lunedì 6 giugno 2011

150 anni di crescita, 150 anni di divari: sviluppo, trasformazioni, politiche - Relazione SVIMEZ


Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia
SESSIONI DI STUDIO


Sessione I – Unificazione economica (andamenti dell’economia e politiche per il Sud)
Camera dei Deputati, Palazzo Marini
30 maggio 2011

150 anni di crescita, 150 anni di divari:
sviluppo, trasformazioni, politiche

Relazione SVIMEZ
(L.Bianchi, D.Miotti, R.Padovani, G.Pellegrini, G.Provenzano)


SINTESI
La nostra relazione ha per oggetto una considerazione complessiva
dell’andamento dell’economia nazionale e del dualismo, alla luce dell’amplio
materiale informativo contenuto nel volume SVIMEZ sui 150 anni di statistiche. In
questa sede, ci limiteremo a una prima sintesi: a) degli andamenti del divario di
sviluppo; b) delle principali trasformazioni della struttura economica e sociale
meridionale; c) di alcune valutazioni sugli effetti delle politiche di sviluppo dal
secondo dopoguerra ad oggi.
Siamo sicuri, peraltro, che le sessioni di studio previste nella giornata
offriranno analisi e interpretazioni più approfondite dei caratteri e delle determinanti
dell’evoluzione del dualismo.

