giovedì 8 ottobre 2009

"Imi": la morte nei lager fu una scelta politica


di Ugo Finetti

Nei manuali scolastici tra i più diffusi quando si arriva all’8 settembre 1943 vediamo pubblicata la locandina del film Tutti a casa. Gli studenti identificano subito il soldato italiano con il faccione di Alberto Sordi, «fatuo e azzimato» come recita una didascalia: un vile, un imboscato. L’otto settembre segnerebbe così l’uscita di scena dei militari italiani dalla lotta armata contro i tedeschi e nell’opposizione a Mussolini. In generale l’intera guerra combattuta militarmente per far ritirare i tedeschi è poco ricordata e sulla base della manualistica dominante gli studenti pensano che la Wehrmacht sia stata messa in fuga dalle Brigate Garibaldi partigiane. Noi infatti il 25 aprile celebriamo in realtà non la Liberazione, ma solo una delle sue componenti (peraltro come rilevava Renzo De Felice militarmente non «decisiva»): la Resistenza.
È certamente bene farlo in quanto è grazie alla Resistenza che l’Italia non è stata trattata come la Germania a cominciare dal fatto che mentre i tedeschi vennero disarmati, in Italia il comandante delle brigate partigiane (il Corpo volontari della libertà), il generale Raffaele Cadorna, divenne nel 1945 capo di stato maggiore del ricostituito esercito italiano.
Ma come ha ricordato quest’anno Giorgio Napolitano nelle celebrazioni del 25 aprile il valore dei militari italiani a fianco degli Alleati e nel rifiuto di aderire alla Repubblica sociale italiana è stato «in passato tenuto in ombra».
«Negli ultimi anni - scrive infatti lo storico Giorgio Rochat - registriamo un recupero più ampio (della Resistenza, ndr)». Non solo come «guerra partigiana», ma secondo uno schermo più grande: dalla «partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia» alla «resistenza dell’Imi (gli Internati militari italiani) nei lager tedeschi».
In particolare il caso dell’Imi rappresenta un capitolo tragico che sottolinea il coraggio dei militari italiani. Furono centinaia di migliaia, oltre 650mila, i soldati italiani che intrappolati dai tedeschi all’8 settembre rifiutarono di schierarsi con loro affrontando la deportazione. Vennero inquadrati come Imi, un’etichetta inventata per non riconoscerli come prigionieri di guerra e poterli quindi destinare a lager secondo una agghiacciante escalation di denominazioni: lavoro coatto, rieducazione, punizione o, infine, sterminio.
È così che andarono incontro a una autentica decimazione: più di 50mila non fecero ritorno da quei campi di concentramento. Una pagina poco conosciuta e finora - nel corso dei vari decennali dedicati alla Liberazione e alla Resistenza - rievocata in ricerche pubblicate solo da un’editoria «di nicchia». Ora, finalmente, il clima è cambiato e rispetto al «passato», negli «ultimi anni», questa Resistenza cancellata viene alla luce anche nella grande editoria.
Il testo di Rochat è infatti il saggio introduttivo a una importante ricerca sull’argomento pubblicata dalla Einaudi (Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti. 1943-1945, pagg. 338, euro 20).
Ad Avagliano e Palmieri si deve quindi una - quasi amorevole - ricostruzione e documentazione del calvario subito da questi soldati che quando finalmente tornarono in patria nel 1945 furono circondati da una generale indifferenza, al più una modesta assistenza priva di un qualsiasi riconoscimento. All’epoca solo i partigiani erano considerati vittoriosi e da allora per decenni questa vicenda è stata - scrivono gli autori - «un buco nero storiografico».

