sapevano che, quando è secca, non ha limite di scadenza. Era ed è un alimento straordinario; sali minerali e proteine, molte fibre e pochi grassi, zuccheri, acido folico, potassio, magnesio fosforo, zinco, ferro e tant’altro.
La fava è stata da sempre presente nel bacino del mediterraneo e molto diffusa, dal medioevo in poi e quasi esclusivamente nel nostro Meridione. Ne è stata il principale nutrimento. Proprio per questo veniva chiamata “la carne dei poveri”.
Era già presente nei villaggi neolitici e in tombe egizie e credo di poter facilmente ipotizzare che proprio quest’ultimi, strutturati in una piccola comunità o colonia, stabilitasi, dove oggi, nel Centro Storico di Napoli, s’erge la statua del Nilo, (dal I sec a.C al I sec.d.C) via del Sole e della Luna, et cetera, le avessero fatte conoscere
Ebbene, le fave, quando son secche devono essere ben cotte ed il tempo di cottura e relativamente lungo.Era più lungo del solito per quei poveretti che dovevano arrangiarsi con le tubature cocenti per i vapori sul cassero. Ma il tempo per loro non contava. Di tempo ne avevano e, dunque, mentre loro, lentamente e inquieti s’avvicinavano sempre più alla nuova patria, privo di alcun sforzo, le fave si cuocevano senza che nessuno dovesse curarsene.( massimo profitto)
Insomma per quegli emigranti per forza, è ancora un lamento dentro ciascuno di noi di cui neppure avvertiamo più le contenute urla delle donne che partorivano dietro una coperta stesa, i vecchi malati lasciati al mare, l’eterogeneità dei bisogni di donne e uomini e bambini, l’igiene e quel pudore represso che pure urlava ma solo allargando le labbra e che, per ovvi motivi di spazio, veniva compresso tra i corpi come tavole di legno.
Quanta somiglianza, quanta vicinanza a quei fetidi barconi e gommoni neri e a quei grossi mostruosi colonizzatori che vendettero la nostra carne come parimenti oggi, si fa per quella più scura.
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