I. Lo sviluppo del Mezzogiorno: 150 anni di divari, 150 anni di crescita
1. A centocinquant’anni dalla sua Unificazione, l’Italia rimane ancora divisa
nelle sue caratteristiche socio-economiche (Fig.1): lo sviluppo è polarizzato nelle
regioni centro-settentrionali, industrialmente avanzate e parte del core produttivo
dell’Europa, mentre quelle meridionali rimangono economicamente periferiche e in
ritardo di sviluppo. La persistenza di una grande questione di divario territoriale
rappresenta una condizione della vita economica e sociale dell’Italia ma anche un
intricato problema di mancato sviluppo del Paese e dell’intera Europa. Al 2009 2
nessuna delle regioni del Mezzogiorno raggiungeva il PIL pro capite medio
nazionale; al contrario, tutte le restanti regioni, esclusa l’Umbria, lo superavano. Nel
complesso, il prodotto pro capite dell’area risultava pari solo al 59% di quello del
Centro-Nord.
La presenza di un divario di ricchezza fra le due aree non è una caratteristica
immutabile della storia italiana: recenti ricostruzioni storiche segnalano che al
momento dell’Unità d’Italia il prodotto pro capite delle due aree era pressoché
simile. Questo non significa che non vi fossero forti squilibri regionali, tutt’altro. Ma
le differenziazioni interne alle due aree risultavano di gran lunga più importanti di
quelle tra le due macroregioni.
Nei 150 anni successivi i processi di convergenza non sono stati omogenei
nelle due aree: mentre nel Centro-Nord le regioni più povere sono cresciute più della
media nazionale, avvicinandosi quindi alle aree ricche dell’area, nel Mezzogiorno le
regioni relativamente più ricche sono cresciute meno della media, retrocedendo nello
sviluppo e quindi influenzando negativamente i risultati dell’area.
Quella che era una normale eterogeneità territoriale dello sviluppo si è
trasformata nella “questione meridionale”, ovvero nella presenza più importante in
Europa di una struttura territoriale dualistica.
Le conseguenze, in termini di analisi e di policy, sono state rilevanti:
all’interno di un mercato unico, i fenomeni di attrattività, concentrazione e
spiazzamento dei flussi di fattori produttivi in favore dell’area più sviluppata
ostacolano i processi di crescita dell’area debole. Le interdipendenze fra le aree
quindi rendono maggiormente indeterminati gli effetti delle politiche, e
indeboliscono le dinamiche di convergenza economica, sebbene possano rafforzare
quelle di convergenza nei livelli di benessere sociale.
L’accostamento delle serie annuali del prodotto pro capite stimate da Daniele
e Malanima (2007) per il periodo 1861-1951, con quelle più recenti, dal 1951,
prodotte dalla Svimez, permette di individuare un quadro complessivo e alcuni
periodi fondamentali, degli andamenti del divario fra le due aree dal momento
dell’Unità ad oggi.
Il periodo dopo l’Unità appare contraddistinto dalle prime difficoltà per le
regioni meridionali nel tenere il passo con il resto del Paese. Dalla fine dell’800
inizia una chiara divergenza di passo di tutte le regioni meridionali (Fig. 2). Tale
processo, continuo e prolungato, dura fino al secondo dopoguerra, e riguarda sia le 3
aree più ricche (come Campania e Sicilia), sia quelle più povere (come Calabria e
Abruzzi).
In una prima fase (1891-1919), le differenze si ampliano, principalmente per
effetto della crescita delle regioni del triangolo industriale (Lombardia, Piemonte e
soprattutto Liguria), mentre le altre regioni tendono a conservare (o a diminuire di
poco, nel caso del Mezzogiorno) le proprie posizioni relative.
Nella seconda fase (1920-1940), che comprende il ventennio fascista, i divari
accelerano. Meritano risalto i movimenti comuni delle regioni del Nord tutti orientati
alla crescita, insieme a Toscana e Lazio, anche se con diversi ritmi, e soprattutto
quelli delle regioni del Mezzogiorno (con Umbria e Marche), che invece perdono
tutte, in modo anche rilevante, rispetto al resto del Paese.
Nel periodo bellico le differenze si acuiscono, sempre a svantaggio del
Mezzogiorno.
La fase che va dal dopoguerra (Fig. 3). fino allo shock petrolifero,
contraddistinta da una forte crescita dell’intero Paese, nel quadro di una golden age
dello sviluppo dell’Occidente industrializzato, è invece il principale periodo di
convergenza: le regioni del Mezzogiorno si riavvicinano tutte ai livelli medi
nazionali, mentre la minore crescita delle regioni del triangolo industriale, in
particolare nei confronti di quelle della “terza Italia”, riduce i divari regionali anche
all’interno del Centro-Nord (Fig. 4).
Questo non avviene immediatamente: la fase di crescita forte e stabile, del
Mezzogiorno come dell’intera economia italiana, si sviluppa principalmente negli
anni ’60, per poi interrompersi bruscamente dopo i tre forti shocks che dopo
l’autunno del 1969 colpiscono l’intero Paese: salariali, petroliferi, di finanza pubblica
(Fig. 5). Dopo alterne vicende e, come vedremo, differenti tipologie di politiche di
intervento nel Mezzogiorno, la conclusione è che in quasi sessant’anni il divario di
crescita tra le regioni del Sud e il resto del Paese non si è riassorbito, a dispetto dei
forti cambiamenti avvenuti nella struttura produttiva e nelle politiche. Nel 2009, sei
decadi dopo la fine della guerra, il gap di prodotto pro capite del Mezzogiorno con il
resto del Paese era pari a 41 punti percentuali, con una riduzione di soli 6 punti
rispetto al 1951.
2. Identificare i fattori alla base dei divari di reddito regionale è molto
complesso. Essendo il reddito pro capite scomponibile tra produttività del lavoro e 4
tasso di occupazione, una prima analisi del divario può individuare il contributo di
entrambe le componenti nella spiegazione della sua dinamica (Fig. 6).
L’analisi mostra come nel complesso del periodo 1891-2009 l’aumento del
divario sia attribuibile sia a una minore dinamica della produttività del lavoro nelle
regioni del Mezzogiorno, sia ad un andamento relativamente inferiore del tasso di
occupazione, seppure con notevoli difformità nei sottoperiodi.
Nella prima metà del novecento, la componente principale che domina la
crescita del divario è data dalla produttività. Questo avviene nel primo periodo
(1891-1913), nel quale l’Italia del Nord realizza la sua prima industrializzazione e le
regioni del Mezzogiorno subiscono un forte flusso di emigrazione di persone in cerca
di lavoro. Nel periodo tra le due guerre (1920-1939), tale flusso si interrompe, e
questo, assieme alla ridotta diffusione dell’industrializzazione al Sud, spiega il ruolo
più elevato che assume nel periodo la componente di produttività.
Anche nel secondo dopoguerra, la produttività gioca il ruolo principale nella
dinamica del divario, ma invertito rispetto al passato: cresce più nel Mezzogiorno che
nel resto del Paese in virtù prevalentemente della diffusione dell’industrializzazione
e dell’ammodernamento dell’apparato produttivo al Sud. Tale dinamica compensa il
passo lento, relativamente al Centro-Nord, del tasso di occupazione.
Il processo di convergenza si attenua per poi scomparire nel periodo
successivo (1974-2009), in quanto tutto il recupero di produttività viene riassorbito
dalla peggiore dinamica dell’occupazione nelle regioni meridionali.
Nel complesso, la riduzione del divario di Pil pro-capite, tra il 1951 e il 2009,
è attribuibile completamente ai guadagni di produttività, che passa dal 64,6% del
Centro-Nord all’85,5% (Fig. 7). Tale incremento, di oltre 20 punti percentuali,
parzialmente compensa l’andamento relativamente negativo dell’occupazione: il
tasso di occupazione era pari nel 1951 all’81% di quello del Centro-Nord, solo al
68,9% nel 2009.
Se si osserva l’intero periodo 1951-2009, nel Mezzogiorno l’occupazione
stagna, mentre si incrementa dello 0,5% m.a. nel Centro-Nord. Nello stesso periodo,
la popolazione residente aumenta nel Mezzogiorno poco meno della metà del resto
del Paese (rispettivamente 0,3% e 0,5% m.a.) (Fig. 8).
Le informazioni di contabilità nazionale ricostruite dalla Svimez mostrano un
ruolo fondamentale dei processi di accumulazione nel catching up del dopoguerra. Il
tasso di accumulazione nel Mezzogiorno è risultato nel periodo 1951-1973 elevato e 5
sempre superiore a quello registrato nel Centro-Nord (Fig. 9): tale indicatore era pari
al 17,2% nel 1951, un punto in meno di quello del Centro-Nord (18,7%), mentre
vent’anni dopo risultava quasi doppio (33,8% nel 1972), oltre 13 punti superiore a
quello del resto del Paese (20,4%). Nel periodo successivo il processo di
accumulazione si indebolisce, seguendo anche le alterne vicende delle politiche di
sviluppo: il tasso di accumulazione crolla nel 1992, per risultare nel 1995 agli stessi
livelli dei primi anni cinquanta (19,5%), qualche decimo di punto superiore a quello
del Centro-Nord (18,6%). Il processo di accumulazione riprende con lentezza nella
seconda parte degli anni novanta, ritornando nel 2009 al 21%, solo 2 punti in più di
quello del Centro-Nord (18,6%).
Il processo di convergenza delle regioni del Mezzogiorno segue quindi quello
di accumulazione di capitale, privato e pubblico: l’aumento relativo degli
investimenti sostiene la dinamica positiva della produttività e quindi il recupero del
differenziale di prodotto, mentre, quando il tasso di accumulazione scende, il
differenziale di reddito tende a riaprirsi.
L’andamento dei salari unitari nel Mezzogiorno non ha seguito quello,
piuttosto discontinuo, della produttività, ma è risultato molto più veloce. Di
conseguenza, tra il 1951 e il 2009, il costo del lavoro per unità di prodotto è
aumentato costantemente al Sud rispetto a quello del Centro-Nord, con
un’accelerazione alla fine degli anni sessanta (Fig. 10). Ne è seguita una perdita
relativa di competitività del Mezzogiorno, che ha compresso i profitti, ridotto i
margini per sostenere l’accumulazione di capitale, e nel complesso ha reso più fragile
lo sviluppo.
II. Le trasformazioni dell’economia e della società meridionale:
modernizzazione senza convergenza
3. L’analisi del divario Nord-Sud svolta sin qui certamente non smentisce lo
straordinario percorso di crescita fatto registrare dall’intero Paese nei 150 anni di
storia unitaria. Uno sviluppo cui hanno partecipato a pieno titolo anche le regioni del
Mezzogiorno. I mutamenti intervenuti sono stati profondi sia nella struttura
economica dell’area, sia, soprattutto, nelle condizioni sociali delle sue popolazioni.
Un percorso di accumulazione di capitale produttivo e sociale certamente
discontinuo, che ha alternato periodi di intenso sviluppo, quasi sempre coincidenti 6
con la crescita dell’intero Paese, a fasi di interruzione o anche di vero e proprio
declino.
Una lettura delle principali trasformazioni del Mezzogiorno non può che
partire dal dato della ricchezza (Fig. 11).
Il Prodotto interno lordo a prezzi costanti del Mezzogiorno è cresciuto tra il
1861 e 2010 di circa 18 volte. Il processo di sviluppo è stato assai diseguale.
Se dividiamo lo sviluppo complessivo del Sud nei 150 anni in tre segmenti
equivalenti, possiamo verificare che il Sud è cresciuto di 3 volte tra il 1861 e il 1951,
