"Il Veneto mantiene il Sud come fa la Germania con la Grecia"..così tuonava qualche giorno fa Zaia, il neo eletto presidente della regione veneto. Ma le cose stanno veramente così?..E poi se così fosse (e non lo è)..perchè siamo arrivati a tanto?
Ci aiuta a capire come stanno le coseGaetano Salvemini, con le sue "attualissime analisi" sulla"Questione Meridionale".
Il pensiero che Gaetano Salvemini ha elaborato fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento rappresenta, di certo, uno dei contributi più lucidi e lungimiranti che la classe politica ed intellettuale di quegli anni sia riuscita a produrre.
In un’epoca in cui l’Italia viveva una profondissima crisi politica, sociale ed economica, Salvemini ha anticipato molti dei suoi contemporanei nell’analisi e nella proposta di risoluzione dei più gravi problemi che travagliavano l’Italia.
Non avrebbe fatto piacere allo storico pugliese il ritrovare, a distanza di oltre cento anni, la questione meridionale ascritta in quell’elenco che indica chiaramente che la questione è ancora presente, è ancora viva, in altri termini, è ancora irrisolta.
L’amore che Salvemini nutriva per i meridionali fu forte al punto da influenzarne tutte le scelte; e la questione meridionale era da lui considerata l’irrinunciabile punto da cui partire per lo sviluppo dell’Italia intera. Salvemini aveva infatti chiaro che “il nodo dei problemi che andava sotto il nome di questione meridionale, diventava la condizione pregiudiziale per la trasformazione dell’Italia in un paese civile, ed il banco di prova quindi dei partiti che si ponevano come partiti di audace rinnovamento o rivoluzione”. E Salvemini, infatti, considerò la questione meridionale come punto di confine fra la corruzione e lo sviluppo dell’Italia.
E’ questo, quindi, il motivo per cui ogni sua azione ed ogni suo scritto furono volti alla risoluzione di un unico problema: quello della disparità fra il Nord e il Sud d’Italia. E’ importante tenere presente che, a parere di molti studiosi, le condizioni di squilibrio fra il Nord e il Sud erano dovute ad una serie di fattori non superabili che ponevano il Sud in una posizione di insanabile inferiorità rispetto al Nord.
Infatti “le spiegazioni positivistiche, scientifiche, della maggioranza degli scrittori di cose meridionali, attribuivano la causa dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno a fatti naturali come il clima e la razza, contro cui sarebbe stato vano lottare”. E’ ovvio che considerazioni di questo tipo furono fatte in funzione di un disinteresse sprezzante per le condizioni del Meridione. Analizzandola, la posizione di Salvemini è di totale contrasto: “nego assolutamente che il carattere dei meridionali, diverso da quello dei settentrionali, abbia alcuna parte nella diversità di sviluppo dei due paesi. La razza si forma nella storia ed è effetto di essa non causa; spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da semplicisti”. In realtà, la posizione di Salvemini è storicamente documentata; è confermata, infatti, la tesi secondo cui l’arretratezza del meridione era dovuta a minori opportunità di sviluppo del Sud rispetto al Nord. Allora, come per troppi aspetti ancora oggi, il Nord rappresentava il centro degli interessi economici, e quindi la zona su cui maggiormente investire.
Il Meridione, a parere di Salvemini, soffriva di tre malattie: lo Stato accentratore, l’oppressione economica del Nord ed una struttura sociale semifeudale.
Le prime due, generate da politiche protezionistiche ed autoritarie, permettevano al Nord di opprimere il mezzogiorno.
Cosa strana è che, quando si unì l’Italia, il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti; l’unità, quindi, ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gli interessi dei debiti contratti dai settentrionali. Infatti la ripartizione del carico fiscale era estremamente iniqua e “faceva sì che l’Italia settentrionale, la quale possedeva il 48% della ricchezza del paese, pagava meno del 40% del carico tributario, mentre l’Italia meridionale, con il 27% della ricchezza pagava il 32%”.
L’Italia meridionale, quindi, dava senza ricevere, poiché tutti gli investimenti, come quelli destinati all’esercito ed alle ferrovie, erano concentrati prevalentemente nel settentrione. “L’Italia meridionale – scrive Salvemini – deve oggi comprare dall’Italia del Nord i prodotti manifatturieri ai prezzi, che gli industriali si son compiaciuti di stabilire; viceversa non può vendere al Nord le sue derrate agricole, perché le tariffe ferroviarie rendono impossibile la circolazione delle merci di gran volume e di basso prezzo quali sono appunto i prodotti dell’agricoltura meridionale”.
