mercoledì 17 novembre 2010

Ma siete sicuri che l’Italia esiste?


UN FALLIMENTO LE CELEBRAZIONI DEL CENTOCINQUANTENARIO


DI WLODEK GOLDKORN E GIGI RIVA
DA L’ESPRESSO 15.11.2010


Mentre al Nord si torna a parlare di secessione, al Sud crescono i partiti meridionalisti. E le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità sono sempre piú un fallimento. Così dietro la crisi di governo se ne profila una più grave: la crisi d’identità
(15 novembre 2010)

Professore. Ma noi, cosa ci guadagnamo ad essere italiani? È una domanda", racconta Giovanni De Luna, docente di Storia all’Università di Torino, "che mi ha posto uno studente durante una lezione". Dall’empireo dell’ateneo culla dell’unità d’Italia al trash tv: in una puntata de "I soliti ignoti" c’è un attore travestito da Garibaldi. Alla domanda cosa facesse il personaggio presentato - la concorrente, una giovane donna - può scegliere tra tre opzioni: addestra i cammelli, fa il sosia di un eroe, possiede una discoteca. La signora non ha dubbi: l’uomo coi capelli lunghi, barba bianca e mantella rossa è un allevatore di cammelli. Memoria debole e conti di convenienza: ma allora noi italiani siamo o non siamo una nazione?

L’eterna domanda ha risposte alterne a seconda di umori momentanei. Vince l’Italia del calcio ed è un tornado di bandiere tricolori. Ma appena si spengono le luci dei "circenses" e si gratta in profondità ecco che il tormentone riparte: mai cosí acceso, come adesso che siamo alla vigilia dell’anniversario tondo dei 150 anni. Dalle Alpi alla Sicilia è un tripudio di rivendicazioni territoriali e ogni fazzoletto di suolo ha il suo motivo di risentimento. Se è assodata l’avversione verso il centro dei "padani" e della loro voce politica, la Lega, riemerge, come un fiume carsico, una nostalgia sudista per il periodo preunitario. Il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo trova assonanze curiose col sindaco di Verona Flavio Tosi. Uniti sí, nel convergere il fuoco contro il centro, quella Roma che sarebbe ladrona anche guardata da sotto in su. Nascono partiti localisti fin dal nome (Gianfranco Micciché). E vanno ulteriormente a spezzettare quel centrodestra sempre piú diviso nella rappresentazione di interessi "particulari" dei suoi elettori. Il risultato è un disagio profondo di ministri e istituzioni nel promuovere davvero e, con convinzione, le celebrazioni per i 150 anni. Disagio che si riflette in scelte, anzi in non scelte per ignavia che hanno convinto molti illustri personaggi a dimettersi dal comitato dei garanti dell’evento: l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Gustavo Zagrebelsky, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi, Ludina Barzini, Dacia Maraini. Col ministro della Cultura Sandro Bondi impegnato nell’improba opera di spiegare che invece il governo ci tiene eccome e sono pronti 37 milioni, 21 del suo dicastero e 16 della presidenza del Consiglio. Utili solo a finanziare un terzo delle iniziative che aveva previsto Prodi.

La politica arranca, si mostra reticente e invece l’editoria ha fiutato il business. Le librerie sono inondate di testi, la gente compra e legge. Per il resto un disastro. Perfino un’alluvione (nel Veneto) anziché occasione di solidarietà diventa pretesto per minacciare uno sciopero fiscale e urlare la rabbia. Una nazione di orfani abbandonati, sembra l’Italia. O, forse, c’è solo una cocente delusione. Prendiamo "Noi credevamo", il film di Mario Martone, che va nelle sale in questi giorni. La storia narra di tre ragazzi del Cilento che si arruolano nella Giovine Italia di Mazzini. Sono patrioti: vogliono un’Italia libera, democratica, giusta. Passano poco piú di trent’anni, e uno di loro (incarnato da Luigi Lo Cascio), sale le scale del Parlamento di Torino e immagina di ammazzare l’ex mazziniano Francesco Crispi mentre pronuncia un discorso trasformista ("Noi repubblicani sapremo essere piú fedeli alla monarchia dei monarchici stessi"). L’unità d’Italia, suggerisce il regista, è stata fatta male. O, forse, è stata fatta in modo da far diventare anche i piú puri tra gli idealisti in piccole canaglie e carrieristi, e anche in terroristi. Sognavamo il paradiso, sembra dire Martone, abbiamo costruito uno squallido inferno: perché, è la diagnosi, le élites (ma ne ha parlato già Gramsci) non hanno saputo coinvolgere il popolo.