di altre tre volte nel ventennio aureo 1951-74 e di circa altre due volte e mezzo nei
successivi 40 anni fino ai giorni nostri.
È proprio nella fase che va dal 1951 al 1973 che intervengono i più importanti
mutamenti nella struttura dell’economia e della società del Mezzogiorno.
L’agricoltura è investita da uno straordinario sviluppo riconducibile all’agire
congiunto della riforma agraria, dei consistenti investimenti della Cassa per il
Mezzogiorno in opere di bonifica e di irrigazione, nonché della rapida e diffusa
adozione di innovazioni tecniche.
Gli effetti del processo di modernizzazione dell’economia meridionale sono
particolarmente rilevanti in termini di accelerazione del processo di
industrializzazione, che comincia a manifestarsi nel corso degli anni ’60. L’intensità
della trasformazione è confermata dalla netta riduzione del divario medio di
produttività del sistema industriale meridionale, il cui valore aggiunto per occupato
da un livello relativo rispetto a quello medio del Centro-Nord pari nel 1961 a circa il
59%, salì nel 1971 al 77,3 un recupero di produttività dovuto in misura significativa,
oltre che ai progressi delle singole branche dell’industria, allo spostamento di addetti
dai settori tradizionali a minore produttività a settori moderni.
Gli effetti sulla composizione dimensionale dell’industria meridionale furono
assai rilevanti (Fig. 12). Tra il 1951 e il 1981 la dimensione media delle unità locali
dell’industria meridionale si è più che quadruplicata, passando da 11,6 a 48,7,
riducendo significativamente la distanza dai valori medi del Centro-Nord.
Nonostante una dinamica dell’occupazione industriale meno accentuata che
nel Nord, il tasso di industrializzazione meridionale (Fig. 13), dopo una forte
flessione alla fine degli anni’50, segnò nel corso degli anni ’60, principalmente in
conseguenza della localizzazione di nuovi impianti di grandi dimensione, un 7
significativo incremento, che sarà poi però annullato nel corso degli anni ’80
(finendo con il risultare a tutt’oggi pari ad appena il 40% di quello del Centro-Nord).
Lo sviluppo avvenuto nel periodo della golden age del Sud fu uno sviluppo
senza occupazione, che – come posto in risalto da S. Cafiero – «non sarebbe stato
socialmente possibile se in quegli anni la scolarizzazione di massa e le assicurazioni
sociali non avessero fatto diminuire anche l’offerta di lavoro, sottraendo ad essa
quota rilevante di giovani e anziani […]. Nel Mezzogiorno poi l’emigrazione
attingendo soprattutto alle classi centrali di età, assolse una funzione surrogatoria
rispetto all’aumento dell’occupazione in loco».
Negli anni dal 1951 al 1974, si valuta siano emigrate dal Mezzogiorno circa
4,2 milioni di persone, dirette per oltre due terzi verso il Centro-Nord.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘70, fattori economici e politici
determinano, come s’è visto, una interruzione del processo di accumulazione di
capitale produttivo e sociale e porteranno a quello che è uno dei tratti salienti della
cd. età della dipendenza: il consolidamento del benessere attraverso una patologica
dipendenza dai trasferimenti pubblici.
È negli anni Ottanta che viene compiendosi il passaggio da un’azione
pubblica per il Mezzogiorno rivolta al sostegno dello sviluppo di un tessuto
economico produttivo a una politica orientata prevalentemente al sostegno dei redditi
delle famiglie e delle imprese. Proprio il progressivo estendersi della quota
redistributiva dell’intervento pubblico attraverso i trasferimenti dello Stato ha
sostenuto la capacità di spesa per consumi nel Mezzogiorno durante tutti gli anni ’80.
La sconfitta delle “speranze riformatrici” rappresenta il più evidente fallimento di
questa fase economica, che ci lascia una società più opulenta, ma che si è indebolita
nella sua parte più vitale, ha interrotto il processo di trasformazione della sua
economia verso una struttura più competitiva in grado di reggere la sfida dei processi
di globalizzazione degli anni ’90 e Duemila.
I primi anni novanta sono negativi per il Mezzogiorno: al blocco delle
politiche regionali del 1992 si associa l’inizio di una ripresa sostenuta dalla
svalutazione che premia principalmente i distretti industriali del Nord. Il
Mezzogiorno si aggancia al ciclo solo nella seconda metà degli anni novanta, con
una crescita – favorita anche dal ripartire delle politiche regionali – che supera in
quel quinquennio quella del resto del Paese (2,2% rispetto all’1,7% del CentroNord). 8
L’ultimo decennio inizia con l’entrata dell’Italia nell’Euro e culmina con la
più grande recessione dell’economia italiana (e mondiale) dal dopoguerra. L’intera
Italia in questo periodo soffre un forte problema di stagnazione della crescita. La
flessione del PIL pro capite è stata nel Centro-Nord anche più profonda (-0,9%) che
nel Mezzogiorno (-0,5%), anche se principalmente per effetto della ripresa dei flussi
demografici, in entrata soprattutto nel Centro-Nord. Rimane, oggi, l’incertezza
dell’uscita dalla crisi, che, rispetto al resto del Paese, sconta la debolezza del settore
industriale, la sua minore competitività e quindi anche la maggiore pressione
competitiva originata dalla globalizzazione dei mercati, che influenza maggiormente
i settori di specializzazione dell’economia del Mezzogiorno.
4. L’analisi dell’andamento nel centocinquantennio di alcuni indicatori di
carattere sociale offre un quadro delle trasformazioni del Mezzogiorno
sostanzialmente diverso da quello emerso con riferimento alla struttura economica e
produttiva. La dinamica degli indicatori sociali riportati nel Volume SVIMEZ
consente di delineare, all’interno di uno straordinario processo di miglioramento
della qualità della vita che ha interessato l’intero Paese, un percorso di convergenza
del Mezzogiorno verso i livelli del Centro-Nord.
Un indicatore del livello di benessere diffuso nella popolazione e quindi
anche, sia pur indirettamente, della distribuzione del reddito, in particolare, è quello
della speranza di vita (Fig. 14). Esso tiene conto soprattutto della possibilità di
accesso di una quota crescente della popolazione ai servizi sanitari pubblici. I dati
relativi al 1910 evidenziano anche nella speranza di vita un divario tra regioni del
Nord e del Sud piuttosto significativo: si viveva mediamente in Veneto 4 anni più
che in Campania e 8 più che in Puglia, che era la Regione italiana con la più bassa
aspettativa di vita. Il progresso è proseguito con continuità, sino a raggiungere nel
1970 un pieno riallineamento degli indicatori.
Gli indicatori sociali più importanti per valutare a pieno le trasformazioni
della società meridionale, e la connessione tra esse e i processi di sviluppo e
modernizzazione del sistema economico, sono certamente quelli relativi
all’istruzione.
Nel 1861 le differenze risultavano sorprendentemente elevate (Fig. 15). Al
Sud era analfabeta in media l’87% della popolazione, con picchi vicini al 90% in
Sardegna, Basilicata e Calabria. Partendo da questa situazione, il recupero del Sud 9
Italia appare inizialmente abbastanza lento per diventare più veloce verso la fine del
secolo. In un quadro complessivo di notevole innalzamento del livello di istruzione
nazionale la convergenza del Mezzogiorno è proseguita per tutto il Novecento.
Alla vigilia del miracolo economico, nel 1951, i tre quarti della popolazione
meridionale risultavano ormai alfabetizzati, nel resto d'Italia tale quota superava il
90%. Negli anni del boom economico il processo di convergenza delle regioni
meridionali nei livelli di istruzione accelera decisamente, per poi rallentare
nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Ma negli anni 2000, finalmente, il
Mezzogiorno riesce sostanzialmente a colmare i divari nei livelli di istruzione con il
resto del Paese.
Il tasso di scolarità per la secondaria superiore (Fig. 16) è passato da valori
intorno all’85% all’inizio degli anni duemila a valori superiori al 90% negli ultimi
anni (94,4% per l’anno scolastico 2009 – 2010). Anche nell’istruzione superiore, il
numero degli iscritti e dei laureati del Mezzogiorno è sostanzialmente in linea con
quelli del resto del Paese.
Il processo di convergenza è confermato anche da un indicatore di stock meno
soggetto a distorsioni, come gli anni di istruzione pro capite. Rilevando che
dall’unificazione tale indicatore si è più che decuplicato per l’Italia nel suo
complesso, emerge come al 2010 la differenza tra Mezzogiorno e Centro-Nord si sia
ridotta a circa mezzo anno (9,61 e 10,15 rispettivamente).
La breve e pur incompleta panoramica sugli indicatori di carattere sociale,
presentata nella nostra relazione, sembra confermare dunque l’esistenza di un
processo di trasformazione della società meridionale che, seppur non sempre intenso,
ha seguito sostanzialmente i progressi dell’intero Paese.
Appare, tuttavia, a nostro avviso evidente che ogni reale e stabile
raggiungimento di obiettivi di crescita del benessere e di rimozione delle condizioni
di dualismo della società italiana, non può che essere collegato al recupero del
divario in termini di opportunità di lavoro. La crescita del divario nei tassi di
occupazione registrata nel corso degli ultimi trent’anni tra Nord e Sud non può che
confermare, anche per il futuro, l’indissolubile legame nel medio-lungo periodo tra
crescita economica e crescita civile.
III. Il ruolo delle politiche 10
5. Il dualismo, come s’è visto, non segna fin dall’origine la vicenda
economica del Paese. E la stessa dinamica del divario di sviluppo non segue una
tendenza costante. La scansione temporale di questa evoluzione, ci porta a ragionare
sul ruolo che le politiche possono avere avuto nell’evoluzione del divario, nella
convinzione che questa non sia affatto indipendente dalle scelte (compiute o
mancate) di politica economica.
Le nostre valutazioni e interpretazioni affrontano la vicenda repubblicana a
partire dai primi anni ‘50, quando i divari registrati raggiungono, come visto, i
massimi livelli, e prendono avvio le politiche meridionaliste.
L’istituzione della Cassa segnò una svolta rispetto alla tradizione di
uniformità amministrativa dello Stato unitario e alla concezione, fino allora
dominante, della questione meridionale come problema da avviare a soluzione
essenzialmente sulla base di un corretto funzionamento dell’amministrazione
ordinaria.
L’intervento iniziale della Cassa fu volto alla cosiddetta
“preindustrializzazione”, alla creazione cioè delle condizioni ambientali per
l’esercizio di un’industria competitiva. Ed è solo dal 1957 che parte una vera politica
di industrializzazione, con il ricorso a più elaborati strumenti di sostegno finanziario
alla localizzazione degli investimenti produttivi. È una stagione che durò fino ai
primi anni Settata, ed in cui prese avvio l’infittimento della matrice produttiva
meridionale, con una quota crescente di investimenti industriali e una forte crescita
del tasso di accumulazione. La quota degli investimenti industriali meridionali (Fig.
17), sul totale nazionale, mediamente pari a meno del 15% negli anni Cinquanta, salì
