martedì 19 luglio 2011

Palermo - napoli. ieri ed oggi

Di Luigi de Magistris


Paolo Borsellino sosteneva che “si ama ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Lo sosteneva riferendosi alla sua città, Palermo. Lo sosteneva animato dalla convinzione che solo una “rivoluzione culturale”, diffusa capillarmente in tutta la società, avrebbe vinto le mafie liberando la Sicilia e il Paese da quella “puzza di compromesso morale” che funziona da fertilizzante per il crimine organizzato. Quel compromesso morale che si realizza nel punto di incontro fra pubblico e privato, che riguarda ciascun individuo e qualsiasi ruolo sociale, che si manifesta nelle grandi e piccole azioni di vita, che trova ragion d’essere nella personale mancanza di coraggio, che si giustifica con l’argomento del “tanto nulla può cambiare”.

Quel compromesso morale che consente alla mafia di alimentarsi e soprattutto di controllare il tessuto sociale, fino ad arrivare ad infiltrare le istituzioni e la politica, oltre la finanza e il mercato. Un potere che, più in generale, si fonda sulla manipolazione delle coscienze. Paolo Borsellino, di cui oggi ricorre l’anniversario dell’uccisione in via D’Amelio, ha avuto il merito di aver combattuto cosa nostra e di averlo fatto colpendola nel suo cuore pulsante: l’interesse economico, secondo il famoso slogan del “follow the money”, cioè “segui la pista del denaro per arrivare ai vertici del potere mafioso”. Ma soprattutto ha avuto il merito di aver contrastato l’organizzazione criminale puntando il faro dell’attenzione sul suo livello di infiltrazione e di copertura istituzionale, sulla sua capacità di condizionare le istituzioni, fino ad arrivare alla dolorosa ma ormai nota stagione della “Trattativa fra Stato e mafia”. Le indagini in corso a Palermo, Caltanissetta, Roma e Firenze -così tanto scoraggiate da una “certa” parte della politica, per anni affetta dalla sindrome della dimenticanza intermittente- stanno portando a galla proprio questa verità: l’uccisione di Borsellino ha origine in quel rapporto che lo Stato (alcuni esponenti dei servizi segreti, delle forze dell’ordine, della magistratura, del potere politico) andò costruendo, a cavallo fra la strage di Capaci e via D’Amelio (o forse ancor prima), per tentare di difendersi dalla potenza mafiosa e creando con essa un'unica entità.

Per questo il suo omicidio è stato un assassinio politico, i cui contorni e i cui protagonisti ancora oggi devono essere accertati tenendo conto -come ricordato per anni e nell’isolamento generale dagli stessi Salvatore e Rita Borsellino- che pezzi istituzionali di questo paese non hanno interesse al raggiungimento della verità giudiziaria e storica proprio a causa di quella trattativa. Non voglio entrare nel merito di indagini tutt’ora in corso e non voglio soffermarmi su ciò che recentemente è venuto alla luce, voglio invece ricordare Borsellino per la testimonianza straordinaria lasciata a questo paese. E voglio farlo dalla prospettiva che adesso mi caratterizza: quella di sindaco di una città che trova nel crimine organizzato uno dei maggiori deterrenti alla crescita, allo sviluppo, al raggiungimento della libertà.

Ecco allora che quel “si ama ciò che non ci piace per poter cambiare” suona alle mie orecchie come un monito imprescindibile: Napoli possiede troppi aspetti che non mi piacciono e che non piacciono a tantissimi suoi cittadini, ma amiamo questa città e crediamo nelle sue potenzialità, ed è proprio per questo che stiamo cercando di cambiarla. Oggi Borsellino vorrei ricordarlo così, per quel filo di speranza nel cambiamento morale ed etico che lega idealmente Palermo e Napoli, nel passato e nel presente. Ricordarlo per l’insegnamento che ci ha lasciato e che va oltre il merito giudiziario, tanto da trasformarsi in una preziosa indicazione anche per chi amministra e per chi è amministrato, per un sindaco e per la sua città, per me e per Napoli.

