Di Nino Vassallo
Le celebrazioni in corso del 150° dell'Unità d'Italia, per molti, stanno rappresentando l'occasione per saperne di più sugli avvenimenti che contrassegnarono quell'epoca. Ed è così che si avverte subito il bisogno di alzare il velo retorico e menzognero che per tanto tempo ha coperto una cruda e sanguinosa realtà. L'Unità d'Italia non fu una rivoluzione di popolo e non si tradusse in condizioni di vita migliori, rispetto a prima, per le masse popolari. Anzi. Fu una vera e propria guerra di conquista del Piemonte con il concorso esterno dell'Inghilterra (gli USA di allora) che provocò una guerra civile in tutto l'ex Regno delle Due Sicilie durata 10 anni. Numerose frange di popolazione si costituirono in bande di resistenza partigiana e reagirono al nuovo ordine sabaudo, con coraggio e determinazione, impugnando le armi e attaccando gli uomini, i luoghi e i simboli del nuovo potere costituito. Questi partigiani vennero qualificati, immediatamente, da parte governativa come "briganti" e fu data loro un "caccia" feroce e senza riguardi per le popolazioni che li spalleggiavano o che venivano soltanto ritenute tali. In Italia, fu proclamato, per il solo sud e per diverse volte, lo stato d'assedio. Gli arresti e le esecuzioni sommarie vennero eseguiti con spietatezza dall'esercito del nord. Lo Stato piemontese, denominato ora Italia, andava spogliando i comuni dei beni demaniali e la chiesa dei suoi feudi. Ne incassava il ricavato delle vendite e faceva così arricchire chi era già ricco e impoverire chi era già povero. La vendita di quelle terre accrebbe il già vasto ed esteso latifondo "privato" privando i contadini degli usi civici (per tanti di importanza vitale) su quei beni. Nei approfittarono, i baroni, i gabelloti, i "Mastro Don Gesualdo". Ai contadini, invece, toccarono nuove tasse, condizioni di sfruttamento peggiori e il servizio militare obbligatorio. Quest'ultimo fu vissuto come una vera e propria sciagura dalle popolazioni meridionali. Immaginate cosa poteva significare per una famiglia di contadini o di zolfatai, in quell'epoca, privarsi delle braccia di un giovane per cinque anni (tanto durava la chiamata alle armi!). La Sicilia, tra l'altro e tranne per una breve parentesi negli anni 1818-1821 che produsse a sua volta delle energiche rivolte, era sempre stata esentata dalla leva obbligatoria. Furono i "nuovi liberatori" ad imporlo con una inaudita ed implacabile violenza e rigore.
L'anno 1862 era iniziato in Sicilia con i moti contro la leva di Castellammare del Golfo (1° gennaio), repressi con l'impiego in massa dell'esercito sabaudo, e con fucilazioni immediate e indiscriminate sul posto (venne anche fucilata una bambina di 8 anni, Angelina Romano). Ma fu tutta l'isola e il sud, quell'anno, ad essere interessati a moti di ribellione. Le colonne mobili dell'esercito, composte da soldati "stranieri" che ricorrevano all'interprete per parlare con i popolani, furono impiegate dappertutto per ripristinare "l'ordine" del nuovo Re e del nuovo Stato.
Il 6 settembre 1862 Racalmuto divenne l'epicentro delle rivolte nella provincia di Girgenti.