al 24% negli anni Sessanta, e ad oltre il 33% tra il 1971 e 1975.
La forte politica dell’offerta che corse sulle gambe dell’intervento
infrastrutturale e di questa politica attiva di industrializzazione consentì al
Mezzogiorno di divenire per un quindicennio protagonista dello sviluppo economico
nazionale e di partecipare a pieno titolo alla golden age. A metà degli Settanta il
Mezzogiorno poteva considerarsi un sistema industriale in via di consolidamento con
molti tratti di fragilità e anche macroscopiche inefficienze, ma con una base
identificata di vocazioni e di potenzialità.
Il processo di trasformazione, come ricordato, fu bruscamente interrotto nei
primi anni Settanta, dagli shocks negativi di origine internazionale, cui fece seguito
uno strutturale abbassamento del tasso di crescita dell’economia rispetto al 11
precedente venticinquennio. Si trattò del passaggio ad una vera e propria nuova “fase
storica” dell’economia mondiale che − come da subito chiaramente avvertito dalla
SVIMEZ di Pasquale Saraceno (ma pochi colsero allora in questa prospettiva di
carattere “epocale”) − poneva in termini radicalmente nuovi, e assai più problematici,
la questione delle condizioni in cui «sarebbero continuati i processi di
industrializzazione ancora lontani dal compimento».
Sul versante della politica speciale, già dagli anni Settanta, si registrò una
progressiva perdita di efficacia dell’intervento straordinario determinata da molti
fattori, tra cui: l’attenuazione della selettività e generalizzazione degli accessi agli
incentivi; il dirottamento verso il Centro-Nord di agevolazioni e il progressivo
depotenziamento di quelle per il Sud; l’eccessiva proliferazione di aree di intervento,
che ne minò la concentrazione territoriale; e, in particolar modo, la crescente
difficoltà a rendere compatibile l’impostazione e la natura “tecnica” dell’azione della
Cassa con il “mutamento istituzionale” dall’avvio del regionalismo italiano e i
peculiari equilibri politici nazionali degli anni Settanta.
Ma, più in generale, è l’impegno del Paese verso l’unificazione economica
che in quegli anni segnò un progressivo indebolimento. La dimensione finanziaria
dell’intervento addizionale per il Mezzogiorno (Fig. 18) – che pure negli anni tra il
1951 e il 1975 era venuta accrescendosi, risultando però sempre minore dell’1% del
PIL nazionale – a partire dalla fine degli anni Settanta comincia a declinare. La
percentuale sul PIL della spesa dell’intervento straordinario, risultata negli anni ’50 e
’60 mediamente dello 0,7%, dopo aver raggiunto in tutti gli anni ’70 lo 0,9%, è scesa
nel periodo 1981-86 (di blocco operativo e poi chiusura della Cassa) allo 0,65%, per
poi far segnare nei successivi periodi 1987-93 (ancora di intervento straordinario,
benché completamente ridefinito in senso “localista” e con una sostanziale perdita
del carattere di unitarietà) e 1994-98 (già di intervento ordinario), rispettivamente, lo
0,57% e lo 0,49%.
All’indebolimento delle risorse per le politiche speciali rispetto alla ricchezza
del Paese si accompagnò una ridefinizione complessiva della politica
meridionalistica, da un’azione pubblica basata su politiche “attive” dell’offerta verso
un’azione rivolta prevalentemente alla domanda, anche attraverso il sostegno ai
redditi delle imprese operanti nell’area, con l’esplosione del sistema di
fiscalizzazione degli oneri sociali e contributivi, originariamente introdotto nel 1968
per compensare l’abolizione delle gabbie salariali. L’incidenza sul PIL di tale misura, 12
dagli anni ’80 fino alla chiusura dell’intervento straordinario raggiunse una quota
dello 0,55%, pressoché equivalente a quella della spesa dell’intero intervento
straordinario per infrastrutture e incentivi all’investimento.
La deriva dell’intervento trascinò con sé l’intera immagine pubblica del
Mezzogiorno: la perdita di efficacia porterà a parlare di degenerazione e a puntare
l’attenzione solo sulle malversazioni; e il Sud non solo perderà la centralità acquisita
nel ventennio della convergenza, ma viene gradualmente identificato come il luogo
fisico (sistema sociale e cultura) dove hanno origine, si sedimentano e si concentrano
storture e vizi capitali della società italiana: sprechi, inefficienza, clientelismo,
criminalità. Fu con quei “sentimenti” di ostilità o sfiducia che si giunse – sotto la
minaccia referendaria – alla frettolosa chiusura dell’intervento straordinario nel
1992.
6. Negli anni che seguirono, il nuovo “sistema di interventi ordinari nelle aree
depresse del territorio nazionale” (d.lgs. n. 96/1993), non tenne adeguatamente conto
dell’obiettivo di attenuare le rilevanti “diseconomie ambientali” presenti nel
Mezzogiorno, a partire dalle dotazioni infrastrutturali. Il sistema della cosiddetta
“programmazione negoziata” si rivelò anch’esso insufficiente. E, alla fine del
ventennio che parte dalla metà degli anni Settanta, era evidente l’arretramento del
processo di industrializzazione, frutto non solo dei fattori di contesto internazionale
ma anche della perdita della capacità di orientamento sia della politica industriale
nazionale sia di quella regionale.
Tassi di sviluppo industriale tra i più bassi di Europa e tassi di disoccupazione
tra i più elevati: era questa la condizione del Mezzogiorno alla vigilia
dell’unificazione monetaria. Anni di peggior andamento economico –
paradossalmente sottovalutato in ragione dell’entusiasmo per i nuovi meccanismi di
“sviluppo locale” che lasciavano grande spazio alle “rinnovate” classi dirigenti
meridionali – consegnavano un quadro difficile e un’impresa ardua alla nuova
stagione di meridionalismo che si aprì nel 1998.
Fu essenzialmente questo, infatti, il contesto in cui maturò, sotto la guida
dell’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, l’esperienza della cosiddetta
«Nuova Programmazione». Un’esperienza che si collocava indubbiamente nel solco
di una politica dell’offerta recuperando i principi ispiratori del primo intervento
straordinario (con forme di intervento attivo e discrezionale, che andavano dalla 13
fornitura di infrastrutture e programmazione urbanistica alla spesa in ricerca e
innovazione, dalla valorizzazione di risorse naturali e culturali alla erogazione di
incentivi), e che, per una breve fase, sembrò ricreare nel Paese quello spirito di
«missione» verso l’unificazione economica che l’Italia sembrava avere del tutto
smarrito nei venticinque anni precedenti.
Il decennio e oltre che ci separa dall’inizio e dalla operatività del nuovo
intervento non ci consente una piena ed univoca valutazione di tutti i suoi effetti;
eppure, questo non deve impedire la presa d’atto del macroscopico fallimento nel
rendimento economico. Salvo il breve periodo di lieve convergenza a fine anni
Novanta, i numeri, ancora una volta, sono impietosi: dal 2000 al 2008 – prima della
crisi, insomma – le regioni del Sud sono cresciute sempre meno del resto del Paese,
la crescita media del PIL è stata pari a poco più della metà di quella del Centro-Nord
(0,6% contro l’1%).
L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del
Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale
prolungato ristagno dell’economia nazionale rispetto al resto d’Europa. E a frenare il
processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono
per il Sud gravità del tutto particolare, nonché i gravi effetti di un “disegno debole”
di politiche generali nazionali che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo, hanno
costantemente mancato di adottare intensità e strumenti di intervento differenziati in
funzione della distribuzione territoriale dei problemi da affrontare.
Ma al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso anche una ridotta
efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, che trova
spiegazione, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale
complessiva destinata al Mezzogiorno (Fig. 19) assai inferiore a quanto
programmato, e in progressivo declino dopo il valore massimo registrato nel 2001
quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese, per giungere nel
2008 ad appena il 34,8% (valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale
originariamente fissato in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da
qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, in termini
di popolazione e di territorio).
I dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno servono a smentire l’idea, purtroppo
assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche
risorse; ma stanno anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva14
(comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il
deficit della spesa ordinaria (che nel 2007 – ultimo anno per cui si dispone di
informazioni – è stata pari ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa
16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del
30%, a tal titolo indicato nei documenti governativi). Lo storico vizio di sostitutività
dell’intervento speciale.
A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, ha però concorso
anche la scarsa qualità degli interventi: la dispersione delle risorse in una eccessiva
molteplicità di interventi; la lentezza e gli scoordinamenti nella concezione,
progettazione e realizzazione degli interventi stessi.
IV. Considerazioni conclusive
7. Si impone dunque una profonda “revisione” dell’intero quadro di
programmazione degli interventi di politica regionale. Ma il problema di un
superamento dei limiti della politica regionale rimanda anche e soprattutto a quello
della più generale carenza di una politica nazionale di sviluppo. Il problema da
affrontare è insomma duplice: quello di dare vita ad una strategia di rilancio del
“sistema Italia” nel suo complesso e, ad un tempo, di riinnescare un meccanismo di
integrazione tra le due macro-aree del Paese, accrescendone le interdipendenze, nella
prospettiva di un progressivo affievolirsi del problema interno. I due obiettivi sono
del resto strettamente interrelati e reciprocamente condizionanti: ancora oggi, nel
caso italiano, modernizzazione equivale a fare i conti con il problema del dualismo.
Il punto da cui partire, per impostare un discorso strategico, è che l’intero
sistema produttivo nazionale necessita di “invertire” il declino; che una politica che
miri a sostenere e rafforzare l’esistente è del tutto insufficiente; e che occorre quindi
procedere a sostanziali adeguamenti del modello di specializzazione. Ed è qui che
deve tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno.
La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno con
quello complessivo del sistema, recuperando dalla migliore lezione del passato
un’impostazione meridionalista che si ponga il problema della modernizzazione
nazionale, e dei vantaggi anche per il Nord di un Mezzogiorno che esca dalla crisi
puntando su uno sviluppo “non residuale”: dunque, non solo sull’«inseguimento» del 15
modello di sviluppo settentrionale italiano ed europeo, facendo da battistrada su una
via nuova per l’internazionalizzazione “attiva” del nostro sistema economico.