Quindi, le tasse ed i dazi sui prodotti agricoli, ben “dieci volte superiori a quelli dei prodotti manifatturieri”, impedivano in Italia il commercio dei prodotti meridionali, esclusivamente agricoli.
“Così – accusa Salvemini – noi assistiamo allo spettacolo che i limoni si pagano cinque a soldo a Messina e due soldi l’uno a Firenze, e un litro di vino costa venti centesimi a Barletta e cinquanta a Lodi”.
Dunque le tasse ed i dazi furono stabiliti con un unico scopo: sviluppare il mercato del Nord e rendere non concorrenziale quello del Sud. Gli industriali settentrionali poterono accordarsi con il governo a loro piacimento tanto che Salvemini, sarcasticamente, scrive così: “ e meno male che in Lombardia sono scarsi i vigneti, e che i proprietari lombardi non sono minacciati, come i piemontesi dalla concorrenza dei vini meridionali: se questo fosse, noi vedremmo anche in Lombardia le amministrazioni comunali, dominate dai proprietari, istituire dazi differenziali a danno dei vini a forte gradazione alcolica (meridionali) in modo da rialzarne artificialmente i prezzi più che non sieno rialzati dalle tariffe ferroviarie, e restringerne il consumo a tutto vantaggio dei vini locali”.
Da qui il rammarico sconsolato di un Salvemini alla continua ricerca di una via d’uscita; un provvedimento, una riforma che avesse creato i presupposti di una concorrenza onesta nel commercio italiano ed internazionale. “Potessimo almeno le nostre merci venderle fuori dall’Italia Ma le nazioni straniere, non potendo per le tariffe del 1887 venderci i loro prodotti industriali – ché il monopolio di questi se lo sono attribuito gl’industriali del Nord – non vogliono saperne naturalmente dei nostri vini, dei nostri ortaggi, della nostra frutta dei nostri agrumi.
Per meglio spiegare la terza “malattia”, la struttura sociale semifeudale, Salvemini ricorda che la società meridionale era distinta in tre classi sociali: la grande proprietà, la piccola borghesia e il proletariato agricolo.
Il pensiero che Gaetano Salvemini ha elaborato fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento rappresenta, di certo, uno dei contributi più lucidi e lungimiranti che la classe politica ed intellettuale di quegli anni sia riuscita a produrre.
In un’epoca in cui l’Italia viveva una profondissima crisi politica, sociale ed economica, Salvemini ha anticipato molti dei suoi contemporanei nell’analisi e nella proposta di risoluzione dei più gravi problemi che travagliavano l’Italia.
Non avrebbe fatto piacere allo storico pugliese il ritrovare, a distanza di oltre cento anni, la questione meridionale ascritta in quell’elenco che indica chiaramente che la questione è ancora presente, è ancora viva, in altri termini, è ancora irrisolta.
L’amore che Salvemini nutriva per i meridionali fu forte al punto da influenzarne tutte le scelte; e la questione meridionale era da lui considerata l’irrinunciabile punto da cui partire per lo sviluppo dell’Italia intera. Salvemini aveva infatti chiaro che “il nodo dei problemi che andava sotto il nome di questione meridionale, diventava la condizione pregiudiziale per la trasformazione dell’Italia in un paese civile, ed il banco di prova quindi dei partiti che si ponevano come partiti di audace rinnovamento o rivoluzione”. E Salvemini, infatti, considerò la questione meridionale come punto di confine fra la corruzione e lo sviluppo dell’Italia.
E’ questo, quindi, il motivo per cui ogni sua azione ed ogni suo scritto furono volti alla risoluzione di un unico problema: quello della disparità fra il Nord e il Sud d’Italia. E’ importante tenere presente che, a parere di molti studiosi, le condizioni di squilibrio fra il Nord e il Sud erano dovute ad una serie di fattori non superabili che ponevano il Sud in una posizione di insanabile inferiorità rispetto al Nord.
