Di Paolo Mieli
Fonte: Corriere della Sera
Nel novembre 1898 Francesco Saverio Nitti, trentenne ma già docente universitario di Economia politica e Scienza delle finanze, scrisse sulla «North American Review» un articolo assai poco convenzionale, in cui si occupava del particolare rapporto tra gli italiani e l'anarchia. Quell'articolo costituisce uno dei cardini di un libro assai interessante di Erika Diemoz, A morte il tiranno. Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini, che sta per essere pubblicato da Einaudi. Nitti si domandò come mai, pur non essendo l'anarchia un fenomeno peculiare del nostro Paese, molti degli attentatori di fine Ottocento - in tutta Europa - fossero italiani. Secondo il futuro presidente del Consiglio, Nitti appunto, lo «spirito anarchico» assai diffuso in Italia, era originato sì dalle cattive condizioni economiche, ma soprattutto era legittimato da «una precisa tradizione storica, inaugurata dalla borghesia italiana prima dell'Unità, cioè al tempo della propaganda risorgimentale: la tradizione secondo cui cospiratori e regicidi rappresentavano altrettanti personaggi cui rendere gloria» (Diemoz). Un'aura tutta speciale avvolgeva uomini come Agesilao Milano, impiccato a Napoli nel 1856 per aver tentato di uccidere il re Ferdinando II, o Felice Orsini, il discepolo di Mazzini che nel 1858, a Parigi, aveva attentato alla vita di Napoleone III.
Erika Diemoz condivide l'attenzione di Nitti su questo dettaglio: «Pochi decenni prima di scagliarsi contro l'idra dell'anarchismo, la borghesia radicale italiana aveva elevato il tentato omicidio di un imperatore alla sfera di un atto eroico... tra gli italiani si era sedimentata l'idea secondo la quale chi uccideva un uomo di potere era degno di trasformarsi in un combattente venerato, paladino della giustizia e benefattore dell'umanità». Il tutto esaltato dai romanzieri di appendice che «alimentavano una sorta di estetica della violenza», con ciò avendo l'effetto subliminale di guadagnare ogni giorno nuovi adepti al terrorismo. Ma questi libertari erano per lo più degli isolati, degli individualisti, al massimo partecipavano a piccoli raggruppamenti e non prendevano ordini da nessuno.
Michele Angiolillo (manganofoggia.it) |
Era Crispi il numero uno di un'intelaiatura massonica che all'epoca aveva in mano le redini dell'Italia. In lui si vedeva il rappresentante di una massoneria di potere che aveva, anch'essa, lasciato per strada gli ideali del Risorgimento. Una questione che è stata ben analizzata da Massimo Teodori nel suo recente Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'unità d'Italia (Rubbettino). «La tesi della massoneria come intelaiatura della classe dirigente dell'Italia liberale», nota Teodori, «è convalidata dalla presenza nelle sue logge, insieme ai padri del Risorgimento (Garibaldi e Cattaneo, certo, ma anche Cavour e in qualche modo Mazzini), di quasi tutti gli statisti di fine secolo (Depretis, Cairoli, Crispi, Rudinì, Zanardelli, Fortis, Sonnino), di non pochi intellettuali (Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Giosuè Carducci, Arturo Labriola e perfino Giovanni Pascoli), e di tanti parlamentari il cui numero verso gli anni Novanta dell'800, sembra raggiungesse circa il 60 per cento della Camera dei deputati».
Giovanni Passannante (savoiadilucania.it) |
Nel novembre del 1878 due bombe erano poi scoppiate nel centro di Firenze, causando quattro morti e una decina di feriti. In quello stesso anno, 1878, in Germania si erano avuti ben due tentativi - non collegati tra loro - di dare la morte all'imperatore Guglielmo I; in Spagna un ragazzo proveniente dalla Catalogna aveva tentato di eliminare il re Alfonso XII e nel 1881 un manipolo di populisti russi era riuscito a uccidere lo zar Alessandro II.