Così ci descrive, in un rapporto inviato a Torino (allora capitale del Regno) al ministro degli Interni, "i vandalici fatti consumati a Racalmuto" il prefetto di Girgenti di allora, il toscano ed ex direttore delle Terme di Montecatini, Enrico Falconcini:
"Il giorno 6 il paese cadde in preda ad un terribile disordine. I malviventi, i rei di omicidi e furti, tutti latitanti alla giustizia, i coscritti renitenti e persone di mal affare sopraggiungevano nel paese, quale orda invaditrice cui non opponeva resistenza la guardia nazionale sebbene eccitata e capitanata dal giudice di mandamento. Era saccheggiata la caserma dei carabinieri, i quali fatta resistenza dovettero ritirarsi; si appiccò il fuoco agli archivi del comune e della percettoria ed agli stemmi sabaudi; fu aggredito e saccheggiato il corpo di guardia della milizia nazionale; si saccheggiava il casino di compagnia, si aprivano le carceri ai detenuti, si aggrediva la vettura corriera, derubando i passeggeri e bruciando in piazza fra l'orda popolare i dispacci postali, e così paralizzata l'azione di ogni autorità, gli abitanti si scambiavano fra loro secondo i partiti colpi di fucile che fortunatamente non produssero lacrimevoli effetti: pel terrore che dominava tutto il paese mancarono i rapporti ufficiali, non giungendo qui che ragguagli confusi e tutti insieme nel solo dì 7. Anche la città di Girgenti si agitava tentandosi una pressione sull'autorità per inviare sul posto la guardia nazionale di Girgenti. In questo stato di cose veramente anormale con guarnigione assai scarsa qui e con altri luoghi della provincia inquieti, il sottoscritto dispose della poca truppa della guarnigione, e nella notte del 7 settembre una colonna andò sul posto per rimettere l'ordine, arrestare i colpevoli e fare eseguire in ogni parte il proclama del generale Cialdini sullo stato di assedio, intimando il disarmo del paese e la sospensione della guardia nazionale che come corpo non aveva fatto bona prova di sé.....
Gli arresti furono eseguiti dalla truppa nel numero di sessanta circa...
Ma non tutto era ultimato perché molte delle persone compromesse nei disordini, costituiti in banda di circa 150 soggetti, tutti debitori di reati o renitenti alle leve, si accampavano in armi nei monti circostanti al paese quasi gettando una sfida alla truppa, che non poteva agire contro loro, preoccupata come era nell'interno ad eseguire il disarmo, custodire gli arrestati e mantenere la quiete.
Una compagnia di bersaglieri sotto gli ordini del maggior comandante il 6° battaglione, moveva di qui nella notte dell'11 per dare la battuta ai briganti ricoverati nel monte detto Castellazzo. Difetto di preventiva intelligenza colla prefettura di Caltanissetta, sebbene richiesta, fece sì che dato l'assalto dalla colonna i briganti retrocessero e non trovata altra truppa che li attaccasse a tergo poterono rifuggirsi isolatamente nella provincia suddetta, ma cessò la loro presenza d'infestare le campagne e minacciare di nuovo Racalmuto.
Rimasta in questo luogo una compagnia di bersaglieri, che sembrò sufficiente a tenere in rispetto l'autorità del governo, ai 18 settembre fu eseguita la traduzione dei detenuti a Girgenti per disporne come di ragione; ed in fatti molti sono stati già liberati dal potere ordinario, i veri colpevoli essendosi resi latitanti, ed altri in minor numero essendo rimasti in carcere come dediti a qualunque azione criminosa."
Questo documento, essendo un rapporto ufficiale, rappresenta una fonte storica "primaria" per la ricostruzione di quella rivolta; ma non ci da un quadro completo, esaustivo ed imparziale di quei fatti.
Nel rapporto non c'è alcun cenno a morti o a ferimenti in seguito a quegli scontri: circostanza assai poco probabile in uno scontro a fuoco di quelle proporzioni! Si parla di una sessantina di arresti ma si dice che i veri rivoltosi si erano rifugiati al "Castellazzo" (il Castelluccio). Ma allora chi arrestarono? Forse i parenti per rappresaglia? Inoltre, si fa riferimento al "proclama del generale Cialdini" che prevedeva la fucilazione arbitraria e immediata da parte dei militari al primo indizio di brigantaggio, ma non si dice se e quante fucilazioni vennero fatte a Racalmuto.
Sappiamo, che per analoghe rivolte, in tutto il sud Italia la repressione fu feroce. Possibile che a Racalmuto non ve ne furono?
