Di Maddalena Loy
Un web libero e trasparente ma non una giungla dove regni l’anarchia: il principio che dovrebbe regolare la libertà su Internet è conciso come un post di Twitter. A scandirlo è Lawrence Lessig, 48 anni, uno dei maggiori esperti al mondo in tema di regolamentazione della rete e delle leggi sul copyright. Laureato in Economia, studente di Filosofia al Trinity College di Londra, Master a Cambridge e Phd a Yale, professore ad Harvard, Lessig è fondatore e amministratore delegato di Creative Commons, l’ organizzazione no profit nata negli Stati Uniti nove anni fa, che con le sue licenze incarna oggi uno dei fenomeni più originali nella gestione alternativa dei diritti d'autore su Internet. Al punto che Scientific American ha incluso Lessig tra i “Top 50 Visionaries” per il suo impegno nel promuovere un’interpretazione del copyright che – pur salvaguardando la proprietà intellettuale – non vada a discapito dello sviluppo dell’innovazione e della libera circolazione delle idee sul web (guarda l'intervista de l'Unità in italiano e la versione originale in inglese).
Giurista illuminato, nelle udienze, a sostegno delle sue tesi per limitare l'estensione della durata del copyright, si appella nientemeno che alla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. E ora ha lanciato Change-Congress.org, iniziativa che intende ridurre l'influenza delle lobby nelle decisioni dei parlamentari americani promuovendo la partecipazione attiva dei cittadini alla politica . Sfruttando le potenzialità del web, Change-Congress.org si ripromette di creare una rete capillare che possa determinare l’agenda politica e monitorare l’attività dei candidati.
Lessig ha tenuto ieri alla Camera dei Deputati una lectio magistralis su “Internet e Libertà. Perché dobbiamo difendere la rete”, quinto degli appuntamenti di Capitale Digitale, il ciclo di incontri ideati da Telecom Italia, Fondazione Romaeuropa, Comune di Roma e il magazine Wired.
Lessig è stato compagno di università di Barack Obama a Chicago, appoggiandone attivamente la candidatura, ed è stato advisor del presidente. Dopo oltre un anno di mandato, sembra prendere le distanze dall’amico Barack, definendo il proprio ruolo in seno all’amministrazione «informale» («ho dato dei consigli, quando mi sono stati richiesti»). Motivo? Le politiche dell’amministrazione Usa sul web sono ancora poco chiare: «In linea di principio il governo sostiene la libertà su Internet. Quando però si va nel dettaglio e si parla di privacy, copyright, accesso alla rete e diffusione della banda larga, emergono posizioni diverse».
Cosa ne pensa della sentenza italiana che ha condannato Google per aver consentito che fosse postato su YouTube un video di un ragazzo portatore di handicap maltrattato dagli amici? I provider devono – e possono - controllare i contenuti che circolano in rete?
«Non è tecnicamente possibile compenetrare le due esigenze, Internet libero e forme di controllo sul materiale che circola in rete: dove questo avviene, e avviene all’interno di giurisdizioni restrittive, la conseguenza è che Internet non è più libero. Ora, non sta a me criticare la magistratura italiana, però mi sembra che la sentenza sia incoerente con i principi del vostro ordinamento giuridico: principi di libertà, creatività e libera espressione, che la legge italiana accoglie e che in questo caso invece sembra disattendere, quasi in contraddizione con sé stessa».
Nel suo ultimo libro, «Remix», lei contrappone l’economia di mercato a quella della condivisione, e sostiene che nel futuro genereremo «economie ibride». Cosa vuol dire? L’Europa è pronta per questo nuovo modello?
«Non penso che l’economia in condivisione sia necessariamente più importante del commercio su Internet, però le imprese che operano su Internet, chiedendo agli utenti di aggiungere valore partecipando alle loro attività, sono quelle che sicuramente hanno più successo e avranno più futuro. Se questo sarà possibile, e come e in quali forme sarà possibile, è una domanda difficilissima cui non sono in grado di rispondere. Se poi l’Europa è pronta o no, non lo so, ma se non è pronta per questo, vuol dire che non è pronta per Internet».
