lunedì 28 novembre 2011

Perché l’economia del Sud è arretrata?

Basta studiare un po’ di storia per scoprire sorprendenti verità e riflettere per il futuro

di Laerte Failli

Fonte:Totalita.it

Perché l’economia del Sud è arretrata?

Lord Gladstone

Non solo il granducato di Toscana: a render florida la situazione preunitaria italiana ha contribuito anche il Sud. La cosa può sembrare paradossale; ma neppure più di tanto, a giudicare dalla denigrazione inglese riguardo al Regno della due Sicilie, il “famigerato” regno Borbonico; anche questo caso, come il precedente, vittima di luoghi comuni troppe volte abusati. Borbonico infatti fa concorrenza a fascista quanto a dispregiativo: sinonimo di arretrato, dispotico, corrotto. Ad avere tale onore davvero poco regale è, tra i numerosi rami della celebre dinastia francese, quello che regnò in Italia nel regno delle Due Sicilie dal 1734 al 1861; quel Sud Italia, insomma che molti insistono a vedere come una palla al piede e un responsabile del mancato sviluppo nazionale, soprattutto nel settore dell’economia in cui, secondo la solita vulgata risorgimentale, soltanto il Nord Italia e soprattutto il Piemonte Sabaudo avrebbe brillato di luce propria, in questo come in tutti gli altri settori. Insomma, è colpa dei Borbone se oggi il sud è in condizioni catastrofiche, magari del povero Francesco II , che rinchiuso nella fortezza di Gaeta con la sua bella e giovane sposa Maria Sofia di Baviera e i suoi fedelissimi soldati seppe dare alla fine della dinastia quel luminoso raggio di gloria che sicuramente mancò, più di ottanta anni dopo, a quella Sabauda? O piuttosto, data la brevità del suo regno, lo dobbiamo ai suoi predecessori e in particolare a Ferdinando II, soprannominato spregiativamente Re Bomba per essersi difeso nel 1848 dagli assalti dei rivoltosi (che erano una minoranza) che volevano gentilmente fare a pezzi lui e il suo stato, invece di sparare addosso a dei poveracci inermi come farà a Milano il generale Bava Beccaris nell’ormai felicemente unito e civilissimo bell’italico regno nel 1898? (e che per questo si prese pure una medaglia?)

Bisognerebbe se mai riflettere sul perché oggi l’economia del Sud e quella del Nord sono così distanti, quando alla vigilia del fatidico 1860 la distanza non sembrava così marcata, pur nell’indubbia differenza di livelli di sviluppo e di tradizioni agricoli e industriali. Eppure da tempo non mancano storici e ricercatori che mettono in guardia contro i luoghi comuni: La conquista del Sud di Carlo Alianello, noto anche per gli splendidi romanzi l’Alfiere e L’eredità della priora, è stato sicuramente un pioniere. Alianello, considerato il “padre” del revisionismo borbonico, riuscì in effetti a scuotere un po’ la morta palude dei luoghi comuni e della santificazione di tutto ciò che era garibaldino e unitario: La conquista del sud è un testo scioccante, ma ben scritto e sicuramente ben documentato; fino alle più recenti biografie dei sovrani borbonici scritte da Giuseppe Campolieti, che ha inquadrato Ferdinando I, Ferdinando II e Francesco II in una luce ben più obiettiva del passato, restituendoli alla. loro dignità di sovrani e non di mostri alla Tacito o Svetonio. Di grande interesse poi gli studi di Nicola Zitara, che già negli anni ’70 si era occupato della questione meridionale con particolare rilievo dell’aspetto economico e che ora ha aggiunto un interessantissimo L’invenzione del Mezzogiorno; una storia finanziaria:

«La sventura dei meridionali d’essere un popolo senza lavoro e senza produzione, la sventura ancora maggiore di dover sottostare a un tipo di gestione pubblica non solo colonialista ma anche farsesca, ha avuto origine inequivocabilmente con l’unità politica d’Italia»[1].

Può sembrare un’affermazione paradossale e persino provocatoria, ma le cifre parlano chiaro e fanno giustizia dei luoghi comuni. Compreso quello famosissimo, tra l’altro, della «negazione di Dio eretta a sistema di governo». Un esempio di quanto, ancora una volta, l’economia sia rilevante nei fatti e misfatti storici lo dimostra infatti la famosa questione delle lettere di Gladstone a Palmerston. Una vera congiura denigratoria ai danni del Regno delle Due Sicilie, per delegittimare il Regno di Ferdinando II di Borbone, che invece aveva bene amministrato, e che diede un forte impulso alla riorganizzazione del regno, tanto da farlo diventare il più ricco della penisola.