Fonte: Svimez.it

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Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia
SESSIONI DI STUDIO


Sessione I – Unificazione economica (andamenti dell’economia e politiche per il Sud)
Camera dei Deputati, Palazzo Marini
30 maggio 2011

150 anni di crescita, 150 anni di divari:
sviluppo, trasformazioni, politiche

Relazione SVIMEZ
(L.Bianchi, D.Miotti, R.Padovani, G.Pellegrini, G.Provenzano)


SINTESI
La nostra relazione ha per oggetto una considerazione complessiva
dell’andamento dell’economia nazionale e del dualismo, alla luce dell’amplio
materiale informativo contenuto nel volume SVIMEZ sui 150 anni di statistiche. In
questa sede, ci limiteremo a una prima sintesi: a) degli andamenti del divario di
sviluppo; b) delle principali trasformazioni della struttura economica e sociale
meridionale; c) di alcune valutazioni sugli effetti delle politiche di sviluppo dal
secondo dopoguerra ad oggi.
Siamo sicuri, peraltro, che le sessioni di studio previste nella giornata
offriranno analisi e interpretazioni più approfondite dei caratteri e delle determinanti
dell’evoluzione del dualismo.

I. Lo sviluppo del Mezzogiorno: 150 anni di divari, 150 anni di crescita
1. A centocinquant’anni dalla sua Unificazione, l’Italia rimane ancora divisa
nelle sue caratteristiche socio-economiche (Fig.1): lo sviluppo è polarizzato nelle
regioni centro-settentrionali, industrialmente avanzate e parte del core produttivo
dell’Europa, mentre quelle meridionali rimangono economicamente periferiche e in
ritardo di sviluppo. La persistenza di una grande questione di divario territoriale
rappresenta una condizione della vita economica e sociale dell’Italia ma anche un
intricato problema di mancato sviluppo del Paese e dell’intera Europa. Al 2009 2
nessuna delle regioni del Mezzogiorno raggiungeva il PIL pro capite medio
nazionale; al contrario, tutte le restanti regioni, esclusa l’Umbria, lo superavano. Nel
complesso, il prodotto pro capite dell’area risultava pari solo al 59% di quello del
Centro-Nord.
La presenza di un divario di ricchezza fra le due aree non è una caratteristica
immutabile della storia italiana: recenti ricostruzioni storiche segnalano che al
momento dell’Unità d’Italia il prodotto pro capite delle due aree era pressoché
simile. Questo non significa che non vi fossero forti squilibri regionali, tutt’altro. Ma
le differenziazioni interne alle due aree risultavano di gran lunga più importanti di
quelle tra le due macroregioni.
Nei 150 anni successivi i processi di convergenza non sono stati omogenei
nelle due aree: mentre nel Centro-Nord le regioni più povere sono cresciute più della
media nazionale, avvicinandosi quindi alle aree ricche dell’area, nel Mezzogiorno le
regioni relativamente più ricche sono cresciute meno della media, retrocedendo nello
sviluppo e quindi influenzando negativamente i risultati dell’area.
Quella che era una normale eterogeneità territoriale dello sviluppo si è
trasformata nella “questione meridionale”, ovvero nella presenza più importante in
Europa di una struttura territoriale dualistica.
Le conseguenze, in termini di analisi e di policy, sono state rilevanti:
all’interno di un mercato unico, i fenomeni di attrattività, concentrazione e
spiazzamento dei flussi di fattori produttivi in favore dell’area più sviluppata
ostacolano i processi di crescita dell’area debole. Le interdipendenze fra le aree
quindi rendono maggiormente indeterminati gli effetti delle politiche, e
indeboliscono le dinamiche di convergenza economica, sebbene possano rafforzare
quelle di convergenza nei livelli di benessere sociale.
L’accostamento delle serie annuali del prodotto pro capite stimate da Daniele
e Malanima (2007) per il periodo 1861-1951, con quelle più recenti, dal 1951,
prodotte dalla Svimez, permette di individuare un quadro complessivo e alcuni
periodi fondamentali, degli andamenti del divario fra le due aree dal momento
dell’Unità ad oggi.
Il periodo dopo l’Unità appare contraddistinto dalle prime difficoltà per le
regioni meridionali nel tenere il passo con il resto del Paese. Dalla fine dell’800
inizia una chiara divergenza di passo di tutte le regioni meridionali (Fig. 2). Tale
processo, continuo e prolungato, dura fino al secondo dopoguerra, e riguarda sia le 3
aree più ricche (come Campania e Sicilia), sia quelle più povere (come Calabria e
Abruzzi).
In una prima fase (1891-1919), le differenze si ampliano, principalmente per
effetto della crescita delle regioni del triangolo industriale (Lombardia, Piemonte e
soprattutto Liguria), mentre le altre regioni tendono a conservare (o a diminuire di
poco, nel caso del Mezzogiorno) le proprie posizioni relative.
Nella seconda fase (1920-1940), che comprende il ventennio fascista, i divari
accelerano. Meritano risalto i movimenti comuni delle regioni del Nord tutti orientati
alla crescita, insieme a Toscana e Lazio, anche se con diversi ritmi, e soprattutto
quelli delle regioni del Mezzogiorno (con Umbria e Marche), che invece perdono
tutte, in modo anche rilevante, rispetto al resto del Paese.
Nel periodo bellico le differenze si acuiscono, sempre a svantaggio del
Mezzogiorno.
La fase che va dal dopoguerra (Fig. 3). fino allo shock petrolifero,
contraddistinta da una forte crescita dell’intero Paese, nel quadro di una golden age
dello sviluppo dell’Occidente industrializzato, è invece il principale periodo di
convergenza: le regioni del Mezzogiorno si riavvicinano tutte ai livelli medi
nazionali, mentre la minore crescita delle regioni del triangolo industriale, in
particolare nei confronti di quelle della “terza Italia”, riduce i divari regionali anche
all’interno del Centro-Nord (Fig. 4).
Questo non avviene immediatamente: la fase di crescita forte e stabile, del
Mezzogiorno come dell’intera economia italiana, si sviluppa principalmente negli
anni ’60, per poi interrompersi bruscamente dopo i tre forti shocks che dopo
l’autunno del 1969 colpiscono l’intero Paese: salariali, petroliferi, di finanza pubblica
(Fig. 5). Dopo alterne vicende e, come vedremo, differenti tipologie di politiche di
intervento nel Mezzogiorno, la conclusione è che in quasi sessant’anni il divario di
crescita tra le regioni del Sud e il resto del Paese non si è riassorbito, a dispetto dei
forti cambiamenti avvenuti nella struttura produttiva e nelle politiche. Nel 2009, sei
decadi dopo la fine della guerra, il gap di prodotto pro capite del Mezzogiorno con il
resto del Paese era pari a 41 punti percentuali, con una riduzione di soli 6 punti
rispetto al 1951.
2. Identificare i fattori alla base dei divari di reddito regionale è molto
complesso. Essendo il reddito pro capite scomponibile tra produttività del lavoro e 4
tasso di occupazione, una prima analisi del divario può individuare il contributo di
entrambe le componenti nella spiegazione della sua dinamica (Fig. 6).
L’analisi mostra come nel complesso del periodo 1891-2009 l’aumento del
divario sia attribuibile sia a una minore dinamica della produttività del lavoro nelle
regioni del Mezzogiorno, sia ad un andamento relativamente inferiore del tasso di
occupazione, seppure con notevoli difformità nei sottoperiodi.
Nella prima metà del novecento, la componente principale che domina la
crescita del divario è data dalla produttività. Questo avviene nel primo periodo
(1891-1913), nel quale l’Italia del Nord realizza la sua prima industrializzazione e le
regioni del Mezzogiorno subiscono un forte flusso di emigrazione di persone in cerca
di lavoro. Nel periodo tra le due guerre (1920-1939), tale flusso si interrompe, e
questo, assieme alla ridotta diffusione dell’industrializzazione al Sud, spiega il ruolo
più elevato che assume nel periodo la componente di produttività.
Anche nel secondo dopoguerra, la produttività gioca il ruolo principale nella
dinamica del divario, ma invertito rispetto al passato: cresce più nel Mezzogiorno che
nel resto del Paese in virtù prevalentemente della diffusione dell’industrializzazione
e dell’ammodernamento dell’apparato produttivo al Sud. Tale dinamica compensa il
passo lento, relativamente al Centro-Nord, del tasso di occupazione.
Il processo di convergenza si attenua per poi scomparire nel periodo
successivo (1974-2009), in quanto tutto il recupero di produttività viene riassorbito
dalla peggiore dinamica dell’occupazione nelle regioni meridionali.
Nel complesso, la riduzione del divario di Pil pro-capite, tra il 1951 e il 2009,
è attribuibile completamente ai guadagni di produttività, che passa dal 64,6% del
Centro-Nord all’85,5% (Fig. 7). Tale incremento, di oltre 20 punti percentuali,