Perché questa espulsione? A tale interrogativo Avagliano e Palmieri rispondono sottolineando come sin dall’immediato dopoguerra «oltre che ignorati gli Imi sono anche scomodi». «Le forze della Resistenza - precisano gli autori - non vogliono condividere con loro il monopolio della memoria che stanno instaurando intorno alla Liberazione».
La ricerca dei due autori è di particolare interesse in quanto alla ricostruzione storica si affianca una inedita documentazione - con lettere e diari clandestini - proveniente da archivi privati e di famiglie. Ben più attendibile e interessante delle memorie che vengono scritte successivamente col «senno del poi», siamo di fronte a testimonianze «in diretta».
Se altri vivevano una «morte della patria» qui emerge invece che «l’attaccamento alla gloriosa divisa» svolge un ruolo importante e configura, secondo gli autori, un atto di «resistenza antifascista e antinazista».
E conosciamo nei dettagli quale ne fu il prezzo: dalle condizioni di lavoro coatto ai morsi dei cani e alle frustate inflitte in caso di tentativo di fuga.
Gli autori ricordano come Mussolini, nell’estate del 1944, ottiene da Hitler il passaggio degli «Internati militari», ad eccezione degli ufficiali, alla condizione di «lavoratori civili». Ma la quasi totalità degli internati non sottoscrive l’adesione formale resistendo ad angherie e violenze.
I tedeschi quindi il 4 settembre 1944 procedono forzatamente alla trasformazione degli Imi in «civili», ma le condizioni di vita rimangono invariate anche se le sentinelle lasciano il campo nelle mani del sindacato unico nazista (Deutsche Arbeitsfront) e la giurisdizione sugli ex Imi passa alla Gestapo.
Resoconti tra i più agghiaccianti infatti risalgono all’inverno 1944. Quando arrivando a destinazione vedono il nuovo alloggio in una caverna «nell’entrare - scrive un sottufficiale di artiglieria - ho pensato all’Inferno dantesco». «Dormiamo per terra su poca paglia... si dorme quasi ammassati uno sull’altro: quando di notte qualcuno ha bisogno di alzarsi non ha nemmeno il posto per mettere i piedi per terra e di conseguenza non può fare a meno di calpestare i compagni che, ovviamente, urlano dal dolore e imprecano». E quindi con il nuovo status di «civili» il risultato è che «la brodaglia giornaliera è diminuita in cambio sono aumentate le razioni di nerbate e di punizioni varie... ogni tanto qualcuno manca all’appello: giace stecchito sul suo giaciglio buio e freddo, gli occhi vitrei spalancati nel vuoto».
Così hanno vissuto centinaia di migliaia e sono morti decine di migliaia di soldati italiani rifiutando il «disonore» di vestire un’altra divisa.
Accolti in patria con indifferenza, fastidio e disprezzo questi «delusi», come li chiama Guareschi che fu uno di loro, scelgono la strada del silenzio e «decidono - scrivono a conclusione Avagliano e Palmieri - di non partecipare alle celebrazioni della Liberazione e della Resistenza e di non raccontare più la loro storia nemmeno tra le quattro mura di casa». Veniva intanto inventata e imposta la lettura rivoluzionaria della Resistenza come «lotta di classe».

Fonte:
Il Giornale
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di Ugo Finetti

Nei manuali scolastici tra i più diffusi quando si arriva all’8 settembre 1943 vediamo pubblicata la locandina del film Tutti a casa. Gli studenti identificano subito il soldato italiano con il faccione di Alberto Sordi, «fatuo e azzimato» come recita una didascalia: un vile, un imboscato. L’otto settembre segnerebbe così l’uscita di scena dei militari italiani dalla lotta armata contro i tedeschi e nell’opposizione a Mussolini. In generale l’intera guerra combattuta militarmente per far ritirare i tedeschi è poco ricordata e sulla base della manualistica dominante gli studenti pensano che la Wehrmacht sia stata messa in fuga dalle Brigate Garibaldi partigiane. Noi infatti il 25 aprile celebriamo in realtà non la Liberazione, ma solo una delle sue componenti (peraltro come rilevava Renzo De Felice militarmente non «decisiva»): la Resistenza.
È certamente bene farlo in quanto è grazie alla Resistenza che l’Italia non è stata trattata come la Germania a cominciare dal fatto che mentre i tedeschi vennero disarmati, in Italia il comandante delle brigate partigiane (il Corpo volontari della libertà), il generale Raffaele Cadorna, divenne nel 1945 capo di stato maggiore del ricostituito esercito italiano.
Ma come ha ricordato quest’anno Giorgio Napolitano nelle celebrazioni del 25 aprile il valore dei militari italiani a fianco degli Alleati e nel rifiuto di aderire alla Repubblica sociale italiana è stato «in passato tenuto in ombra».
«Negli ultimi anni - scrive infatti lo storico Giorgio Rochat - registriamo un recupero più ampio (della Resistenza, ndr)». Non solo come «guerra partigiana», ma secondo uno schermo più grande: dalla «partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia» alla «resistenza dell’Imi (gli Internati militari italiani) nei lager tedeschi».
In particolare il caso dell’Imi rappresenta un capitolo tragico che sottolinea il coraggio dei militari italiani. Furono centinaia di migliaia, oltre 650mila, i soldati italiani che intrappolati dai tedeschi all’8 settembre rifiutarono di schierarsi con loro affrontando la deportazione. Vennero inquadrati come Imi, un’etichetta inventata per non riconoscerli come prigionieri di guerra e poterli quindi destinare a lager secondo una agghiacciante escalation di denominazioni: lavoro coatto, rieducazione, punizione o, infine, sterminio.
È così che andarono incontro a una autentica decimazione: più di 50mila non fecero ritorno da quei campi di concentramento. Una pagina poco conosciuta e finora - nel corso dei vari decennali dedicati alla Liberazione e alla Resistenza - rievocata in ricerche pubblicate solo da un’editoria «di nicchia». Ora, finalmente, il clima è cambiato e rispetto al «passato», negli «ultimi anni», questa Resistenza cancellata viene alla luce anche nella grande editoria.
Il testo di Rochat è infatti il saggio introduttivo a una importante ricerca sull’argomento pubblicata dalla Einaudi (Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani. Diari e lettere dai lager nazisti. 1943-1945, pagg. 338, euro 20).
Ad Avagliano e Palmieri si deve quindi una - quasi amorevole - ricostruzione e documentazione del calvario subito da questi soldati che quando finalmente tornarono in patria nel 1945 furono circondati da una generale indifferenza, al più una modesta assistenza priva di un qualsiasi riconoscimento. All’epoca solo i partigiani erano considerati vittoriosi e da allora per decenni questa vicenda è stata - scrivono gli autori - «un buco nero storiografico».