Il governo Inglese fa diffondere in varie ambasciate europee, una lettera del liberale inglese William Gladstone, inviata al ministro degli esteri Lord Aberdeen in seguito a una presunta visita nelle carceri Napoletane nel 1851: carceri che avrebbero presentato a suo dire condizioni talmente disumane (dimenticandosi però di come i suoi connazionali trattavano ad esempio gli irlandesi) da definire il regime borbonico la negazione di Dio eretta a sistema di governo. Della buonafede di tale affermazione, che pure ha fatto la felicità di tanti autori di libri testo scolastici, è ampiamente lecito dubitare: anche perché lo stesso Gladstone ammise in seguito che in quelle carceri «negazione di Dio» non c' era mai stato e aveva riportato notizie «riferite da altri». Ma soprattutto la cosa aveva, è proprio il caso di dirlo, un sinistro … odore di zolfo. Come ricorda Infatti Alianello nella Conquista del sud, dal 1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio, dove l’una nazione accordava all’altra la formula della «nazione piú favorita». I mercanti inglesi ne approfittarono per accaparrarsi quasi l’intera produzione degli zolfi siciliani: compravano a prezzo basso e rivendevano a uno altissimo, per cui ben poco vantaggio ne traeva il regno borbonico e ancor meno minatori e lavoranti dello zolfo. Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, anche perché aveva abolito l’odiosa tassa sul macinato e doveva trovare altre fonti di reddito. Fu così che dette in concessione il commercio degli zolfi a una società francese che lo avrebbe pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli inglesi. Lord Palmerston non perse tempo: nel 1836 mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti, sbarchi e peggio mentre Ferdinando II ordinava a sua volta lo stato d’allarme e si preparava a resistere con ogni mezzo. Ma ci pensò Luigi Filippo di Francia a risolvere la questione con una mediazione, ovviamente a tutto vantaggio dei britannici e detrimento dei legittimi proprietari siciliani; il regno borbonico si attirò pure l’eterna inimicizia britannica che gli sarà fatale nel 1860.

Non c’è solo questo: Francesco Saverio Nitti, che pure non era certo un nostalgico “legittimista” parla di ben 443 milioni di lire conservati nelle banche del sud, a fronte dei 668 complessivi di tutte le banche italiane messe insieme: e sempre Nitti parlò di un enorme e continuo drenaggio di ricchezze dal sud verso il nord che avvenne dopo il 1860. E perché non ricordare «le percentuali di occupati nelle industrie all'atto dell' unificazione italiana (Nord-Ovest, 30,05 per cento; Nord-Est, 14,78; centro, 14,12; Sud, 41,04, fonte primo censimento italiano)?»[2] Inoltre, il regno del Sud fu il primo a inaugurare la rete ferroviaria italiana e i numerosi progetti di ampliamento non poterono essere condotti a termine per la fine dello stato; per non parlare poi dei Cantieri di Castellammare di Stabia, che occupavano più di 1800 operai, e della flotta mercantile, che era la prima in Italia e la terza in Europa: tra 1839 e il 1855 vi furono esportazioni per circa 89 milioni di ducati. E secondo alcune recenti ricerche, sembra non esistesse una grande differenza Nord- Sud in termini di prodotto pro-capite [3] Per non parlare poi della cultura e dell’industria culturale meridionale: il numero di riviste e di libri pubblicati era,nei decenni precedenti l’unificazione, il più alto d’Italia e il teatro San Carlo poteva considerarsi uno dei primo d’Europa, senz’altro superiore alla stessa Scala: non per nulla Rossini vi si fermò per diversi anni e per tutti i principali compositori dell’epoca era senz’altro una tappa obbligata.

Niente male dunque per essere una situazione di arretratezza e disagio; forse oggi i napoletani e i meridionali in genere pagherebbero per trovarsi in una simile condizione. E questo spiegherebbe perché i meridionali abbiano combattuto per ben un decennio, dopo il 1860, per riprendersi la loro indipendenza e il loro re: il famigerato “brigantaggio”. Ma questa è un‘altra, dolorosa storia.

Fonte:Totalita.it

[1]Nicola ZITARA, L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria, p.XIV.