parzialmente compensa l’andamento relativamente negativo dell’occupazione: il
tasso di occupazione era pari nel 1951 all’81% di quello del Centro-Nord, solo al
68,9% nel 2009.
Se si osserva l’intero periodo 1951-2009, nel Mezzogiorno l’occupazione
stagna, mentre si incrementa dello 0,5% m.a. nel Centro-Nord. Nello stesso periodo,
la popolazione residente aumenta nel Mezzogiorno poco meno della metà del resto
del Paese (rispettivamente 0,3% e 0,5% m.a.) (Fig. 8).
Le informazioni di contabilità nazionale ricostruite dalla Svimez mostrano un
ruolo fondamentale dei processi di accumulazione nel catching up del dopoguerra. Il
tasso di accumulazione nel Mezzogiorno è risultato nel periodo 1951-1973 elevato e 5
sempre superiore a quello registrato nel Centro-Nord (Fig. 9): tale indicatore era pari
al 17,2% nel 1951, un punto in meno di quello del Centro-Nord (18,7%), mentre
vent’anni dopo risultava quasi doppio (33,8% nel 1972), oltre 13 punti superiore a
quello del resto del Paese (20,4%). Nel periodo successivo il processo di
accumulazione si indebolisce, seguendo anche le alterne vicende delle politiche di
sviluppo: il tasso di accumulazione crolla nel 1992, per risultare nel 1995 agli stessi
livelli dei primi anni cinquanta (19,5%), qualche decimo di punto superiore a quello
del Centro-Nord (18,6%). Il processo di accumulazione riprende con lentezza nella
seconda parte degli anni novanta, ritornando nel 2009 al 21%, solo 2 punti in più di
quello del Centro-Nord (18,6%).
Il processo di convergenza delle regioni del Mezzogiorno segue quindi quello
di accumulazione di capitale, privato e pubblico: l’aumento relativo degli
investimenti sostiene la dinamica positiva della produttività e quindi il recupero del
differenziale di prodotto, mentre, quando il tasso di accumulazione scende, il
differenziale di reddito tende a riaprirsi.
L’andamento dei salari unitari nel Mezzogiorno non ha seguito quello,
piuttosto discontinuo, della produttività, ma è risultato molto più veloce. Di
conseguenza, tra il 1951 e il 2009, il costo del lavoro per unità di prodotto è
aumentato costantemente al Sud rispetto a quello del Centro-Nord, con
un’accelerazione alla fine degli anni sessanta (Fig. 10). Ne è seguita una perdita
relativa di competitività del Mezzogiorno, che ha compresso i profitti, ridotto i
margini per sostenere l’accumulazione di capitale, e nel complesso ha reso più fragile
lo sviluppo.
II. Le trasformazioni dell’economia e della società meridionale:
modernizzazione senza convergenza
3. L’analisi del divario Nord-Sud svolta sin qui certamente non smentisce lo
straordinario percorso di crescita fatto registrare dall’intero Paese nei 150 anni di
storia unitaria. Uno sviluppo cui hanno partecipato a pieno titolo anche le regioni del
Mezzogiorno. I mutamenti intervenuti sono stati profondi sia nella struttura
economica dell’area, sia, soprattutto, nelle condizioni sociali delle sue popolazioni.
Un percorso di accumulazione di capitale produttivo e sociale certamente
discontinuo, che ha alternato periodi di intenso sviluppo, quasi sempre coincidenti 6
con la crescita dell’intero Paese, a fasi di interruzione o anche di vero e proprio
declino.
Una lettura delle principali trasformazioni del Mezzogiorno non può che
partire dal dato della ricchezza (Fig. 11).
Il Prodotto interno lordo a prezzi costanti del Mezzogiorno è cresciuto tra il
1861 e 2010 di circa 18 volte. Il processo di sviluppo è stato assai diseguale.
Se dividiamo lo sviluppo complessivo del Sud nei 150 anni in tre segmenti
equivalenti, possiamo verificare che il Sud è cresciuto di 3 volte tra il 1861 e il 1951,
di altre tre volte nel ventennio aureo 1951-74 e di circa altre due volte e mezzo nei
successivi 40 anni fino ai giorni nostri.
È proprio nella fase che va dal 1951 al 1973 che intervengono i più importanti
mutamenti nella struttura dell’economia e della società del Mezzogiorno.
L’agricoltura è investita da uno straordinario sviluppo riconducibile all’agire
congiunto della riforma agraria, dei consistenti investimenti della Cassa per il
Mezzogiorno in opere di bonifica e di irrigazione, nonché della rapida e diffusa
adozione di innovazioni tecniche.
Gli effetti del processo di modernizzazione dell’economia meridionale sono
particolarmente rilevanti in termini di accelerazione del processo di
industrializzazione, che comincia a manifestarsi nel corso degli anni ’60. L’intensità
della trasformazione è confermata dalla netta riduzione del divario medio di
produttività del sistema industriale meridionale, il cui valore aggiunto per occupato
da un livello relativo rispetto a quello medio del Centro-Nord pari nel 1961 a circa il
59%, salì nel 1971 al 77,3 un recupero di produttività dovuto in misura significativa,
oltre che ai progressi delle singole branche dell’industria, allo spostamento di addetti
dai settori tradizionali a minore produttività a settori moderni.
Gli effetti sulla composizione dimensionale dell’industria meridionale furono
assai rilevanti (Fig. 12). Tra il 1951 e il 1981 la dimensione media delle unità locali
dell’industria meridionale si è più che quadruplicata, passando da 11,6 a 48,7,
riducendo significativamente la distanza dai valori medi del Centro-Nord.
Nonostante una dinamica dell’occupazione industriale meno accentuata che
nel Nord, il tasso di industrializzazione meridionale (Fig. 13), dopo una forte
flessione alla fine degli anni’50, segnò nel corso degli anni ’60, principalmente in
conseguenza della localizzazione di nuovi impianti di grandi dimensione, un 7
significativo incremento, che sarà poi però annullato nel corso degli anni ’80
(finendo con il risultare a tutt’oggi pari ad appena il 40% di quello del Centro-Nord).
Lo sviluppo avvenuto nel periodo della golden age del Sud fu uno sviluppo
senza occupazione, che – come posto in risalto da S. Cafiero – «non sarebbe stato
socialmente possibile se in quegli anni la scolarizzazione di massa e le assicurazioni
sociali non avessero fatto diminuire anche l’offerta di lavoro, sottraendo ad essa
quota rilevante di giovani e anziani […]. Nel Mezzogiorno poi l’emigrazione
attingendo soprattutto alle classi centrali di età, assolse una funzione surrogatoria
rispetto all’aumento dell’occupazione in loco».
Negli anni dal 1951 al 1974, si valuta siano emigrate dal Mezzogiorno circa
4,2 milioni di persone, dirette per oltre due terzi verso il Centro-Nord.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘70, fattori economici e politici
determinano, come s’è visto, una interruzione del processo di accumulazione di
capitale produttivo e sociale e porteranno a quello che è uno dei tratti salienti della
cd. età della dipendenza: il consolidamento del benessere attraverso una patologica
dipendenza dai trasferimenti pubblici.
È negli anni Ottanta che viene compiendosi il passaggio da un’azione
pubblica per il Mezzogiorno rivolta al sostegno dello sviluppo di un tessuto
economico produttivo a una politica orientata prevalentemente al sostegno dei redditi
delle famiglie e delle imprese. Proprio il progressivo estendersi della quota
redistributiva dell’intervento pubblico attraverso i trasferimenti dello Stato ha
sostenuto la capacità di spesa per consumi nel Mezzogiorno durante tutti gli anni ’80.
La sconfitta delle “speranze riformatrici” rappresenta il più evidente fallimento di
questa fase economica, che ci lascia una società più opulenta, ma che si è indebolita
nella sua parte più vitale, ha interrotto il processo di trasformazione della sua
economia verso una struttura più competitiva in grado di reggere la sfida dei processi
di globalizzazione degli anni ’90 e Duemila.
I primi anni novanta sono negativi per il Mezzogiorno: al blocco delle
politiche regionali del 1992 si associa l’inizio di una ripresa sostenuta dalla
svalutazione che premia principalmente i distretti industriali del Nord. Il
Mezzogiorno si aggancia al ciclo solo nella seconda metà degli anni novanta, con
una crescita – favorita anche dal ripartire delle politiche regionali – che supera in
quel quinquennio quella del resto del Paese (2,2% rispetto all’1,7% del CentroNord). 8
L’ultimo decennio inizia con l’entrata dell’Italia nell’Euro e culmina con la
più grande recessione dell’economia italiana (e mondiale) dal dopoguerra. L’intera
Italia in questo periodo soffre un forte problema di stagnazione della crescita. La
flessione del PIL pro capite è stata nel Centro-Nord anche più profonda (-0,9%) che
nel Mezzogiorno (-0,5%), anche se principalmente per effetto della ripresa dei flussi
demografici, in entrata soprattutto nel Centro-Nord. Rimane, oggi, l’incertezza
dell’uscita dalla crisi, che, rispetto al resto del Paese, sconta la debolezza del settore