Infatti “le spiegazioni positivistiche, scientifiche, della maggioranza degli scrittori di cose meridionali, attribuivano la causa dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno a fatti naturali come il clima e la razza, contro cui sarebbe stato vano lottare”. E’ ovvio che considerazioni di questo tipo furono fatte in funzione di un disinteresse sprezzante per le condizioni del Meridione. Analizzandola, la posizione di Salvemini è di totale contrasto: “nego assolutamente che il carattere dei meridionali, diverso da quello dei settentrionali, abbia alcuna parte nella diversità di sviluppo dei due paesi. La razza si forma nella storia ed è effetto di essa non causa; spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da semplicisti”. In realtà, la posizione di Salvemini è storicamente documentata; è confermata, infatti, la tesi secondo cui l’arretratezza del meridione era dovuta a minori opportunità di sviluppo del Sud rispetto al Nord. Allora, come per troppi aspetti ancora oggi, il Nord rappresentava il centro degli interessi economici, e quindi la zona su cui maggiormente investire.
Il Meridione, a parere di Salvemini, soffriva di tre malattie: lo Stato accentratore, l’oppressione economica del Nord ed una struttura sociale semifeudale.
Le prime due, generate da politiche protezionistiche ed autoritarie, permettevano al Nord di opprimere il mezzogiorno.
Cosa strana è che, quando si unì l’Italia, il Napoletano e la Sicilia non avevano debiti; l’unità, quindi, ebbe l’effetto di obbligare i meridionali a pagare gli interessi dei debiti contratti dai settentrionali. Infatti la ripartizione del carico fiscale era estremamente iniqua e “faceva sì che l’Italia settentrionale, la quale possedeva il 48% della ricchezza del paese, pagava meno del 40% del carico tributario, mentre l’Italia meridionale, con il 27% della ricchezza pagava il 32%”.
L’Italia meridionale, quindi, dava senza ricevere, poiché tutti gli investimenti, come quelli destinati all’esercito ed alle ferrovie, erano concentrati prevalentemente nel settentrione. “L’Italia meridionale – scrive Salvemini – deve oggi comprare dall’Italia del Nord i prodotti manifatturieri ai prezzi, che gli industriali si son compiaciuti di stabilire; viceversa non può vendere al Nord le sue derrate agricole, perché le tariffe ferroviarie rendono impossibile la circolazione delle merci di gran volume e di basso prezzo quali sono appunto i prodotti dell’agricoltura meridionale”.
Quindi, le tasse ed i dazi sui prodotti agricoli, ben “dieci volte superiori a quelli dei prodotti manifatturieri”, impedivano in Italia il commercio dei prodotti meridionali, esclusivamente agricoli.
“Così – accusa Salvemini – noi assistiamo allo spettacolo che i limoni si pagano cinque a soldo a Messina e due soldi l’uno a Firenze, e un litro di vino costa venti centesimi a Barletta e cinquanta a Lodi”.
Dunque le tasse ed i dazi furono stabiliti con un unico scopo: sviluppare il mercato del Nord e rendere non concorrenziale quello del Sud. Gli industriali settentrionali poterono accordarsi con il governo a loro piacimento tanto che Salvemini, sarcasticamente, scrive così: “ e meno male che in Lombardia sono scarsi i vigneti, e che i proprietari lombardi non sono minacciati, come i piemontesi dalla concorrenza dei vini meridionali: se questo fosse, noi vedremmo anche in Lombardia le amministrazioni comunali, dominate dai proprietari, istituire dazi differenziali a danno dei vini a forte gradazione alcolica (meridionali) in modo da rialzarne artificialmente i prezzi più che non sieno rialzati dalle tariffe ferroviarie, e restringerne il consumo a tutto vantaggio dei vini locali”.
Da qui il rammarico sconsolato di un Salvemini alla continua ricerca di una via d’uscita; un provvedimento, una riforma che avesse creato i presupposti di una concorrenza onesta nel commercio italiano ed internazionale. “Potessimo almeno le nostre merci venderle fuori dall’Italia Ma le nazioni straniere, non potendo per le tariffe del 1887 venderci i loro prodotti industriali – ché il monopolio di questi se lo sono attribuito gl’industriali del Nord – non vogliono saperne naturalmente dei nostri vini, dei nostri ortaggi, della nostra frutta dei nostri agrumi.