[2] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/05/14/la-favola-del-regno-delle-due-sicilie.html

[3]Vedi ad es. Vittorio DANIELE – PAOLO MALANIMA, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004) in Rivista di Politica Economica, Roma, Marzo – Aprile 2007

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Basta studiare un po’ di storia per scoprire sorprendenti verità e riflettere per il futuro

di Laerte Failli

Fonte:Totalita.it

Perché l’economia del Sud è arretrata?

Lord Gladstone

Non solo il granducato di Toscana: a render florida la situazione preunitaria italiana ha contribuito anche il Sud. La cosa può sembrare paradossale; ma neppure più di tanto, a giudicare dalla denigrazione inglese riguardo al Regno della due Sicilie, il “famigerato” regno Borbonico; anche questo caso, come il precedente, vittima di luoghi comuni troppe volte abusati. Borbonico infatti fa concorrenza a fascista quanto a dispregiativo: sinonimo di arretrato, dispotico, corrotto. Ad avere tale onore davvero poco regale è, tra i numerosi rami della celebre dinastia francese, quello che regnò in Italia nel regno delle Due Sicilie dal 1734 al 1861; quel Sud Italia, insomma che molti insistono a vedere come una palla al piede e un responsabile del mancato sviluppo nazionale, soprattutto nel settore dell’economia in cui, secondo la solita vulgata risorgimentale, soltanto il Nord Italia e soprattutto il Piemonte Sabaudo avrebbe brillato di luce propria, in questo come in tutti gli altri settori. Insomma, è colpa dei Borbone se oggi il sud è in condizioni catastrofiche, magari del povero Francesco II , che rinchiuso nella fortezza di Gaeta con la sua bella e giovane sposa Maria Sofia di Baviera e i suoi fedelissimi soldati seppe dare alla fine della dinastia quel luminoso raggio di gloria che sicuramente mancò, più di ottanta anni dopo, a quella Sabauda? O piuttosto, data la brevità del suo regno, lo dobbiamo ai suoi predecessori e in particolare a Ferdinando II, soprannominato spregiativamente Re Bomba per essersi difeso nel 1848 dagli assalti dei rivoltosi (che erano una minoranza) che volevano gentilmente fare a pezzi lui e il suo stato, invece di sparare addosso a dei poveracci inermi come farà a Milano il generale Bava Beccaris nell’ormai felicemente unito e civilissimo bell’italico regno nel 1898? (e che per questo si prese pure una medaglia?)

Bisognerebbe se mai riflettere sul perché oggi l’economia del Sud e quella del Nord sono così distanti, quando alla vigilia del fatidico 1860 la distanza non sembrava così marcata, pur nell’indubbia differenza di livelli di sviluppo e di tradizioni agricoli e industriali. Eppure da tempo non mancano storici e ricercatori che mettono in guardia contro i luoghi comuni: La conquista del Sud di Carlo Alianello, noto anche per gli splendidi romanzi l’Alfiere e L’eredità della priora, è stato sicuramente un pioniere. Alianello, considerato il “padre” del revisionismo borbonico, riuscì in effetti a scuotere un po’ la morta palude dei luoghi comuni e della santificazione di tutto ciò che era garibaldino e unitario: La conquista del sud è un testo scioccante, ma ben scritto e sicuramente ben documentato; fino alle più recenti biografie dei sovrani borbonici scritte da Giuseppe Campolieti, che ha inquadrato Ferdinando I, Ferdinando II e Francesco II in una luce ben più obiettiva del passato, restituendoli alla. loro dignità di sovrani e non di mostri alla Tacito o Svetonio. Di grande interesse poi gli studi di Nicola Zitara, che già negli anni ’70 si era occupato della questione meridionale con particolare rilievo dell’aspetto economico e che ora ha aggiunto un interessantissimo L’invenzione del Mezzogiorno; una storia finanziaria:

«La sventura dei meridionali d’essere un popolo senza lavoro e senza produzione, la sventura ancora maggiore di dover sottostare a un tipo di gestione pubblica non solo colonialista ma anche farsesca, ha avuto origine inequivocabilmente con l’unità politica d’Italia»[1].

Può sembrare un’affermazione paradossale e persino provocatoria, ma le cifre parlano chiaro e fanno giustizia dei luoghi comuni. Compreso quello famosissimo, tra l’altro, della «negazione di Dio eretta a sistema di governo». Un esempio di quanto, ancora una volta, l’economia sia rilevante nei fatti e misfatti storici lo dimostra infatti la famosa questione delle lettere di Gladstone a Palmerston. Una vera congiura denigratoria ai danni del Regno delle Due Sicilie, per delegittimare il Regno di Ferdinando II di Borbone, che invece aveva bene amministrato, e che diede un forte impulso alla riorganizzazione del regno, tanto da farlo diventare il più ricco della penisola.