industriale, la sua minore competitività e quindi anche la maggiore pressione
competitiva originata dalla globalizzazione dei mercati, che influenza maggiormente
i settori di specializzazione dell’economia del Mezzogiorno.
4. L’analisi dell’andamento nel centocinquantennio di alcuni indicatori di
carattere sociale offre un quadro delle trasformazioni del Mezzogiorno
sostanzialmente diverso da quello emerso con riferimento alla struttura economica e
produttiva. La dinamica degli indicatori sociali riportati nel Volume SVIMEZ
consente di delineare, all’interno di uno straordinario processo di miglioramento
della qualità della vita che ha interessato l’intero Paese, un percorso di convergenza
del Mezzogiorno verso i livelli del Centro-Nord.
Un indicatore del livello di benessere diffuso nella popolazione e quindi
anche, sia pur indirettamente, della distribuzione del reddito, in particolare, è quello
della speranza di vita (Fig. 14). Esso tiene conto soprattutto della possibilità di
accesso di una quota crescente della popolazione ai servizi sanitari pubblici. I dati
relativi al 1910 evidenziano anche nella speranza di vita un divario tra regioni del
Nord e del Sud piuttosto significativo: si viveva mediamente in Veneto 4 anni più
che in Campania e 8 più che in Puglia, che era la Regione italiana con la più bassa
aspettativa di vita. Il progresso è proseguito con continuità, sino a raggiungere nel
1970 un pieno riallineamento degli indicatori.
Gli indicatori sociali più importanti per valutare a pieno le trasformazioni
della società meridionale, e la connessione tra esse e i processi di sviluppo e
modernizzazione del sistema economico, sono certamente quelli relativi
all’istruzione.
Nel 1861 le differenze risultavano sorprendentemente elevate (Fig. 15). Al
Sud era analfabeta in media l’87% della popolazione, con picchi vicini al 90% in
Sardegna, Basilicata e Calabria. Partendo da questa situazione, il recupero del Sud 9
Italia appare inizialmente abbastanza lento per diventare più veloce verso la fine del
secolo. In un quadro complessivo di notevole innalzamento del livello di istruzione
nazionale la convergenza del Mezzogiorno è proseguita per tutto il Novecento.
Alla vigilia del miracolo economico, nel 1951, i tre quarti della popolazione
meridionale risultavano ormai alfabetizzati, nel resto d'Italia tale quota superava il
90%. Negli anni del boom economico il processo di convergenza delle regioni
meridionali nei livelli di istruzione accelera decisamente, per poi rallentare
nell’ultimo ventennio del secolo scorso. Ma negli anni 2000, finalmente, il
Mezzogiorno riesce sostanzialmente a colmare i divari nei livelli di istruzione con il
resto del Paese.
Il tasso di scolarità per la secondaria superiore (Fig. 16) è passato da valori
intorno all’85% all’inizio degli anni duemila a valori superiori al 90% negli ultimi
anni (94,4% per l’anno scolastico 2009 – 2010). Anche nell’istruzione superiore, il
numero degli iscritti e dei laureati del Mezzogiorno è sostanzialmente in linea con
quelli del resto del Paese.
Il processo di convergenza è confermato anche da un indicatore di stock meno
soggetto a distorsioni, come gli anni di istruzione pro capite. Rilevando che
dall’unificazione tale indicatore si è più che decuplicato per l’Italia nel suo
complesso, emerge come al 2010 la differenza tra Mezzogiorno e Centro-Nord si sia
ridotta a circa mezzo anno (9,61 e 10,15 rispettivamente).
La breve e pur incompleta panoramica sugli indicatori di carattere sociale,
presentata nella nostra relazione, sembra confermare dunque l’esistenza di un
processo di trasformazione della società meridionale che, seppur non sempre intenso,
ha seguito sostanzialmente i progressi dell’intero Paese.
Appare, tuttavia, a nostro avviso evidente che ogni reale e stabile
raggiungimento di obiettivi di crescita del benessere e di rimozione delle condizioni
di dualismo della società italiana, non può che essere collegato al recupero del
divario in termini di opportunità di lavoro. La crescita del divario nei tassi di
occupazione registrata nel corso degli ultimi trent’anni tra Nord e Sud non può che
confermare, anche per il futuro, l’indissolubile legame nel medio-lungo periodo tra
crescita economica e crescita civile.
III. Il ruolo delle politiche 10
5. Il dualismo, come s’è visto, non segna fin dall’origine la vicenda
economica del Paese. E la stessa dinamica del divario di sviluppo non segue una
tendenza costante. La scansione temporale di questa evoluzione, ci porta a ragionare
sul ruolo che le politiche possono avere avuto nell’evoluzione del divario, nella
convinzione che questa non sia affatto indipendente dalle scelte (compiute o
mancate) di politica economica.
Le nostre valutazioni e interpretazioni affrontano la vicenda repubblicana a
partire dai primi anni ‘50, quando i divari registrati raggiungono, come visto, i
massimi livelli, e prendono avvio le politiche meridionaliste.
L’istituzione della Cassa segnò una svolta rispetto alla tradizione di
uniformità amministrativa dello Stato unitario e alla concezione, fino allora
dominante, della questione meridionale come problema da avviare a soluzione
essenzialmente sulla base di un corretto funzionamento dell’amministrazione
ordinaria.
L’intervento iniziale della Cassa fu volto alla cosiddetta
“preindustrializzazione”, alla creazione cioè delle condizioni ambientali per
l’esercizio di un’industria competitiva. Ed è solo dal 1957 che parte una vera politica
di industrializzazione, con il ricorso a più elaborati strumenti di sostegno finanziario
alla localizzazione degli investimenti produttivi. È una stagione che durò fino ai
primi anni Settata, ed in cui prese avvio l’infittimento della matrice produttiva
meridionale, con una quota crescente di investimenti industriali e una forte crescita
del tasso di accumulazione. La quota degli investimenti industriali meridionali (Fig.
17), sul totale nazionale, mediamente pari a meno del 15% negli anni Cinquanta, salì
al 24% negli anni Sessanta, e ad oltre il 33% tra il 1971 e 1975.
La forte politica dell’offerta che corse sulle gambe dell’intervento
infrastrutturale e di questa politica attiva di industrializzazione consentì al
Mezzogiorno di divenire per un quindicennio protagonista dello sviluppo economico
nazionale e di partecipare a pieno titolo alla golden age. A metà degli Settanta il
Mezzogiorno poteva considerarsi un sistema industriale in via di consolidamento con
molti tratti di fragilità e anche macroscopiche inefficienze, ma con una base
identificata di vocazioni e di potenzialità.
Il processo di trasformazione, come ricordato, fu bruscamente interrotto nei
primi anni Settanta, dagli shocks negativi di origine internazionale, cui fece seguito
uno strutturale abbassamento del tasso di crescita dell’economia rispetto al 11
precedente venticinquennio. Si trattò del passaggio ad una vera e propria nuova “fase
storica” dell’economia mondiale che − come da subito chiaramente avvertito dalla
SVIMEZ di Pasquale Saraceno (ma pochi colsero allora in questa prospettiva di
carattere “epocale”) − poneva in termini radicalmente nuovi, e assai più problematici,
la questione delle condizioni in cui «sarebbero continuati i processi di
industrializzazione ancora lontani dal compimento».
Sul versante della politica speciale, già dagli anni Settanta, si registrò una
progressiva perdita di efficacia dell’intervento straordinario determinata da molti
fattori, tra cui: l’attenuazione della selettività e generalizzazione degli accessi agli
incentivi; il dirottamento verso il Centro-Nord di agevolazioni e il progressivo
depotenziamento di quelle per il Sud; l’eccessiva proliferazione di aree di intervento,
che ne minò la concentrazione territoriale; e, in particolar modo, la crescente
difficoltà a rendere compatibile l’impostazione e la natura “tecnica” dell’azione della
Cassa con il “mutamento istituzionale” dall’avvio del regionalismo italiano e i
peculiari equilibri politici nazionali degli anni Settanta.
Ma, più in generale, è l’impegno del Paese verso l’unificazione economica
che in quegli anni segnò un progressivo indebolimento. La dimensione finanziaria
dell’intervento addizionale per il Mezzogiorno (Fig. 18) – che pure negli anni tra il
1951 e il 1975 era venuta accrescendosi, risultando però sempre minore dell’1% del
PIL nazionale – a partire dalla fine degli anni Settanta comincia a declinare. La
percentuale sul PIL della spesa dell’intervento straordinario, risultata negli anni ’50 e
’60 mediamente dello 0,7%, dopo aver raggiunto in tutti gli anni ’70 lo 0,9%, è scesa
