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Discorso di Hailè Selassiè all'assemblea della Società delle Nazioni luglio 1936
Io, Hailè Selassiè I, imperatore D'Etiopia, sono qui oggi per reclamare quella giustizia che è dovuta al mio popolo e quell'assistenza a esso promessa otto mesi or sono da cinquantadue nazioni, quando queste affermarono che un atto di aggressione era stato compiuto in violazione dei trattati internazionali.
Nessuno, all'infuori dell'imperatore, può rivolgere l'appello del popolo etiopico a queste cinquantadue nazioni.
Non esiste forse alcun precedente di un capo di Stato che prenda la parola di fronte a questa assemblea, ma è certo che non v'è alcun precedente di popoli che siano stati vittime di grandi torti e, al tempo stesso, minacciati di abbandono ai loro aggressori.
Mai, sinora, vi era stato l'esempio di un governo che procedesse allo sterminio di un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli della Terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici.È per difendere un popolo che lotta per la sua secolare indipendenza che il capo dell' Impero etiopico è venuto a Ginevra per adempiere a questo supremo dovere, dopo avere egli stesso combattuto alla testa dei suoi eserciti.
Prego Iddio onnipotente di risparmiare alle nazioni le terribili sofferenze che sono state inflitte negli ultimi tempi al mio popolo e delle quali i capi che sono qui al mio seguito sono stati inorriditi testimoni.
È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l'Etiopia.
Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti:esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle.
Inoltre, verso la fine del 1935, aerei italiani hanno sganciato bombe lacrimogene sui miei eserciti. Esse ebbero però soltanto risultati limitati. I soldati appresero a sparpagliarsi, aspettando che il vento disperdesse rapidamente i gas velenosi.
L'aviazione italiana ricorse allora ad altri gas .Recipienti di liquido furono gettati su gruppi armati, ma anche questo mezzo fu inefficace: il liquido colpiva pochi soldati e i recipienti, abbandonati al suolo, mettevano in guardia contro il pericolo i soldati e la popolazione.
Fu al tempo stesso in cui si svolgevano le operazioni per accerchiare Macallè, che il Comando italiano, temendo una sconfitta, ricorse ai mezzi che io ho il dovere di denunciare al mondo.
Sugli aereoplani vennero istallati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aereoplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo.Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra.
Ma la vera raffinatezza nella barbarie consistè nel portare la devastazione e il terrore nella parti più densamente popolate del territorio, nei punti più lontani dalle località di combattimento.Il fine era quello di scatenare il terrore e la morte su una gran parte del territorio abissino.
Questa terribile tattica ebbe successo. Uomini e animali soccombettero. La pioggia mortale che veniva dagli aerei faceva morire tutti quelli che toccava con grida di dolore. Anche coloro che bevettero le acque avvelenate o mangiarono i cibi infetti morirono con orribili sofferenze. Le vittime dei gas italiani caddero a decine di migliaia. È stato per denunciare al mondo civile le torture inflitte al popolo etiope che mi sono deciso a venire a Ginevra. Nessun altro all'infuori di me e dei miei prodi compagni d'arme poteva portarne di fronte alla Società delle Nazioni l'incontestabile prova.
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Io, Hailè Selassiè I, imperatore D'Etiopia, sono qui oggi per reclamare quella giustizia che è dovuta al mio popolo e quell'assistenza a esso promessa otto mesi or sono da cinquantadue nazioni, quando queste affermarono che un atto di aggressione era stato compiuto in violazione dei trattati internazionali.
Nessuno, all'infuori dell'imperatore, può rivolgere l'appello del popolo etiopico a queste cinquantadue nazioni.
Non esiste forse alcun precedente di un capo di Stato che prenda la parola di fronte a questa assemblea, ma è certo che non v'è alcun precedente di popoli che siano stati vittime di grandi torti e, al tempo stesso, minacciati di abbandono ai loro aggressori.
Mai, sinora, vi era stato l'esempio di un governo che procedesse allo sterminio di un popolo usando mezzi barbari, violando le più solenni promesse fatte a tutti i popoli della Terra, che non si debba usare contro esseri umani la terribile arma dei gas venefici.È per difendere un popolo che lotta per la sua secolare indipendenza che il capo dell' Impero etiopico è venuto a Ginevra per adempiere a questo supremo dovere, dopo avere egli stesso combattuto alla testa dei suoi eserciti.
Prego Iddio onnipotente di risparmiare alle nazioni le terribili sofferenze che sono state inflitte negli ultimi tempi al mio popolo e delle quali i capi che sono qui al mio seguito sono stati inorriditi testimoni.
È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l'Etiopia.
Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti:esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle.
Inoltre, verso la fine del 1935, aerei italiani hanno sganciato bombe lacrimogene sui miei eserciti. Esse ebbero però soltanto risultati limitati. I soldati appresero a sparpagliarsi, aspettando che il vento disperdesse rapidamente i gas velenosi.
L'aviazione italiana ricorse allora ad altri gas .Recipienti di liquido furono gettati su gruppi armati, ma anche questo mezzo fu inefficace: il liquido colpiva pochi soldati e i recipienti, abbandonati al suolo, mettevano in guardia contro il pericolo i soldati e la popolazione.
Fu al tempo stesso in cui si svolgevano le operazioni per accerchiare Macallè, che il Comando italiano, temendo una sconfitta, ricorse ai mezzi che io ho il dovere di denunciare al mondo.
Sugli aereoplani vennero istallati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aereoplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo.Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra.
Ma la vera raffinatezza nella barbarie consistè nel portare la devastazione e il terrore nella parti più densamente popolate del territorio, nei punti più lontani dalle località di combattimento.Il fine era quello di scatenare il terrore e la morte su una gran parte del territorio abissino.
Questa terribile tattica ebbe successo. Uomini e animali soccombettero. La pioggia mortale che veniva dagli aerei faceva morire tutti quelli che toccava con grida di dolore. Anche coloro che bevettero le acque avvelenate o mangiarono i cibi infetti morirono con orribili sofferenze. Le vittime dei gas italiani caddero a decine di migliaia. È stato per denunciare al mondo civile le torture inflitte al popolo etiope che mi sono deciso a venire a Ginevra. Nessun altro all'infuori di me e dei miei prodi compagni d'arme poteva portarne di fronte alla Società delle Nazioni l'incontestabile prova.
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