Il governo Inglese fa diffondere in varie ambasciate europee, una lettera del liberale inglese William Gladstone, inviata al ministro degli esteri Lord Aberdeen in seguito a una presunta visita nelle carceri Napoletane nel 1851: carceri che avrebbero presentato a suo dire condizioni talmente disumane (dimenticandosi però di come i suoi connazionali trattavano ad esempio gli irlandesi) da definire il regime borbonico la negazione di Dio eretta a sistema di governo. Della buonafede di tale affermazione, che pure ha fatto la felicità di tanti autori di libri testo scolastici, è ampiamente lecito dubitare: anche perché lo stesso Gladstone ammise in seguito che in quelle carceri «negazione di Dio» non c' era mai stato e aveva riportato notizie «riferite da altri». Ma soprattutto la cosa aveva, è proprio il caso di dirlo, un sinistro … odore di zolfo. Come ricorda Infatti Alianello nella Conquista del sud, dal 1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio, dove l’una nazione accordava all’altra la formula della «nazione piú favorita». I mercanti inglesi ne approfittarono per accaparrarsi quasi l’intera produzione degli zolfi siciliani: compravano a prezzo basso e rivendevano a uno altissimo, per cui ben poco vantaggio ne traeva il regno borbonico e ancor meno minatori e lavoranti dello zolfo. Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, anche perché aveva abolito l’odiosa tassa sul macinato e doveva trovare altre fonti di reddito. Fu così che dette in concessione il commercio degli zolfi a una società francese che lo avrebbe pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli inglesi. Lord Palmerston non perse tempo: nel 1836 mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti, sbarchi e peggio mentre Ferdinando II ordinava a sua volta lo stato d’allarme e si preparava a resistere con ogni mezzo. Ma ci pensò Luigi Filippo di Francia a risolvere la questione con una mediazione, ovviamente a tutto vantaggio dei britannici e detrimento dei legittimi proprietari siciliani; il regno borbonico si attirò pure l’eterna inimicizia britannica che gli sarà fatale nel 1860.

Non c’è solo questo: Francesco Saverio Nitti, che pure non era certo un nostalgico “legittimista” parla di ben 443 milioni di lire conservati nelle banche del sud, a fronte dei 668 complessivi di tutte le banche italiane messe insieme: e sempre Nitti parlò di un enorme e continuo drenaggio di ricchezze dal sud verso il nord che avvenne dopo il 1860. E perché non ricordare «le percentuali di occupati nelle industrie all'atto dell' unificazione italiana (Nord-Ovest, 30,05 per cento; Nord-Est, 14,78; centro, 14,12; Sud, 41,04, fonte primo censimento italiano)?»[2] Inoltre, il regno del Sud fu il primo a inaugurare la rete ferroviaria italiana e i numerosi progetti di ampliamento non poterono essere condotti a termine per la fine dello stato; per non parlare poi dei Cantieri di Castellammare di Stabia, che occupavano più di 1800 operai, e della flotta mercantile, che era la prima in Italia e la terza in Europa: tra 1839 e il 1855 vi furono esportazioni per circa 89 milioni di ducati. E secondo alcune recenti ricerche, sembra non esistesse una grande differenza Nord- Sud in termini di prodotto pro-capite [3] Per non parlare poi della cultura e dell’industria culturale meridionale: il numero di riviste e di libri pubblicati era,nei decenni precedenti l’unificazione, il più alto d’Italia e il teatro San Carlo poteva considerarsi uno dei primo d’Europa, senz’altro superiore alla stessa Scala: non per nulla Rossini vi si fermò per diversi anni e per tutti i principali compositori dell’epoca era senz’altro una tappa obbligata.

Niente male dunque per essere una situazione di arretratezza e disagio; forse oggi i napoletani e i meridionali in genere pagherebbero per trovarsi in una simile condizione. E questo spiegherebbe perché i meridionali abbiano combattuto per ben un decennio, dopo il 1860, per riprendersi la loro indipendenza e il loro re: il famigerato “brigantaggio”. Ma questa è un‘altra, dolorosa storia.

Fonte:Totalita.it

[1]Nicola ZITARA, L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria, p.XIV.

[2] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/05/14/la-favola-del-regno-delle-due-sicilie.html

[3]Vedi ad es. Vittorio DANIELE – PAOLO MALANIMA, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004) in Rivista di Politica Economica, Roma, Marzo – Aprile 2007

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