Come si è detto, il primo attentato a Crispi si verificò nel 1889, undici anni dopo quello al re. Durante questi undici anni e soprattutto negli ultimi due, dopo la morte di Depretis, Crispi, ormai settantenne, era diventato l'uomo forte in un Paese nel quale Umberto I aveva dimostrato di non possedere un carisma paragonabile a quello di suo padre, Vittorio Emanuele II. Nello stesso tempo la vita parlamentare era caratterizzata dall'inizio della stagione del trasformismo e si erano già registrati alcuni grandi casi di corruzione politica. Fu questo il modo in cui si presentò all'Italia la Sinistra storica, fattasi moderata e responsabile. E Crispi volle essere il Cesare di questa fase politica.
Emilio Caporali (picasaweb.google.com) |
Falliti tutti i tentativi di far valere la tesi della cospirazione internazionale, toccò al presidente della corte d'Assise di Napoli, Vincenzo Aschettino, risolvere la questione per via giudiziaria. Cosa che Aschettino riuscì a fare recuperando l'ipotesi della pazzia di Caporali e medicalizzando il processo sulla base delle teorie di Cesare Lombroso. Una volta identificata la malattia mentale di Caporali, scrive Erika Diemoz, «ne sarebbe derivato che il sistema sociale nel suo complesso non aveva avuto alcuna responsabilità nel causare il delitto: non la povertà e il disagio, e nemmeno l'avversata politica crispina avevano spinto l'operaio pugliese a compiere il suo gesto, bensì le condizioni anomale della sua psiche». Furono convocati tre importanti studiosi di neuropsichiatria, Leonardo Bianchi, Gaspare Virgilio e il giovane Francesco Vizioli. Successivamente si aggiunse Augusto Tamburini, direttore del manicomio di Reggio Emilia. In una logica rigorosamente lombrosiana l'imputato fu misurato dalla testa ai piedi: la circonferenza delle braccia, il volume del cranio, l'altezza delle spalle, la lunghezza del naso e delle orecchie, quella delle gambe, la dimensione del torace e dello scheletro. Poi fu la volta di un esame fisico degli organi toracici e addominali, di un esame della sensibilità generale, cutanea e muscolare, e infine di esplorazioni elettriche. Dopo tutte queste verifiche, il 6 luglio del 1890, gli psichiatri emisero il loro verdetto: l'imputato aveva un'indole «degenerativa e patologica». Le prove: «la grande apertura delle braccia, superiore alla statura»; «la disarmonia di sviluppo degli arti superiori»; «la deviazione del naso»; «l'aderenza dei lobuli auricolari»; «la sporgenza dei globi oculari»; «la disarmonia della funzione visiva» e altre evidenze dello stesso genere. Successivamente altri medici, Luigi de Crecchio, Mariano Semmola, Giuseppe Ziino, Antonio d'Antona confermarono questa diagnosi e a Caporali, invece del carcere, toccò in sorte il manicomio. Anzi, più manicomi, in uno dei quali, quello di Montelupo Fiorentino, ebbe l'occasione di incontrare il mancato regicida Passannante.
Il capo del governo Francesco Crispi, oggetto di due attentati falliti |
Quando, nel pomeriggio di quello stesso 16 giugno, Crispi entrò in Parlamento e riferì dell'accaduto, tutti i deputati, anche quelli dell'estrema sinistra, si alzarono e lo applaudirono a lungo. Fece eccezione solo l'avvocato socialista Enrico Ferri, che rimase impassibile al suo posto. Anche i giornali furono assai calorosi. «Noi siamo severi ogni giorno con Crispi... tiene il potere con metodi contraddittori e strani, che suscitano vive discussioni e appassionano gli animi, formando contrasti forti nella vita del Paese», scrisse il «Corriere della Sera»; «ma Crispi è uno degli uomini eminenti del nostro tempo... ispirandosi al suo caldo patriottismo rivoluzionario, ha affrontato responsabilità che da quasi un quarto di secolo non si erano presentate in Italia ad altri uomini del governo e per affrontarle occorreva una tempra pari alla sua». «L'Opinione Liberale» esortò a prendere provvedimenti contro «quelle propagande nefaste con le quali si pervertono le menti, si incrudeliscono i cuori e si armano le mani scellerate degli assassini». «La Riforma» scrisse che era venuto il momento di «prevenire tali delitti, è tempo di farlo risolutamente, soprattutto nell'interesse della libertà».