La rivolta di Castellammare del Golfo del 1° gennaio di quell'anno e di cui abbiamo molte più notizie presenta delle caratteristiche molto simili a quella di Racalmuto. A Castellammare la rivolta si scatenò contro le famiglie borghesi "unitarie" che a Racalmuto aveva nel partito "garibaldino" dei Matrona i loro rappresentanti. Ma dei fatti di sangue di Castellammare ne parlò la stampa nazionale, la pubblica opinione ne rimase impressionata e venne aperto persino un dibattito parlamentare a Torino. E' da ritenere che fu proprio il clamore suscitato dai metodi piemontesi in quell'occasione (tali metodi "italiani" ebbero anche un'eco internazionale e vi fu persino un dibattito alla camera dei Lords a Londra) che in seguito ci si rese conto della necessità di una maggiore riservatezza nel diffondere "particolari raccapriccianti" di altri casi simili. Casi che, del resto, erano stati demandati alla competenza delle sole autorità militari e che non dovevano risponderne a nessuno. Ma dobbiamo registrare che vi fu anche una vera e propria congiura del silenzio da parte dei "galantuomini": i signori locali che erano gli unici che avrebbero potuto lasciare delle testimonianza scritte essendo i popolani, che subivano quelle vessazioni e quelle violenze, del tutto analfabeti. E fu così che, per ritrovare una prima ricostruzione scritta dei fatti racalmutesi del 1862 occorre aspettare più di un secolo ed esattamente il 1969 anno in cui uscì il libro di Eugenio Messana "Racalmuto nella storia della Sicilia". Messana, che non conosceva lo scritto di Falconcini (questi venne infatti "riesumato dalla biblioteca della Camera dei Deputati da Leonardo Sciascia successivamente nei primi anni ottanta) ci fa sapere i nomi di gran parte degli arrestati. In particolare ci fa sapere di un Salvatore Rosina che "dovette anche rispondere di omicidio volontario durante la sparatoria e che furono condannati, tra gli altri, con sentenza del 15 luglio 1865 "per attentato a distruggere la forma di governo" ai lavori forzati da scontare nel Bagno penale di Ancona e a vita, Baldassare Marchese e Giuseppe Molisenna, a dieci anni per sola complicità Salvatore Macaluso e a ventidue anni per omicidio volontario Calogero Rizzo.
Quindi a Racalmuto si uccise e vi furono delle condanne "politiche". Ma non erano, a detta del prefetto Falconcini, "malviventi, i rei di omicidi e furti, tutti latitanti alla giustizia, i coscritti renitenti e persone di mal affare" ? E i "colpi di fucile che fortunatamente non produssero lacrimevoli effetti" ? Falconcini non dice tutta la verità. Purtroppo dalle ricerche d'archivio realizzate da Messana, nulla è emerso sui caduti della rivolta e sulle probabili fucilazioni. E la ragione è semplice: niente a riguardo si trova tra i documenti dell'archivio di Stato di Agrigento. Qualcosa, forse, potrebbe rinvenirsi tra i circa 150 faldoni dell'Archivio dello Stato Maggiore dell'Esercito, di libera ma di fatto, ancora, di difficilissima fruizione da parte dei ricercatori.
Noi possiamo dedurre, da quanto scrive Falconcini, che le truppe mandate a Racalmuto erano comandate dal famigerato colonnello Eberhardt. Costui era un mercenario venuto al seguito di Garibaldi in Sicilia con la legione ungherese di Tukory e di Turr. Passato, dopo lo scioglimento dell'esercito Garibaldino, nell'esercito italiano col grado di colonnello, lo ritroviamo il 29 agosto del 1862 (otto giorni prima della rivolta di Racalmuto) in Aspromonte, a fianco del generale Pallavicini, nello scontro che portò al ferimento del suo vecchio comandante Giuseppe Garibaldi. Furono le sue truppe, giunte l'8 settembre via mare a Girgenti dalla Calabria, a reprimere "i briganti" di Racalmuto. Operazione che durò fino al 18 di quel mese.
Racalmuto 5 settembre 2010
Antonino Vassallo
BIBLIOGRAFIA
E. FALCONCINI, Cinque mesi di prefettura in Sicilia, Firenze, 1863;
E. N. MESSANA, Racalmuto nella storia della Sicilia, Canicattì, 1969;
G. PICONE, Memorie storiche agrigentine, Girgenti, 1866;
S. COSTANZA, La patria armata, Trapani, 1989;
C. BIANCHI, I martiti di Aspromonte, Milano 1863.
Fonte:Facebook
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