Perché questa espulsione? A tale interrogativo Avagliano e Palmieri rispondono sottolineando come sin dall’immediato dopoguerra «oltre che ignorati gli Imi sono anche scomodi». «Le forze della Resistenza - precisano gli autori - non vogliono condividere con loro il monopolio della memoria che stanno instaurando intorno alla Liberazione».
La ricerca dei due autori è di particolare interesse in quanto alla ricostruzione storica si affianca una inedita documentazione - con lettere e diari clandestini - proveniente da archivi privati e di famiglie. Ben più attendibile e interessante delle memorie che vengono scritte successivamente col «senno del poi», siamo di fronte a testimonianze «in diretta».
Se altri vivevano una «morte della patria» qui emerge invece che «l’attaccamento alla gloriosa divisa» svolge un ruolo importante e configura, secondo gli autori, un atto di «resistenza antifascista e antinazista».
E conosciamo nei dettagli quale ne fu il prezzo: dalle condizioni di lavoro coatto ai morsi dei cani e alle frustate inflitte in caso di tentativo di fuga.
Gli autori ricordano come Mussolini, nell’estate del 1944, ottiene da Hitler il passaggio degli «Internati militari», ad eccezione degli ufficiali, alla condizione di «lavoratori civili». Ma la quasi totalità degli internati non sottoscrive l’adesione formale resistendo ad angherie e violenze.
I tedeschi quindi il 4 settembre 1944 procedono forzatamente alla trasformazione degli Imi in «civili», ma le condizioni di vita rimangono invariate anche se le sentinelle lasciano il campo nelle mani del sindacato unico nazista (Deutsche Arbeitsfront) e la giurisdizione sugli ex Imi passa alla Gestapo.
Resoconti tra i più agghiaccianti infatti risalgono all’inverno 1944. Quando arrivando a destinazione vedono il nuovo alloggio in una caverna «nell’entrare - scrive un sottufficiale di artiglieria - ho pensato all’Inferno dantesco». «Dormiamo per terra su poca paglia... si dorme quasi ammassati uno sull’altro: quando di notte qualcuno ha bisogno di alzarsi non ha nemmeno il posto per mettere i piedi per terra e di conseguenza non può fare a meno di calpestare i compagni che, ovviamente, urlano dal dolore e imprecano». E quindi con il nuovo status di «civili» il risultato è che «la brodaglia giornaliera è diminuita in cambio sono aumentate le razioni di nerbate e di punizioni varie... ogni tanto qualcuno manca all’appello: giace stecchito sul suo giaciglio buio e freddo, gli occhi vitrei spalancati nel vuoto».
Così hanno vissuto centinaia di migliaia e sono morti decine di migliaia di soldati italiani rifiutando il «disonore» di vestire un’altra divisa.
Accolti in patria con indifferenza, fastidio e disprezzo questi «delusi», come li chiama Guareschi che fu uno di loro, scelgono la strada del silenzio e «decidono - scrivono a conclusione Avagliano e Palmieri - di non partecipare alle celebrazioni della Liberazione e della Resistenza e di non raccontare più la loro storia nemmeno tra le quattro mura di casa». Veniva intanto inventata e imposta la lettura rivoluzionaria della Resistenza come «lotta di classe».

Fonte:
Il Giornale
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