Per meglio spiegare la terza “malattia”, la struttura sociale semifeudale, Salvemini ricorda che la società meridionale era distinta in tre classi sociali: la grande proprietà, la piccola borghesia e il proletariato agricolo.
Ora, il potere incontrastato dei latifondisti, impediva la formazione di una borghesia moderna come quella presente nel Nord, e che sola avrebbe permesso lo sviluppo e la democratizzazione del meridione. Salvemini, inoltre, faceva notare come il potere delle prime due classi fosse forte al punto da influenzare e manipolare la vita politica e sociale del meridione. Questa analisi, ovviamente, è salveminiana, cioè dura e spietata; ma utile poiché lascia intendere al lettore quanto egli realmente conoscesse la situazione meridionale.
La grande proprietà, antichissima nelle sue dinastie, era riuscita a superare indenne tutti i vari cambiamenti di regime restando sempre in sella, ed aveva “fatto sì che il Risorgimento risultasse nel Mezzogiorno non una rivoluzione, ma una corbellatura, ed [era] e sarà pronta sempre a vestire nuove livree pur di difendere il suo potere fino all’ultimo sangue”.
La grande proprietà, antichissima nelle sue dinastie, era riuscita a superare indenne tutti i vari cambiamenti di regime restando sempre in sella, ed aveva “fatto sì che il Risorgimento risultasse nel Mezzogiorno non una rivoluzione, ma una corbellatura, ed [era] e sarà pronta sempre a vestire nuove livree pur di difendere il suo potere fino all’ultimo sangue”.
A parere di Salvemini, il potere della grande proprietà sarebbe rimasto forte perché risulta essere coordinato, oltre che appoggiato dalla piccola borghesia con cui si era creato un solido legame di cooperazione. “I due alleati si distribuiscono, da buoni amici, il terreno da sfruttare”.
Dunque, i latifondisti si adoperavano perché nulla cambiasse. Ogni loro azione era volta al mantenimento di quei vecchi privilegi ormai perduti in ogni altra parte dell’Italia.
“I latifondisti e la grande proprietà fondiaria erano indenni dai mali che affliggevano il Mezzogiorno, ed erano i veri beneficiari dello status quo, che perciò essi erano pronti a difendere con le unghie e con i denti”. Sarebbe necessario ricordare che i grandi proprietari non erano neppure oppressi dalle tasse. Ad esempio, posto che nel sistema tributario meridionale aveva grossa consistenza il dazio sul consumo, i latifondisti pagavano poche tasse perché il calcolo era fatto non in base a quanto il terreno avrebbe potuto produrre, ma a quanto in realtà produceva. E poiché i terreni producevano poco, poco pagavano. “Se i grandi proprietari non erano oppressi dalle tasse, in compenso essi e soltanto essi si giovavano dei dazi di importazione sul grano, che costituivano un grosso tributo annuo pagato dai consumatori al loro dolce far niente”
Per attualizzarne il concetto sostituiamo a "latifondisti" industriali sovvenzionati dallo stato, evasori fiscali, tecnocrazia politica, burocrazia, sistema politico, mafie...etc etc.
“I latifondisti e la grande proprietà fondiaria erano indenni dai mali che affliggevano il Mezzogiorno, ed erano i veri beneficiari dello status quo, che perciò essi erano pronti a difendere con le unghie e con i denti”. Sarebbe necessario ricordare che i grandi proprietari non erano neppure oppressi dalle tasse. Ad esempio, posto che nel sistema tributario meridionale aveva grossa consistenza il dazio sul consumo, i latifondisti pagavano poche tasse perché il calcolo era fatto non in base a quanto il terreno avrebbe potuto produrre, ma a quanto in realtà produceva. E poiché i terreni producevano poco, poco pagavano. “Se i grandi proprietari non erano oppressi dalle tasse, in compenso essi e soltanto essi si giovavano dei dazi di importazione sul grano, che costituivano un grosso tributo annuo pagato dai consumatori al loro dolce far niente”
Per attualizzarne il concetto sostituiamo a "latifondisti" industriali sovvenzionati dallo stato, evasori fiscali, tecnocrazia politica, burocrazia, sistema politico, mafie...etc etc.