nel periodo 1981-86 (di blocco operativo e poi chiusura della Cassa) allo 0,65%, per
poi far segnare nei successivi periodi 1987-93 (ancora di intervento straordinario,
benché completamente ridefinito in senso “localista” e con una sostanziale perdita
del carattere di unitarietà) e 1994-98 (già di intervento ordinario), rispettivamente, lo
0,57% e lo 0,49%.
All’indebolimento delle risorse per le politiche speciali rispetto alla ricchezza
del Paese si accompagnò una ridefinizione complessiva della politica
meridionalistica, da un’azione pubblica basata su politiche “attive” dell’offerta verso
un’azione rivolta prevalentemente alla domanda, anche attraverso il sostegno ai
redditi delle imprese operanti nell’area, con l’esplosione del sistema di
fiscalizzazione degli oneri sociali e contributivi, originariamente introdotto nel 1968
per compensare l’abolizione delle gabbie salariali. L’incidenza sul PIL di tale misura, 12
dagli anni ’80 fino alla chiusura dell’intervento straordinario raggiunse una quota
dello 0,55%, pressoché equivalente a quella della spesa dell’intero intervento
straordinario per infrastrutture e incentivi all’investimento.
La deriva dell’intervento trascinò con sé l’intera immagine pubblica del
Mezzogiorno: la perdita di efficacia porterà a parlare di degenerazione e a puntare
l’attenzione solo sulle malversazioni; e il Sud non solo perderà la centralità acquisita
nel ventennio della convergenza, ma viene gradualmente identificato come il luogo
fisico (sistema sociale e cultura) dove hanno origine, si sedimentano e si concentrano
storture e vizi capitali della società italiana: sprechi, inefficienza, clientelismo,
criminalità. Fu con quei “sentimenti” di ostilità o sfiducia che si giunse – sotto la
minaccia referendaria – alla frettolosa chiusura dell’intervento straordinario nel
1992.
6. Negli anni che seguirono, il nuovo “sistema di interventi ordinari nelle aree
depresse del territorio nazionale” (d.lgs. n. 96/1993), non tenne adeguatamente conto
dell’obiettivo di attenuare le rilevanti “diseconomie ambientali” presenti nel
Mezzogiorno, a partire dalle dotazioni infrastrutturali. Il sistema della cosiddetta
“programmazione negoziata” si rivelò anch’esso insufficiente. E, alla fine del
ventennio che parte dalla metà degli anni Settanta, era evidente l’arretramento del
processo di industrializzazione, frutto non solo dei fattori di contesto internazionale
ma anche della perdita della capacità di orientamento sia della politica industriale
nazionale sia di quella regionale.
Tassi di sviluppo industriale tra i più bassi di Europa e tassi di disoccupazione
tra i più elevati: era questa la condizione del Mezzogiorno alla vigilia
dell’unificazione monetaria. Anni di peggior andamento economico –
paradossalmente sottovalutato in ragione dell’entusiasmo per i nuovi meccanismi di
“sviluppo locale” che lasciavano grande spazio alle “rinnovate” classi dirigenti
meridionali – consegnavano un quadro difficile e un’impresa ardua alla nuova
stagione di meridionalismo che si aprì nel 1998.
Fu essenzialmente questo, infatti, il contesto in cui maturò, sotto la guida
dell’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, l’esperienza della cosiddetta
«Nuova Programmazione». Un’esperienza che si collocava indubbiamente nel solco
di una politica dell’offerta recuperando i principi ispiratori del primo intervento
straordinario (con forme di intervento attivo e discrezionale, che andavano dalla 13
fornitura di infrastrutture e programmazione urbanistica alla spesa in ricerca e
innovazione, dalla valorizzazione di risorse naturali e culturali alla erogazione di
incentivi), e che, per una breve fase, sembrò ricreare nel Paese quello spirito di
«missione» verso l’unificazione economica che l’Italia sembrava avere del tutto
smarrito nei venticinque anni precedenti.
Il decennio e oltre che ci separa dall’inizio e dalla operatività del nuovo
intervento non ci consente una piena ed univoca valutazione di tutti i suoi effetti;
eppure, questo non deve impedire la presa d’atto del macroscopico fallimento nel
rendimento economico. Salvo il breve periodo di lieve convergenza a fine anni
Novanta, i numeri, ancora una volta, sono impietosi: dal 2000 al 2008 – prima della
crisi, insomma – le regioni del Sud sono cresciute sempre meno del resto del Paese,
la crescita media del PIL è stata pari a poco più della metà di quella del Centro-Nord
(0,6% contro l’1%).
L’assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza del
Mezzogiorno ha cause complesse che rimandano in larga parte al generale
prolungato ristagno dell’economia nazionale rispetto al resto d’Europa. E a frenare il
processo di sviluppo concorrono problemi di dimensione nazionale, che assumono
per il Sud gravità del tutto particolare, nonché i gravi effetti di un “disegno debole”
di politiche generali nazionali che, in campi assai rilevanti per lo sviluppo, hanno
costantemente mancato di adottare intensità e strumenti di intervento differenziati in
funzione della distribuzione territoriale dei problemi da affrontare.
Ma al peggior andamento del Mezzogiorno ha concorso anche una ridotta
efficacia della politica regionale di sviluppo, nazionale e comunitaria, che trova
spiegazione, in primo luogo, in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale
complessiva destinata al Mezzogiorno (Fig. 19) assai inferiore a quanto
programmato, e in progressivo declino dopo il valore massimo registrato nel 2001
quando essa fu pari al 41,1% della spesa in conto capitale del Paese, per giungere nel
2008 ad appena il 34,8% (valore non solo ben lontano dal 45% del totale nazionale
originariamente fissato in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da
qualche anno, non eguaglia neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, in termini
di popolazione e di territorio).
I dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno servono a smentire l’idea, purtroppo
assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche
risorse; ma stanno anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva14
(comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il
deficit della spesa ordinaria (che nel 2007 – ultimo anno per cui si dispone di
informazioni – è stata pari ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa
16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del
30%, a tal titolo indicato nei documenti governativi). Lo storico vizio di sostitutività
dell’intervento speciale.
A deprimere l’efficacia della complessiva politica regionale, ha però concorso
anche la scarsa qualità degli interventi: la dispersione delle risorse in una eccessiva
molteplicità di interventi; la lentezza e gli scoordinamenti nella concezione,
progettazione e realizzazione degli interventi stessi.
IV. Considerazioni conclusive
7. Si impone dunque una profonda “revisione” dell’intero quadro di
programmazione degli interventi di politica regionale. Ma il problema di un
superamento dei limiti della politica regionale rimanda anche e soprattutto a quello
della più generale carenza di una politica nazionale di sviluppo. Il problema da
affrontare è insomma duplice: quello di dare vita ad una strategia di rilancio del
“sistema Italia” nel suo complesso e, ad un tempo, di riinnescare un meccanismo di
integrazione tra le due macro-aree del Paese, accrescendone le interdipendenze, nella
prospettiva di un progressivo affievolirsi del problema interno. I due obiettivi sono
del resto strettamente interrelati e reciprocamente condizionanti: ancora oggi, nel
caso italiano, modernizzazione equivale a fare i conti con il problema del dualismo.
Il punto da cui partire, per impostare un discorso strategico, è che l’intero
sistema produttivo nazionale necessita di “invertire” il declino; che una politica che
miri a sostenere e rafforzare l’esistente è del tutto insufficiente; e che occorre quindi
procedere a sostanziali adeguamenti del modello di specializzazione. Ed è qui che
deve tornare in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno.
La sfida è di portare a coerenza l’interesse specifico del Mezzogiorno con
quello complessivo del sistema, recuperando dalla migliore lezione del passato
un’impostazione meridionalista che si ponga il problema della modernizzazione
nazionale, e dei vantaggi anche per il Nord di un Mezzogiorno che esca dalla crisi
puntando su uno sviluppo “non residuale”: dunque, non solo sull’«inseguimento» del 15
modello di sviluppo settentrionale italiano ed europeo, facendo da battistrada su una
via nuova per l’internazionalizzazione “attiva” del nostro sistema economico.

Fonte: Svimez.it

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