Fonte:Sindaco per Napoli


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Di Luigi de Magistris


Paolo Borsellino sosteneva che “si ama ciò che non ci piace per poterlo cambiare”. Lo sosteneva riferendosi alla sua città, Palermo. Lo sosteneva animato dalla convinzione che solo una “rivoluzione culturale”, diffusa capillarmente in tutta la società, avrebbe vinto le mafie liberando la Sicilia e il Paese da quella “puzza di compromesso morale” che funziona da fertilizzante per il crimine organizzato. Quel compromesso morale che si realizza nel punto di incontro fra pubblico e privato, che riguarda ciascun individuo e qualsiasi ruolo sociale, che si manifesta nelle grandi e piccole azioni di vita, che trova ragion d’essere nella personale mancanza di coraggio, che si giustifica con l’argomento del “tanto nulla può cambiare”.

Quel compromesso morale che consente alla mafia di alimentarsi e soprattutto di controllare il tessuto sociale, fino ad arrivare ad infiltrare le istituzioni e la politica, oltre la finanza e il mercato. Un potere che, più in generale, si fonda sulla manipolazione delle coscienze. Paolo Borsellino, di cui oggi ricorre l’anniversario dell’uccisione in via D’Amelio, ha avuto il merito di aver combattuto cosa nostra e di averlo fatto colpendola nel suo cuore pulsante: l’interesse economico, secondo il famoso slogan del “follow the money”, cioè “segui la pista del denaro per arrivare ai vertici del potere mafioso”. Ma soprattutto ha avuto il merito di aver contrastato l’organizzazione criminale puntando il faro dell’attenzione sul suo livello di infiltrazione e di copertura istituzionale, sulla sua capacità di condizionare le istituzioni, fino ad arrivare alla dolorosa ma ormai nota stagione della “Trattativa fra Stato e mafia”. Le indagini in corso a Palermo, Caltanissetta, Roma e Firenze -così tanto scoraggiate da una “certa” parte della politica, per anni affetta dalla sindrome della dimenticanza intermittente- stanno portando a galla proprio questa verità: l’uccisione di Borsellino ha origine in quel rapporto che lo Stato (alcuni esponenti dei servizi segreti, delle forze dell’ordine, della magistratura, del potere politico) andò costruendo, a cavallo fra la strage di Capaci e via D’Amelio (o forse ancor prima), per tentare di difendersi dalla potenza mafiosa e creando con essa un'unica entità.

Per questo il suo omicidio è stato un assassinio politico, i cui contorni e i cui protagonisti ancora oggi devono essere accertati tenendo conto -come ricordato per anni e nell’isolamento generale dagli stessi Salvatore e Rita Borsellino- che pezzi istituzionali di questo paese non hanno interesse al raggiungimento della verità giudiziaria e storica proprio a causa di quella trattativa. Non voglio entrare nel merito di indagini tutt’ora in corso e non voglio soffermarmi su ciò che recentemente è venuto alla luce, voglio invece ricordare Borsellino per la testimonianza straordinaria lasciata a questo paese. E voglio farlo dalla prospettiva che adesso mi caratterizza: quella di sindaco di una città che trova nel crimine organizzato uno dei maggiori deterrenti alla crescita, allo sviluppo, al raggiungimento della libertà.

Ecco allora che quel “si ama ciò che non ci piace per poter cambiare” suona alle mie orecchie come un monito imprescindibile: Napoli possiede troppi aspetti che non mi piacciono e che non piacciono a tantissimi suoi cittadini, ma amiamo questa città e crediamo nelle sue potenzialità, ed è proprio per questo che stiamo cercando di cambiarla. Oggi Borsellino vorrei ricordarlo così, per quel filo di speranza nel cambiamento morale ed etico che lega idealmente Palermo e Napoli, nel passato e nel presente. Ricordarlo per l’insegnamento che ci ha lasciato e che va oltre il merito giudiziario, tanto da trasformarsi in una preziosa indicazione anche per chi amministra e per chi è amministrato, per un sindaco e per la sua città, per me e per Napoli.

Fonte:Sindaco per Napoli


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