Fare business attraverso il web: in America funziona?
«Internet è sempre più pervasivo, su Internet si vende praticamente tutto, si comprano biglietti aerei, si prenotano alberghi e ristoranti, ma l’aspetto più caratteristico è che la rete crea un ponte tra il commercio e l’aspetto sociale della vita degli uomini: prenotare un ristorante andando sul sito significa non solo trovare un ristorante ma trovare anche la recensione di quel ristorante. Tutto ciò è sicuramente destinato a un enorme sviluppo. Non credo però di poter prevedere che di qui a breve sparirà il mondo fisico e il commercio nella realtà!».
E allora cosa rende di più in rete, i beni o i servizi?
«Il punto è proprio questo: il bello di Internet è che ha fuso questi due aspetti, non c’è più la differenza tra beni e servizi, perché quando si va su un sito come Amazon.com, che vende libri, non si trovano solo libri ma anche consigli, informazioni, oltre ai feedback degli acquirenti».
Quali sono le tre principali minacce alla libertà della rete?
«Governi, governi e governi, ma in tre modi differenti: in primo luogo i governi perché usano Internet per controllare tutti attraverso lo strumento delle leggi sul copyright e quindi rendono sempre più difficile la circolazione delle idee. In secondo luogo, sempre i governi, perché non intervengono abbastanza per far approvare normative che tutelino la sicurezza in rete, tanto è vero che in Internet si è sviluppata una vera e propria infrastruttura criminale, sotto forma di spam, comportamenti criminali e furti di identità. In questo i governi sono assolutamente assenti. La terza minaccia viene sempre dai governi, totalmente inerti nel promuovere lo sviluppo tecnologico. Ora, non conosco la situazione dell’Italia ma so per certo che negli Stati Uniti siamo molto indietro nella diffusione della banda larga rispetto a Francia, Inghilterra, Germania e paesi scandinavi».
Quindi il futuro sarà questo, scenari di digital warfare dove al posto dei prigionieri ci saranno i server hackerati?
«Sì, questo è lo scenario futuro, e non sarà soltanto una guerra tra governi ma anche tra organizzazioni non governative, o organizzazioni terroristiche contro governi, o tra industrie e blocchi economici. Tutto questo è possibile e preoccupante per il motivo che dicevo prima, l’inerzia dei governi, che non ci hanno protetto: ora siamo molto più vulnerabili di quello che dovremmo essere».
Questa sua ultima analisi non rischia di essere in contraddizione con la tutela della libertà nella rete?
«C’è una differenza notevole tra libertà e anarchia, sono sempre stato per la libertà e contrario all’anarchia, le società umane si sono sempre sviluppate, specialmente in democrazia, nel rispetto delle regole. Il rispetto delle regole non fa venire meno la libertà, ma consente anzi di esercitarla. I governi dovrebbero imporre regole più severe per contenere i comportamenti negativi in rete, ma essere anche totalmente aperti ad incoraggiare i comportamenti positivi, specialmente in materia di diritto d’autore e di diffusione delle idee».
Come cambia il modo di fare politica sul web? L’obbligo di responsabilità dei politici che operano sul web nei confronti dei propri sostenitori è effettivo o virtuale?
«Non ci sono ancora esempi reali di una vera e propria trasformazione del modo di fare politica. C’è soltanto una potenzialità, anche perché la generazione che più usa Internet è quella che è più distaccata, distante e cinica nei confronti della politica, i giovani. Il giorno in cui i ragazzi si renderanno conto che questo potentissimo strumento può essere usato anche per influire sulla vita politica in senso positivo, allora vedremo dei cambiamenti. Ma finora c’è solo una potenzialità, ancora non ci sono esempi significativi di una politica trasformata dall’uso di Internet».
Fonte:L'Unità
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