"È già successo nel 1911 e 1961, per il 50esimo e il centesimo anniversario dell’Unità. Forse essere insoddisfatti del modo in cui siamo diventati e siamo nazione è la maniera di essere italiani", dice De Luna. Ma poi, spiega, c’è una differenza, tra l’allora e l’oggi: sta nell’idea di memoria condivisa. O meglio, in quello che De Luna chiama "la religione civile". Nel 1911 a contestare sono i socialisti: avrebbero voluto una Repubblica, non la monarchia. Nel 1961 i comunisti si lamentano della irrisolta questione meridionale, nonostante il boom economico sbandierato dai democristiani al potere: "Ma tutto questo sulla base della constatazione che l’esistenza dell’l’Italia come Stato, per quanto imperfetto, sia un bene. Nel 1911 la memoria del Risorgimento era il fondamento della vita civile, come lo era nel 1961 il richiamo alla Resistenza e alla Costituzione. Oggi, per la prima volta si mette in questione il senso dello Stato stesso". Perché? "Tutti gli imprenditori della politica oggi sono interessati a rimuovere il passato. Il Pd non sa qual è il suo albero geneaologico: non è facile conciliare De Gasperi con Togliatti. Forza Italia ha una cultura e un’organizzazione di tipo aziendale che non contempla religione civile. La destra del passato preferisce non parlare. Rimane la Lega, con la sua idea di discontinuità e di improbabili riti celtici, ai quali ora si aggiunge l’interpretazione cattolica integralista di un Risorgimento frutto di un complotto massonico. E cosí alla fine, nel discorso pubblico, vincono i valori mercantili, conviene o non conviene essere italiani. L’unico a difendere il recinto dei valori di una nazione, rimane il presidente della Repubblica Napolitano".
E poi, dice De Luna c’è la tv: il principale strumento attraverso cui viene esibito in pubblico il dolore. Essere vittima di un sopruso dà diritto alla parola. E al risarcimento. "Ecco perché il Nord vuole essere risarcito per i sacrifici fatti a favore del Sud. Il Sud chiede di essere risarcito per i danni subiti dai piemontesi".

Leggere il libro di Pino Aprile, giornalista, per credere. Si intitola "Terroni", è uscito per Piemme, ha avuto 14 ristampe, ed è una piccola Bibbia di ogni risentimento. Scrive Aprile: "I piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto".

C’è la narrazione delle stragi perpetrate dalle truppe sabaude a Pontelandolfo e Casalduni nel Beneventano, nel quadro della lotta al brigantaggio; e ci sono esempi di industrie del Sud distrutte per far spazio al Nord. Piú articolato, meno viscerale e piú problematico, ma simile nell’impostazione il volume di Giordano Bruno Guerri "Il sangue del Sud" (Mondadori). Insomma, per l’odio dell’Italia si rivalutano i Borbone?

Marta Petrusewicz, insegna all’Università di Cosenza e allo Hunter College di New York. Negli anni Novanta ha dato alle stampe un’opera che segna la svolta nella storiografia sul Sud, "Come il Meridione divenne una Questione". Oggi spiega: "Certo, il regno delle Due Sicilie aveva il potenziale per diventare una vera nazione e quindi c’è molta memoria rimossa e molto passato che non è stato portato a compimento. Però, l’idea che il Meridione non avesse possibilità di riscatto senza l’aiuto del Nord è stata degli intellettuali del Sud".

Annota Paolo Macry, storico all’Università di Napoli, parlando del malumore (o il disinteresse) che suscitano le celebrazioni del 150esimo: "Dappertutto in Europa lo Stato è in crisi, il suo potere si affievolisce. Da noi però di piú. Perché manca una vera storia preunitaria dei territori che fanno l’Italia". E parlando del futuro spiega: "La vera questione è geopolitica ed economica. Il nostro Paese è composto da vari territori. Ed è ovvio che Milano è piú vicina alla Svizzera che non a Palermo. Ma la domanda cruciale è: "chi paga la spesa pubblica?", non se avesse ragione Cattaneo o se i Borbone sono da rivalutare. Oggi, dietro la contestazione dell’Unità c’è un’idea semplice: noi del Nord ci salviamo, voi del Sud andate al diavolo".

Piú radicale Franco Brevini. Nel suo "La letteratura degli italiani: perché molti la celebrano e pochi la amano" (Feltrinelli) dice che la lingua dei nostri scrittori è il toscano, un idioma "straniero", quindi. E con una simile lingua non si può costruire né identità né letteratura nazionale.

E se tutto fosse davvero solo delusione? Verso la fine del film di Martone, Lo Cascio il garibaldino è con la camicie rosse in Aspromonte. All’improvviso, dopo la (non) battaglia contro i piemontesi da idealista combattente un po’ su con gli anni si trasforma in un amareggiato anziano, spettatore di una grande Storia andata male. Però in Italia si sente a casa sua.