...Della piccola borghesia Salvemini, sottolinea il perenne senso di frustrazione e gli appetiti mai soddisfatti per l’impossibilità in cui era questa classe di migliorare la propria condizione economica. Ad essa era precluso l’accesso alle attività produttive. I piccoli borghesi erano “costretti a vivere dei modestissimi redditi loro derivanti dei pochi terreni che [possedevano] e sulla lontana e difficile prospettiva di diventare professionisti o impiegati”. Calcando le tinte Salvemini spiega che le ristrettezze in cui i piccoli borghesi erano costretti a vivere facevano sì che “la lotta per l’esistenza [assumesse] per loro un carattere di mostruosità, di ferocia, di pazzo accanimento e la vita [divenisse] uno spasimo continuo, un inferno, di fronte al quale l’inferno vero sarebbe il più desiderabile dei paradisi.
Pur avendo però una laurea o un diploma i piccoli borghesi del Sud non erano affatto persone colte; se lo fossero state si sarebbero forse condotti in modo differente. Non avrebbero certamente sfruttato una situazione così precaria proprio a discapito dei loro concittadini più umili.
Non si sarebbero certo accontentati di sfruttare una società così “disgraziata”, da cui avrebbero potuto trarre molti vantaggi solo se avessero cooperato per elevarne gli enormi potenziali di sviluppo.
“Andate – scrive Salvemini – un pomeriggio d’estate in uno di quei circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana; ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi spenti, dalla voce fessa, mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono infarciti i discorsi.
E abbiate il coraggio di dire che i meridionali sono intelligenti!”.
Salvemini ha speso, nei confronti della piccola borghesia, parole sempre più aspre, evidenziandone l’animo cupido ed il costume ozioso, centrando la sua accusa sul comportamento parassitario ed opportunista.
“L’Italia meridionale di oggi non è più quella di quindici anni fa. I contadini meridionali non sono più i miserabili di una volta. Ogni giorno più miserabile, invece diventa la piccola borghesia parassita ed oziosa che scrive sui giornali e piange sulle miserie proprie, credendole in buona fede miserie di tutta l’Italia meridionale”.
Parole dure, vibranti di disprezzo per l’egoismo che aveva distrutto le terre del meridione, a lui tanto care.
“La borghesia non esiste; il proletariato non ha diritti politici: la classe che forma il corpo elettorale è la piccola borghesia dei cui voti i latifondisti hanno, quindi, bisogno per tenersi su.
Si ha così un’associazione fra latifondisti e piccoli borghesi, che è la chiave di volta di tutta la vita pubblica meridionale”.
L’alleanza consisteva in un macchinoso, ma ben studiato gioco elettorale che avrebbe garantito loro posti di potere, contrastando ogni forma di progresso a danno del proletariato agricolo.
Ciò non è paradossale, se si tiene presente che, non essendoci ancora il suffragio universale, le persone con diritto di voto erano realmente poche.
Come scrive Salvemini “la presente legge elettorale escludendo dal voto gli analfabeti, e riducendo nel Mezzodì a proporzioni minime il numero degli elettori, fa sì che lo spostamento di cento o duecento voti determini la vittoria”.
Ecco, questo è il punto di appoggio della critica salveminiana.
Non esistendo una vera e propria borghesia, la piccola borghesia “frustrata” formava la gran parte del corpo elettorale.
Avveniva così che la grande proprietà se ne serviva per poter controllare le elezioni, mantenendo sempre intatti i suoi poteri ed i suoi privilegi e impedendo la nascita di una borghesia moderna.
“I deputati meridionali – scrive Salvemini – facevano consistere il loro ufficio nel fare raccomandazioni e procurar favori agli elettori, e per essi una croce di cavaliere aveva più importanza che un trattato di commercio o un progetto di legge per le pensioni […]”.
Così, il patto scellerato fra i latifondisti e i piccoli borghesi permetteva una vera e propria spartizione dei seggi assegnati o da assegnare con le elezioni.
Si aveva così che “i latifondisti si prendevano il parlamento e la piccola borghesia lavorava nei Consigli comunali. […] Dominio dei latifondisti nella vita politica, dominio di una frazione della piccola borghesia a danno del proletariato nella vita amministrativa”.
Viene da sé che, stando così le cose, queste classi avevano un illimitato potere su ogni atto che riguardasse l’Italia meridionale.
“Ignoranti peggio dei macigni. I più non hanno mai imparato o hanno disimparato a lo scrivere”.
