mercoledì 7 aprile 2010

L’Aquila un anno dopo: macerie e autocelebrazione del governo



Di Stefano Spillare

I morti accertati furono più di 308, i feriti oltre 1500, decine di migliaia gli sfollati. A L’Aquila ci sono ancora 2455 persone negli alberghi, 622 negli appartamenti realizzati per il G8 nella caserma della Guardia di Finanza a Coppito e altri 146 accolti nella caserma Campomizzi. La “zona rossa“, quella più vecchia, il cuore pulsante e storico della città, è ancora off-limits, rapporti parentali, di amicizia, di vicinato, distrutti assieme alle abitazioni. I morti si piangono nella solitudine e le patologie legate all’ansia, alla disperazione, alla depressione, sono in deciso aumento.

Una tragedia nella tragedia che si potrebbe alleviare dando libero sfogo alle forme di auto-organizzazione della popolazione che con cariole e buona volontà si sono recentemente riversate nella zona rossa sfidando i divieti e vedendosi, di contro, nuovamente sfollati dalla digos perché accusati di voler fare propaganda elettorale nel periodo di silenzio pre-elettorale.

Il governo, forte della sua immagine di “risolutore”, ha monopolizzato l’intervento di riscostruzione. Una mossa, questa sì, propagandistica che poteva soddisfare le esigenze immediate di una popolazione disperata, ma che adesso, ad un anno di distanza e dopo molti scandali soffocati e molto, troppo, ancora da realizzare, rischia di divenire motivo di frustrazione per gli aquilani.

All’inizio dell’estate scorsa si sono infatti aperti i cantieri delle 19 new town volute dal governo, unità abitative del tutto nuove destinate a diventare case permanenti di coloro che hanno perso tutto. Costruite però su terreni agricoli distanti chilometri dall’abitato dell’Aquila, si sono trasformate purtroppo anche in vicoli ciechi per i tentativi di ricostruire la socialità che prima del sisma rendeva la città un luogo dell’abitare, non solo dello stare.

Come messo in luce dal noto architetto bolognese Pier Luigi Cervellati in una recente conferenza, il concetto di new town, come esprime la dicitura anglofona, nasce in Inghilterra, a Londra, all’interno di una concettualità completamente diversa dall’emergenza: si trattava di fasce abitative pensate fuori dal centro storico della città e separate da esso da ampio spazio verde, un modo per progettare lo sviluppo della metropoli verso la periferia e senza che questo intaccasse l’architettura e la vita urbana metropolitana ma anzi pensandone lo sviluppo intelligente oltre la città stessa.

Quello che è avvenuto a L’Aquila, invece, nella fretta che dominava l’emergenza, non ha nulla a che vedere con l’intelligente pianificazione della vita associativa ma solo, si teme, con la propaganda governativa, costata, tra l’altro, uno straordinario spreco (spesso a vantaggio di “sciacalli” senza scrupoli, come testimoniato dalle intercettazioni dello scandalo della Protezione Civile) sulla pelle di migliaia di persone lasciate sulla costa spesso a oltre 100 km di distanza dalla città o costretti ad arrangiarsi con i 200 euro del contributo di autonoma sistemazione, mentre la ricostruzione, quella vera, delle case rese inagibili dal sisma resta ferma (a marzo sono solo due i cantieri per le case gravemente danneggiate).

Ma, con l’occasione del triste anniversario, soprattutto in televisione, torna l’autocelebrazione del decisionismo e della politica del “fare”. Sul come “fare” o si è fatto, poco si dice e mal volentieri si parla. Di domande scomode, da parte di giornalisti preoccupati di tenersi saldo il prezioso posto di lavoro, in Rai come in Mediaset, neppure l’ombra.

Solo la doverosa inchiesta della Procura dell’Aquila per mancato allarme, omicidio colposo e lesioni gravi, costringe a portare a galla verità scomode, quando addirittura non emergano precise responsabilità, come quelle della Protezione Civile, nella figura del super protetto responsabile Guido Bertolaso, che di fronte al fatto scientificamente dimostrabile che non si potesse escludere una scossa di intensità superiore dopo i “preavvisi” che la terra già dava nei giorni precedenti, preferì tranquillizzare la popolazione invece di informarla sui pericoli e mettere in atto, eventualmente, le misure preventive del caso, come il consiglio di dormire vicino alle uscite di casa o prevedere assistenza per quanti avrebbero preferito trascorrere in auto la notte.