Fonte:L'Espresso


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UN FALLIMENTO LE CELEBRAZIONI DEL CENTOCINQUANTENARIO


DI WLODEK GOLDKORN E GIGI RIVA
DA L’ESPRESSO 15.11.2010


Mentre al Nord si torna a parlare di secessione, al Sud crescono i partiti meridionalisti. E le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità sono sempre piú un fallimento. Così dietro la crisi di governo se ne profila una più grave: la crisi d’identità
(15 novembre 2010)

Professore. Ma noi, cosa ci guadagnamo ad essere italiani? È una domanda", racconta Giovanni De Luna, docente di Storia all’Università di Torino, "che mi ha posto uno studente durante una lezione". Dall’empireo dell’ateneo culla dell’unità d’Italia al trash tv: in una puntata de "I soliti ignoti" c’è un attore travestito da Garibaldi. Alla domanda cosa facesse il personaggio presentato - la concorrente, una giovane donna - può scegliere tra tre opzioni: addestra i cammelli, fa il sosia di un eroe, possiede una discoteca. La signora non ha dubbi: l’uomo coi capelli lunghi, barba bianca e mantella rossa è un allevatore di cammelli. Memoria debole e conti di convenienza: ma allora noi italiani siamo o non siamo una nazione?

L’eterna domanda ha risposte alterne a seconda di umori momentanei. Vince l’Italia del calcio ed è un tornado di bandiere tricolori. Ma appena si spengono le luci dei "circenses" e si gratta in profondità ecco che il tormentone riparte: mai cosí acceso, come adesso che siamo alla vigilia dell’anniversario tondo dei 150 anni. Dalle Alpi alla Sicilia è un tripudio di rivendicazioni territoriali e ogni fazzoletto di suolo ha il suo motivo di risentimento. Se è assodata l’avversione verso il centro dei "padani" e della loro voce politica, la Lega, riemerge, come un fiume carsico, una nostalgia sudista per il periodo preunitario. Il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo trova assonanze curiose col sindaco di Verona Flavio Tosi. Uniti sí, nel convergere il fuoco contro il centro, quella Roma che sarebbe ladrona anche guardata da sotto in su. Nascono partiti localisti fin dal nome (Gianfranco Micciché). E vanno ulteriormente a spezzettare quel centrodestra sempre piú diviso nella rappresentazione di interessi "particulari" dei suoi elettori. Il risultato è un disagio profondo di ministri e istituzioni nel promuovere davvero e, con convinzione, le celebrazioni per i 150 anni. Disagio che si riflette in scelte, anzi in non scelte per ignavia che hanno convinto molti illustri personaggi a dimettersi dal comitato dei garanti dell’evento: l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, Gustavo Zagrebelsky, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi, Ludina Barzini, Dacia Maraini. Col ministro della Cultura Sandro Bondi impegnato nell’improba opera di spiegare che invece il governo ci tiene eccome e sono pronti 37 milioni, 21 del suo dicastero e 16 della presidenza del Consiglio. Utili solo a finanziare un terzo delle iniziative che aveva previsto Prodi.

La politica arranca, si mostra reticente e invece l’editoria ha fiutato il business. Le librerie sono inondate di testi, la gente compra e legge. Per il resto un disastro. Perfino un’alluvione (nel Veneto) anziché occasione di solidarietà diventa pretesto per minacciare uno sciopero fiscale e urlare la rabbia. Una nazione di orfani abbandonati, sembra l’Italia. O, forse, c’è solo una cocente delusione. Prendiamo "Noi credevamo", il film di Mario Martone, che va nelle sale in questi giorni. La storia narra di tre ragazzi del Cilento che si arruolano nella Giovine Italia di Mazzini. Sono patrioti: vogliono un’Italia libera, democratica, giusta. Passano poco piú di trent’anni, e uno di loro (incarnato da Luigi Lo Cascio), sale le scale del Parlamento di Torino e immagina di ammazzare l’ex mazziniano Francesco Crispi mentre pronuncia un discorso trasformista ("Noi repubblicani sapremo essere piú fedeli alla monarchia dei monarchici stessi"). L’unità d’Italia, suggerisce il regista, è stata fatta male. O, forse, è stata fatta in modo da far diventare anche i piú puri tra gli idealisti in piccole canaglie e carrieristi, e anche in terroristi. Sognavamo il paradiso, sembra dire Martone, abbiamo costruito uno squallido inferno: perché, è la diagnosi, le élites (ma ne ha parlato già Gramsci) non hanno saputo coinvolgere il popolo.

