mercoledì 18 agosto 2010

L’esperimento socialista di San Leucio


Di F.M.

L’utopia della “Città del Sole” del calabrese Tommaso Campanella, vittima dell’Inquisizione e della dominazione spagnola a Napoli e in Sicilia, sarebbe stata realizzata proprio nel “retrogrado” regno dei Borbone, dove, a dispetto delle calunnie e delle menzogne diffuse dalla centrale londinese della massoneria, per iniziativa dei Borbone era fiorito l’Illuminismo di Vico, Galiani, Genovesi, Pagano, Filangieri, il più ragguardevole nell’ambito dell’Illuminismo italiano.
San Leucio è il primo esempio di repubblica socialista della storia contemporanea. E’ curioso che esso risalga a un despota illuminato, quando un altro despota illuminato, il re del Portogallo Giuseppe I, asservito all’Inghilterra, aveva stroncato nelle colonie brasiliane le prime repubbliche socialiste della storia, le Encomiendas progettate, fondate e dirette dai Gesuiti.
San Leucio era in origine una residenza di caccia di Ferdinando IV di Borbone. Dopo la morte prematura del figlio principe ereditario Carlo Tito, avvenuta alla fine del 1778, non volendo più recarsi nell’amena località legata alla memoria del caro estinto, il re decise di destinarla ad altro più utile uso. Lasciamo a lui la parola: “Essendo giunti gli abitanti del luogo, con le famiglie aggregatesi, al numero di 134 (…), temendo che tanti fanciulli e fanciulle, che andavano sempre aumentando, per mancanza di educazione divenissero un giorno e formassero una piccola comunità di scostumati e malviventi, pensai di stabilire una Casa di educazione per i figli dell’uno e dell’altro sesso, servendomi, per collocarveli, del mio casino (…). Col tempo, poi, rivolsi altrove le mie mira, e pensai di rendere quella Popolazione utile allo Stato, alle famiglie e a ogni individuo, introducendo una manifattura di sete grezze e lavorate di diverse specie fin qui poco e malamente conosciute, procurando di ridurla alla miglior perfezione possibile”.
La colonia si chiamerà poi Ferdinandopoli e si trovava nei pressi di Caserta, dove oggi spadroneggiano i camorristi di Casal di Principe. Il suo Statuto, basato sul principio dell’eguaglianza dei cittadini, fu stilato personalmente dal re. Esso anticipava, sia pure nell’ottica del dispotismo illuminato, gli stessi concetti della Comune di Parigi del 1870, che notoriamente fu stroncata, non a caso nel sangue, dal massone Thiers e dal suo boia generale Gallifet.
La fabbrica tessile possedeva 82 ettari di terreno per i bisogni alimentari degli operai, che abitavano in case a schiera progettate dall’architetto Collecini. La vita che vi si conduceva era dura ma libera da vincoli padronali.
L’abbigliamento era semplice, pratico e uguale per tutti. La sveglia suonava prestissimo, si assisteva alla messa e subito dopo ci si recava sul posto di lavoro. Vi era un’interruzione a mezzogiorno per il pranzo. Si riprendeva a lavorare alle 13,30 e si smontava al tramonto.
L’istruzione era obbligatoria e l’educazione orientata a formare la coscienza civile. Il matrimonio era disciplinato al fine di preservare la comunità da pericolose influenze esterne. Se una ragazza voleva sposare un forestiero, riceveva una dote di cinquanta ducati e se ne doveva andare. Se accadeva il contrario, la sposa forestiera doveva seguire un corso di tessitura e poi entrava a pieno titolo nella comunità. I testamenti erano aboliti e l’eredità del defunto era divisa fra i figli e il coniuge superstite. Ove questi non vi fossero, l’eredità era incamerata dal Monte degli Orfani.
Esisteva una Cassa di Carità che prestava denaro senza interesse a chi ne avesse bisogno e che provvedeva a erogare le pensioni. Era alimentata dai cittadini mediante un prelievo mensile sulla busta paga corrispondente a 85 centesimi di lira aurea.
Erano proibite le liti fra cittadini e i contrasti di poco conto venivano risolti dagli anziani e dal parroco.
Esisteva un carcere con un sovrintendente. Si racconta che una volta vi finì un leuciano. Il sovrintendente gli fece portare in cella il telaio perché “non oziasse” e continuasse a provvedere al sostentamento della famiglia. Doveva produrre tre paia di calze alla settimana.