Fonte:confrontolibero.info

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Di Stefano Spillare

I morti accertati furono più di 308, i feriti oltre 1500, decine di migliaia gli sfollati. A L’Aquila ci sono ancora 2455 persone negli alberghi, 622 negli appartamenti realizzati per il G8 nella caserma della Guardia di Finanza a Coppito e altri 146 accolti nella caserma Campomizzi. La “zona rossa“, quella più vecchia, il cuore pulsante e storico della città, è ancora off-limits, rapporti parentali, di amicizia, di vicinato, distrutti assieme alle abitazioni. I morti si piangono nella solitudine e le patologie legate all’ansia, alla disperazione, alla depressione, sono in deciso aumento.

Una tragedia nella tragedia che si potrebbe alleviare dando libero sfogo alle forme di auto-organizzazione della popolazione che con cariole e buona volontà si sono recentemente riversate nella zona rossa sfidando i divieti e vedendosi, di contro, nuovamente sfollati dalla digos perché accusati di voler fare propaganda elettorale nel periodo di silenzio pre-elettorale.

Il governo, forte della sua immagine di “risolutore”, ha monopolizzato l’intervento di riscostruzione. Una mossa, questa sì, propagandistica che poteva soddisfare le esigenze immediate di una popolazione disperata, ma che adesso, ad un anno di distanza e dopo molti scandali soffocati e molto, troppo, ancora da realizzare, rischia di divenire motivo di frustrazione per gli aquilani.

All’inizio dell’estate scorsa si sono infatti aperti i cantieri delle 19 new town volute dal governo, unità abitative del tutto nuove destinate a diventare case permanenti di coloro che hanno perso tutto. Costruite però su terreni agricoli distanti chilometri dall’abitato dell’Aquila, si sono trasformate purtroppo anche in vicoli ciechi per i tentativi di ricostruire la socialità che prima del sisma rendeva la città un luogo dell’abitare, non solo dello stare.

Come messo in luce dal noto architetto bolognese Pier Luigi Cervellati in una recente conferenza, il concetto di new town, come esprime la dicitura anglofona, nasce in Inghilterra, a Londra, all’interno di una concettualità completamente diversa dall’emergenza: si trattava di fasce abitative pensate fuori dal centro storico della città e separate da esso da ampio spazio verde, un modo per progettare lo sviluppo della metropoli verso la periferia e senza che questo intaccasse l’architettura e la vita urbana metropolitana ma anzi pensandone lo sviluppo intelligente oltre la città stessa.

Quello che è avvenuto a L’Aquila, invece, nella fretta che dominava l’emergenza, non ha nulla a che vedere con l’intelligente pianificazione della vita associativa ma solo, si teme, con la propaganda governativa, costata, tra l’altro, uno straordinario spreco (spesso a vantaggio di “sciacalli” senza scrupoli, come testimoniato dalle intercettazioni dello scandalo della Protezione Civile) sulla pelle di migliaia di persone lasciate sulla costa spesso a oltre 100 km di distanza dalla città o costretti ad arrangiarsi con i 200 euro del contributo di autonoma sistemazione, mentre la ricostruzione, quella vera, delle case rese inagibili dal sisma resta ferma (a marzo sono solo due i cantieri per le case gravemente danneggiate).

Ma, con l’occasione del triste anniversario, soprattutto in televisione, torna l’autocelebrazione del decisionismo e della politica del “fare”. Sul come “fare” o si è fatto, poco si dice e mal volentieri si parla. Di domande scomode, da parte di giornalisti preoccupati di tenersi saldo il prezioso posto di lavoro, in Rai come in Mediaset, neppure l’ombra.

Solo la doverosa inchiesta della Procura dell’Aquila per mancato allarme, omicidio colposo e lesioni gravi, costringe a portare a galla verità scomode, quando addirittura non emergano precise responsabilità, come quelle della Protezione Civile, nella figura del super protetto responsabile Guido Bertolaso, che di fronte al fatto scientificamente dimostrabile che non si potesse escludere una scossa di intensità superiore dopo i “preavvisi” che la terra già dava nei giorni precedenti, preferì tranquillizzare la popolazione invece di informarla sui pericoli e mettere in atto, eventualmente, le misure preventive del caso, come il consiglio di dormire vicino alle uscite di casa o prevedere assistenza per quanti avrebbero preferito trascorrere in auto la notte.

Fonte:confrontolibero.info

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