Poche parole, che però la dicono lunga sulle condizioni dei contadini. Il proletariato agricolo, non potendo vantare alcun diritto politico per povertà e mancanza di istruzione, riesciva sconfitto ed impossibilitato a fare qualunque cosa per risollevare la sua posizione.
“Nessuno si occupa di essere elettore; se qualcuno si trova, senza saperlo come, iscritto nelle liste, non va a votare, o ci va trascinato da qualche conoscente, da ebete, senza aver coscienza di quel che fa”. Vittima, quindi, della carnefice alleanza fra i “potenti”, “i contadini meridionali sono abbandonati a se stessi, non possono far nulla, hanno bisogno di essere illuminati e guidati, ma non hanno nessuno che possa illuminarli e guidarli”.
Il proletariato, come denuncia Salvemini, viveva in uno stato di totale abbandono. Lasciati allo sbando dalla borghesia e dai troppo potenti latifondisti i proletari vivevano inermi lo sfruttamento e la miseria.
“Dove gli operai industriali mancano ed i contadini sono impermeabili alla propaganda nostra, ivi l’idea socialista o non penetra o, se penetra si corrompe”.
È facile dedurre dalle parole di Salvemini che le pratiche dei favoritismi, della corruzione e dello sfruttamento, risultavano all’ordine del giorno nella vita pubblica meridionale, così precisamente, così realisticamente ma, allo stesso tempo, così dolorosamente dipinta da Salvemini.
Ed infatti, come egli scrive, “la vita pubblica si riduce ad una serie continua di strisciamenti vicendevoli, di mercimoni, di servilismi di tutti verso tutti. L’origine dei deputati meridionali sta tutta in questa condizione di cose, la quale è intollerabile per tutti”.....Dopo oltre 100 anni cos'è cambiato ?
Pur avendo però una laurea o un diploma i piccoli borghesi del Sud non erano affatto persone colte; se lo fossero state si sarebbero forse condotti in modo differente. Non avrebbero certamente sfruttato una situazione così precaria proprio a discapito dei loro concittadini più umili.
Non si sarebbero certo accontentati di sfruttare una società così “disgraziata”, da cui avrebbero potuto trarre molti vantaggi solo se avessero cooperato per elevarne gli enormi potenziali di sviluppo.
“Andate – scrive Salvemini – un pomeriggio d’estate in uno di quei circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana; ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi spenti, dalla voce fessa, mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono infarciti i discorsi.
E abbiate il coraggio di dire che i meridionali sono intelligenti!”.
Salvemini ha speso, nei confronti della piccola borghesia, parole sempre più aspre, evidenziandone l’animo cupido ed il costume ozioso, centrando la sua accusa sul comportamento parassitario ed opportunista.
“L’Italia meridionale di oggi non è più quella di quindici anni fa. I contadini meridionali non sono più i miserabili di una volta. Ogni giorno più miserabile, invece diventa la piccola borghesia parassita ed oziosa che scrive sui giornali e piange sulle miserie proprie, credendole in buona fede miserie di tutta l’Italia meridionale”.
Parole dure, vibranti di disprezzo per l’egoismo che aveva distrutto le terre del meridione, a lui tanto care.
“La borghesia non esiste; il proletariato non ha diritti politici: la classe che forma il corpo elettorale è la piccola borghesia dei cui voti i latifondisti hanno, quindi, bisogno per tenersi su.
Si ha così un’associazione fra latifondisti e piccoli borghesi, che è la chiave di volta di tutta la vita pubblica meridionale”.
L’alleanza consisteva in un macchinoso, ma ben studiato gioco elettorale che avrebbe garantito loro posti di potere, contrastando ogni forma di progresso a danno del proletariato agricolo.
Ciò non è paradossale, se si tiene presente che, non essendoci ancora il suffragio universale, le persone con diritto di voto erano realmente poche.
Come scrive Salvemini “la presente legge elettorale escludendo dal voto gli analfabeti, e riducendo nel Mezzodì a proporzioni minime il numero degli elettori, fa sì che lo spostamento di cento o duecento voti determini la vittoria”.
Ecco, questo è il punto di appoggio della critica salveminiana.
Non esistendo una vera e propria borghesia, la piccola borghesia “frustrata” formava la gran parte del corpo elettorale.