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Di F.M.

L’utopia della “Città del Sole” del calabrese Tommaso Campanella, vittima dell’Inquisizione e della dominazione spagnola a Napoli e in Sicilia, sarebbe stata realizzata proprio nel “retrogrado” regno dei Borbone, dove, a dispetto delle calunnie e delle menzogne diffuse dalla centrale londinese della massoneria, per iniziativa dei Borbone era fiorito l’Illuminismo di Vico, Galiani, Genovesi, Pagano, Filangieri, il più ragguardevole nell’ambito dell’Illuminismo italiano.
San Leucio è il primo esempio di repubblica socialista della storia contemporanea. E’ curioso che esso risalga a un despota illuminato, quando un altro despota illuminato, il re del Portogallo Giuseppe I, asservito all’Inghilterra, aveva stroncato nelle colonie brasiliane le prime repubbliche socialiste della storia, le Encomiendas progettate, fondate e dirette dai Gesuiti.
San Leucio era in origine una residenza di caccia di Ferdinando IV di Borbone. Dopo la morte prematura del figlio principe ereditario Carlo Tito, avvenuta alla fine del 1778, non volendo più recarsi nell’amena località legata alla memoria del caro estinto, il re decise di destinarla ad altro più utile uso. Lasciamo a lui la parola: “Essendo giunti gli abitanti del luogo, con le famiglie aggregatesi, al numero di 134 (…), temendo che tanti fanciulli e fanciulle, che andavano sempre aumentando, per mancanza di educazione divenissero un giorno e formassero una piccola comunità di scostumati e malviventi, pensai di stabilire una Casa di educazione per i figli dell’uno e dell’altro sesso, servendomi, per collocarveli, del mio casino (…). Col tempo, poi, rivolsi altrove le mie mira, e pensai di rendere quella Popolazione utile allo Stato, alle famiglie e a ogni individuo, introducendo una manifattura di sete grezze e lavorate di diverse specie fin qui poco e malamente conosciute, procurando di ridurla alla miglior perfezione possibile”.
La colonia si chiamerà poi Ferdinandopoli e si trovava nei pressi di Caserta, dove oggi spadroneggiano i camorristi di Casal di Principe. Il suo Statuto, basato sul principio dell’eguaglianza dei cittadini, fu stilato personalmente dal re. Esso anticipava, sia pure nell’ottica del dispotismo illuminato, gli stessi concetti della Comune di Parigi del 1870, che notoriamente fu stroncata, non a caso nel sangue, dal massone Thiers e dal suo boia generale Gallifet.
La fabbrica tessile possedeva 82 ettari di terreno per i bisogni alimentari degli operai, che abitavano in case a schiera progettate dall’architetto Collecini. La vita che vi si conduceva era dura ma libera da vincoli padronali.
L’abbigliamento era semplice, pratico e uguale per tutti. La sveglia suonava prestissimo, si assisteva alla messa e subito dopo ci si recava sul posto di lavoro. Vi era un’interruzione a mezzogiorno per il pranzo. Si riprendeva a lavorare alle 13,30 e si smontava al tramonto.
L’istruzione era obbligatoria e l’educazione orientata a formare la coscienza civile. Il matrimonio era disciplinato al fine di preservare la comunità da pericolose influenze esterne. Se una ragazza voleva sposare un forestiero, riceveva una dote di cinquanta ducati e se ne doveva andare. Se accadeva il contrario, la sposa forestiera doveva seguire un corso di tessitura e poi entrava a pieno titolo nella comunità. I testamenti erano aboliti e l’eredità del defunto era divisa fra i figli e il coniuge superstite. Ove questi non vi fossero, l’eredità era incamerata dal Monte degli Orfani.
Esisteva una Cassa di Carità che prestava denaro senza interesse a chi ne avesse bisogno e che provvedeva a erogare le pensioni. Era alimentata dai cittadini mediante un prelievo mensile sulla busta paga corrispondente a 85 centesimi di lira aurea.
Erano proibite le liti fra cittadini e i contrasti di poco conto venivano risolti dagli anziani e dal parroco.
Esisteva un carcere con un sovrintendente. Si racconta che una volta vi finì un leuciano. Il sovrintendente gli fece portare in cella il telaio perché “non oziasse” e continuasse a provvedere al sostentamento della famiglia. Doveva produrre tre paia di calze alla settimana.


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