"È già successo nel 1911 e 1961, per il 50esimo e il centesimo anniversario dell’Unità. Forse essere insoddisfatti del modo in cui siamo diventati e siamo nazione è la maniera di essere italiani", dice De Luna. Ma poi, spiega, c’è una differenza, tra l’allora e l’oggi: sta nell’idea di memoria condivisa. O meglio, in quello che De Luna chiama "la religione civile". Nel 1911 a contestare sono i socialisti: avrebbero voluto una Repubblica, non la monarchia. Nel 1961 i comunisti si lamentano della irrisolta questione meridionale, nonostante il boom economico sbandierato dai democristiani al potere: "Ma tutto questo sulla base della constatazione che l’esistenza dell’l’Italia come Stato, per quanto imperfetto, sia un bene. Nel 1911 la memoria del Risorgimento era il fondamento della vita civile, come lo era nel 1961 il richiamo alla Resistenza e alla Costituzione. Oggi, per la prima volta si mette in questione il senso dello Stato stesso". Perché? "Tutti gli imprenditori della politica oggi sono interessati a rimuovere il passato. Il Pd non sa qual è il suo albero geneaologico: non è facile conciliare De Gasperi con Togliatti. Forza Italia ha una cultura e un’organizzazione di tipo aziendale che non contempla religione civile. La destra del passato preferisce non parlare. Rimane la Lega, con la sua idea di discontinuità e di improbabili riti celtici, ai quali ora si aggiunge l’interpretazione cattolica integralista di un Risorgimento frutto di un complotto massonico. E cosí alla fine, nel discorso pubblico, vincono i valori mercantili, conviene o non conviene essere italiani. L’unico a difendere il recinto dei valori di una nazione, rimane il presidente della Repubblica Napolitano".
E poi, dice De Luna c’è la tv: il principale strumento attraverso cui viene esibito in pubblico il dolore. Essere vittima di un sopruso dà diritto alla parola. E al risarcimento. "Ecco perché il Nord vuole essere risarcito per i sacrifici fatti a favore del Sud. Il Sud chiede di essere risarcito per i danni subiti dai piemontesi".

Leggere il libro di Pino Aprile, giornalista, per credere. Si intitola "Terroni", è uscito per Piemme, ha avuto 14 ristampe, ed è una piccola Bibbia di ogni risentimento. Scrive Aprile: "I piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto".

C’è la narrazione delle stragi perpetrate dalle truppe sabaude a Pontelandolfo e Casalduni nel Beneventano, nel quadro della lotta al brigantaggio; e ci sono esempi di industrie del Sud distrutte per far spazio al Nord. Piú articolato, meno viscerale e piú problematico, ma simile nell’impostazione il volume di Giordano Bruno Guerri "Il sangue del Sud" (Mondadori). Insomma, per l’odio dell’Italia si rivalutano i Borbone?

Marta Petrusewicz, insegna all’Università di Cosenza e allo Hunter College di New York. Negli anni Novanta ha dato alle stampe un’opera che segna la svolta nella storiografia sul Sud, "Come il Meridione divenne una Questione". Oggi spiega: "Certo, il regno delle Due Sicilie aveva il potenziale per diventare una vera nazione e quindi c’è molta memoria rimossa e molto passato che non è stato portato a compimento. Però, l’idea che il Meridione non avesse possibilità di riscatto senza l’aiuto del Nord è stata degli intellettuali del Sud".

Annota Paolo Macry, storico all’Università di Napoli, parlando del malumore (o il disinteresse) che suscitano le celebrazioni del 150esimo: "Dappertutto in Europa lo Stato è in crisi, il suo potere si affievolisce. Da noi però di piú. Perché manca una vera storia preunitaria dei territori che fanno l’Italia". E parlando del futuro spiega: "La vera questione è geopolitica ed economica. Il nostro Paese è composto da vari territori. Ed è ovvio che Milano è piú vicina alla Svizzera che non a Palermo. Ma la domanda cruciale è: "chi paga la spesa pubblica?", non se avesse ragione Cattaneo o se i Borbone sono da rivalutare. Oggi, dietro la contestazione dell’Unità c’è un’idea semplice: noi del Nord ci salviamo, voi del Sud andate al diavolo".

Piú radicale Franco Brevini. Nel suo "La letteratura degli italiani: perché molti la celebrano e pochi la amano" (Feltrinelli) dice che la lingua dei nostri scrittori è il toscano, un idioma "straniero", quindi. E con una simile lingua non si può costruire né identità né letteratura nazionale.

E se tutto fosse davvero solo delusione? Verso la fine del film di Martone, Lo Cascio il garibaldino è con la camicie rosse in Aspromonte. All’improvviso, dopo la (non) battaglia contro i piemontesi da idealista combattente un po’ su con gli anni si trasforma in un amareggiato anziano, spettatore di una grande Storia andata male. Però in Italia si sente a casa sua.


Fonte:L'Espresso


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