Avveniva così che la grande proprietà se ne serviva per poter controllare le elezioni, mantenendo sempre intatti i suoi poteri ed i suoi privilegi e impedendo la nascita di una borghesia moderna.
“I deputati meridionali – scrive Salvemini – facevano consistere il loro ufficio nel fare raccomandazioni e procurar favori agli elettori, e per essi una croce di cavaliere aveva più importanza che un trattato di commercio o un progetto di legge per le pensioni […]”.
Così, il patto scellerato fra i latifondisti e i piccoli borghesi permetteva una vera e propria spartizione dei seggi assegnati o da assegnare con le elezioni.
Si aveva così che “i latifondisti si prendevano il parlamento e la piccola borghesia lavorava nei Consigli comunali. […] Dominio dei latifondisti nella vita politica, dominio di una frazione della piccola borghesia a danno del proletariato nella vita amministrativa”.
Viene da sé che, stando così le cose, queste classi avevano un illimitato potere su ogni atto che riguardasse l’Italia meridionale.
“Ignoranti peggio dei macigni. I più non hanno mai imparato o hanno disimparato a lo scrivere”.
Poche parole, che però la dicono lunga sulle condizioni dei contadini. Il proletariato agricolo, non potendo vantare alcun diritto politico per povertà e mancanza di istruzione, riesciva sconfitto ed impossibilitato a fare qualunque cosa per risollevare la sua posizione.
“Nessuno si occupa di essere elettore; se qualcuno si trova, senza saperlo come, iscritto nelle liste, non va a votare, o ci va trascinato da qualche conoscente, da ebete, senza aver coscienza di quel che fa”. Vittima, quindi, della carnefice alleanza fra i “potenti”, “i contadini meridionali sono abbandonati a se stessi, non possono far nulla, hanno bisogno di essere illuminati e guidati, ma non hanno nessuno che possa illuminarli e guidarli”.
Il proletariato, come denuncia Salvemini, viveva in uno stato di totale abbandono. Lasciati allo sbando dalla borghesia e dai troppo potenti latifondisti i proletari vivevano inermi lo sfruttamento e la miseria.
“Dove gli operai industriali mancano ed i contadini sono impermeabili alla propaganda nostra, ivi l’idea socialista o non penetra o, se penetra si corrompe”.
È facile dedurre dalle parole di Salvemini che le pratiche dei favoritismi, della corruzione e dello sfruttamento, risultavano all’ordine del giorno nella vita pubblica meridionale, così precisamente, così realisticamente ma, allo stesso tempo, così dolorosamente dipinta da Salvemini.
Ed infatti, come egli scrive, “la vita pubblica si riduce ad una serie continua di strisciamenti vicendevoli, di mercimoni, di servilismi di tutti verso tutti. L’origine dei deputati meridionali sta tutta in questa condizione di cose, la quale è intollerabile per tutti”.....Dopo oltre 100 anni cos'è cambiato ?
..... Secondo Salvemini v'era un altro fattore che impediva il riscatto dei proletari meridionali: l’atteggiamento governativo. Nel meridione, a differenza di ciò che accadeva al Nord, ogni manifestazione e ogni forma di protesta contraria alle disposizioni governative veniva inevitabilmente repressa.
“In questi anni abbiam visto la mafia, la camorra, la malavita, tutta la feccia sociale dei nostri paesi, palesemente protetta dal Governo centrale, […] abbiam visto massacrare senza pietà i nostri proletari ad ogni minimo accenno di disordine, mentre al Nord la forza pubblica aveva per gli operai mille riguardi e mille tolleranze, come ben si addice a persone che appartengono a una razza più gentile”. Al Nord, infatti, il governo tollerava le manifestazioni, concedendo inevitabilmente la possibilità di numerose azioni volte alla conquista dei diritti fondamentali. Ma, come denuncia Salvemini, quando qualcuno lamentava le infamie commesse, e le disparità con la “razza gentile”, “essi o non rispondevano o ci facevano capire che non credevano alle nostre parole, o facevano una scrollata di spalle e dicevano: da noi il governo non fa così; la colpa non è di Giolitti; è vostra”.