L'Italia tutta fu inondata da lettere e telegrammi di elogio al capo del governo. Il quale, in una lettera di risposta alle felicitazioni del deputato repubblicano Matteo Imbriani (quello per il quale si era battuto Caporali e che per questo ai tempi del precedente attentato era stato indicato quasi come un ispiratore del gesto), tenne a precisare che, a suo avviso, né l'adesione dell'Italia alla Triplice Alleanza né la proclamazione dello stato d'assedio erano state all'origine del gesto. A fine giugno «La Tribuna» di Roma riportava la notizia pubblicata da un giornale di Parigi secondo la quale l'eliminazione di Crispi, di Sadi Carnot e del capo del governo francese, Charles Dupuy, era stata decisa sei mesi prima in una riunione di anarchici a Londra.
All'inizio di luglio, Crispi aveva ricevuto una lettera anonima in cui gli si annunciava che sua figlia sarebbe stata sfregiata da anarchici napoletani, i quali avevano in mente di rapirla e di ustionarle il viso con una bottiglia di acido solforico. Pochi giorni dopo, il tribunale di Lione inoltrava una richiesta agli investigatori italiani per ottenere conferme alle ipotesi complottiste sugli attentati a Crispi e Sadi Carnot avanzate dalle gazzette locali. A novembre, il prefetto di Como comunicò a Crispi di aver saputo da colleghi ginevrini che era imminente un nuovo attacco contro di lui e contro il nuovo presidente della Repubblica francese.
Ormai è definitivamente accertato, scrive la Diemoz, che ai tempi non esisteva nessun «Comitato Supremo» ai vertici internazionali dell'anarchismo. Il movimento anarchico ebbe bensì metodi d'azione suoi propri, ma «mai riuscì a dotarsi di una stabile struttura dirigente, né a creare un centro propulsore da cui muovessero le trame degli affiliati». Anche se i militanti libertari si spostavano incessantemente, tenevano incontri in ogni parte d'Europa e oltreoceano, e furono capaci di diffondere una quantità di materiale propagandistico davvero impressionante, mai riuscirono a darsi strutture di comando nazionali o internazionali.
Fu il questore di Bologna, Ermanno Sangiorgi, a sostenere l'esistenza di una società segreta che aveva architettato l'attentato contro il primo ministro italiano e aveva armato la mano di Lega. Sangiorgi di lì a qualche anno, nel 1898, passerà a dirigere la questura di Palermo. Questura di Palermo da cui, grazie all'esercizio intellettuale compiuto in precedenza per portare alla luce la rete anarchica, riuscirà, applicando il suo metodo investigativo alla criminalità organizzata, a produrre un'analisi assai innovatrice. Analisi che gli consentirà di assestare i primi decisivi colpi alla mafia siciliana.
L’anarchico Gaetano Bresci uccide il re Umberto I |
È in questo contesto che si usa per la prima volta, da parte di Crispi e del suo principale consulente, il poliziotto romano Ettore Sernicoli, la formula «zone grigie». Crispi, ricostruisce la Diemoz, vi aveva già fatto ricorso in precedenza (per la precisione in un'intervista a «Le Figaro» del settembre 1890) «per riferirsi non al movimento anarchico, ma a un fenomeno che riproponeva - una volta di più - il delicato rapporto tra l'ordine liberale costituito e gli elementi che in qualche modo lo minacciavano». In quell'occasione Crispi aveva definito «grigie» le zone di confine tra uno Stato e l'altro abitate da popolazioni di nazionalità mista. Anarchici e comunità di frontiera erano accomunati dalla circostanza che la loro appartenenza all'Italia fosse dubbia e che gli uni e le altre opponessero resistenza a un loro pacifico inserimento nelle istituzioni liberali.
Sante Caserio (boisdejustice.com) |
Quanto all'uso improprio delle leggi antianarchiche, Crispi non sarà da meno. Lui, che pure aveva sempre distinto tra socialisti e seguaci di Bakunin, se ne serve il 22 ottobre per sciogliere il Comitato centrale del Partito socialista. Partito socialista che era ormai agli antipodi del movimento anarchico, tanto che un suo leader, Camillo Prampolini, nel 1889 era stato vittima di un tentativo di uccisione da parte di un «illegalista».
Gaetano Bresci |
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