Queste parole non possono che confermare la scarsa considerazione umana che si aveva nei confronti del mezzogiorno. È amaro pensare che, proprio alla parte più debole di un unico popolo fossero riservati tali trattamenti. È difficile accettare come “per molti settentrionali, anche fra coloro che più spesso fanno sfoggio di retorica unitaria, le popolazioni meridionali sono cagnaccia da macello e da bordello”.
Ma questo non è un luogo comune; il disprezzo che le popolazioni settentrionali provavano nei confronti dei loro connazionali, emerge anche in altre pagine di Salvemini. Toccante, ad esempio, il racconto in cui egli, memore di un viaggio in treno, riporta il giudizio di un piemontese: “postacci – si lasciava andare il piemontese al passaggio per un villaggio del Sud – creda pure che qui non ci si vive. Qui aria cattiva, acqua pessima, dialetto incomprensibile che par turco, popolazione superstiziosa barbara”.
Il meridione, quindi, viveva in condizioni difficili che andavano affrontate in modo energico. Si capisce come Salvemini, molfettese fino alle midolla delle ossa, si adoperò cercando di risollevarne le condizioni, e di trovare delle soluzioni concrete che ne riscattassero lo stato d’arretratezza.
E’ importante però chiarire un punto. Molti criticano Salvemini accusandolo di aver difeso il Mezzogiorno, trascurando, così, quelle che erano le reali necessità del momento. Il problemismo ed il concretismo di cui si fa interprete Salvemini, poggiava invece su basi molto solide che non possono essere trascurate. Quello di Salvemini, infatti, era un socialismo che, pur ponendo al primo posto la protezione delle classi più deboli della società, non si lasciò mai corrompere dallo spirito di parte e restò sempre legato alla concreta realtà.
“In questi anni abbiam visto la mafia, la camorra, la malavita, tutta la feccia sociale dei nostri paesi, palesemente protetta dal Governo centrale, […] abbiam visto massacrare senza pietà i nostri proletari ad ogni minimo accenno di disordine, mentre al Nord la forza pubblica aveva per gli operai mille riguardi e mille tolleranze, come ben si addice a persone che appartengono a una razza più gentile”. Al Nord, infatti, il governo tollerava le manifestazioni, concedendo inevitabilmente la possibilità di numerose azioni volte alla conquista dei diritti fondamentali. Ma, come denuncia Salvemini, quando qualcuno lamentava le infamie commesse, e le disparità con la “razza gentile”, “essi o non rispondevano o ci facevano capire che non credevano alle nostre parole, o facevano una scrollata di spalle e dicevano: da noi il governo non fa così; la colpa non è di Giolitti; è vostra”.
Queste parole non possono che confermare la scarsa considerazione umana che si aveva nei confronti del mezzogiorno. È amaro pensare che, proprio alla parte più debole di un unico popolo fossero riservati tali trattamenti. È difficile accettare come “per molti settentrionali, anche fra coloro che più spesso fanno sfoggio di retorica unitaria, le popolazioni meridionali sono cagnaccia da macello e da bordello”.
Ma questo non è un luogo comune; il disprezzo che le popolazioni settentrionali provavano nei confronti dei loro connazionali, emerge anche in altre pagine di Salvemini. Toccante, ad esempio, il racconto in cui egli, memore di un viaggio in treno, riporta il giudizio di un piemontese: “postacci – si lasciava andare il piemontese al passaggio per un villaggio del Sud – creda pure che qui non ci si vive. Qui aria cattiva, acqua pessima, dialetto incomprensibile che par turco, popolazione superstiziosa barbara”.
Il meridione, quindi, viveva in condizioni difficili che andavano affrontate in modo energico. Si capisce come Salvemini, molfettese fino alle midolla delle ossa, si adoperò cercando di risollevarne le condizioni, e di trovare delle soluzioni concrete che ne riscattassero lo stato d’arretratezza.
E’ importante però chiarire un punto. Molti criticano Salvemini accusandolo di aver difeso il Mezzogiorno, trascurando, così, quelle che erano le reali necessità del momento. Il problemismo ed il concretismo di cui si fa interprete Salvemini, poggiava invece su basi molto solide che non possono essere trascurate. Quello di Salvemini, infatti, era un socialismo che, pur ponendo al primo posto la protezione delle classi più deboli della società, non si lasciò mai corrompere dallo spirito di parte e restò sempre legato alla concreta realtà.
Fonte:Riflessioni blog
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