giovedì 2 luglio 2009

Il rapporto che fa tremare l’Italia


Di Mauro Bottarelli

Silvio Berlusconi non ce ne vorrà se eccediamo con il pessimismo, ma visto da questa latitudine è preferibile chiamarlo realismo, una dote tipica degli uomini di Stato che devono fare i conti con gli avvenimenti e trovare soluzioni.
Il 30 di giugno, infatti, il Lombard Street Research, uno dei think tank economici più autorevoli del Regno Unito, universalmente riconosciuto per la sua indipendenza nel martellare a destra e a manca, ha dedicato la sua “Daily note” all’Italia e le due pagine vergate da Maya Bhandari non fanno ben sperare, a partire dal titolo: “Il decennio gettato via dell’Italia sta per essere seguito da un altro”.


Questa volta non si attacca genericamente, non si lanciano accuse scollacciate né si inseguono veline e prostitute più o meno riconosciute: si mettono in fila le cifre e soprattutto si fanno i conti con l’impossibilità di un percorso riformatore del mercato del lavoro e dei rapporti industriali in Italia. Partiamo da principio. I dati del primo trimestre del nostro paese sono da incubo: crollo della produzione industriale sotto i livelli di 20 anni fa, qualcosa come il 12,5% con un picco del 13,3% nel solo settore manifatturiero. La produttività, dal 2000, è crollata del 2% annuo e il costo per unità lavorativa rimane pesantemente sopravvalutato rispetto alla valutazione base di 90 punti data dall’ingresso del nostro paese nell’euro, visto che ora viaggia su quota 123, qualcosa come una sopravalutazione del 35% nel solo mese di marzo.

Il debito pubblico, oggi al 104% sul Pil, non permette politiche di stimolo fiscale e l’effetto netto delle politiche di “tax and spending” per i prossimi due anni sono precisamente lo 0 per cento del Pil del 2008. Inoltre, scrive Maya Bhandari, il sistema bancario è tutt’altro che esente da gravi rischi «visto che Intesa e Unicredit sono tra i prestatori di moneta straniera maggiore nell’Europa centrale e orientale, una regione che noi riteniamo possa esplodere entro l’anno». Il debito estero di breve termine rappresenta il 70% del Pil e il 250% dell’export: «Tornando con la mente ai tempi delle crisi finanziarie asiatiche possiamo dire che il debito verso l’esterno sopra il 50% o sopra il 200% dell’export sono chiari segnali di allarme da “luce rossa”. Viste così, con o senza l’ancora dell’euro, queste cifre sono spaventose».

Quali ricette, quindi? «Riforma dell’ultraregolamentato mercato del lavoro, stimoli verso quel settore di endemica debolezza che è la produttività, incentivi alla competitività e intervento sul debito pubblico», il quale, se toccherà quota 120-125% sul Pil ci costringerà davvero a scelte molto, molto pesanti con un taglio obbligato del 35% della spesa corrente dello Stato non potendo più fare leva sulla svalutazione della lira e non potendo permettersi i nostri partner l’uscita anche temporanea dell’Italia dall’euro in un meccanismo di fluttuazione fissa, visto che diventeremmo un competitore imbattibile sul mercato dell’export.

A Londra la vedono così, magari esagerano, ma quando si finisce troppo sotto la lente d’ingrandimento non bisogna soltanto chiedersi se il censore ce l’ha con noi ma se davvero la situazione non sia estremamente grave: tutti, dai sindacati a Confindustria alla politica devono prendere atto di queste cifre e guardarle in faccia per ciò che sono, la triste realtà economica di un paese ingessato e imbrigliato che avrebbe potenzialità spaventose se solo decidesse di diventare grande. Anche perché, giova ripeterlo, la terza ondata partita a metà giugno toccherà il suo massimo agli inizi di settembre e ieri, nel giorno dell’insediamento della Svezia come presidente di turno dell’Ue, il primo ministro di quel paese, Fredrik Reinfeldt, ha detto chiaramente che a livello finanziario «l’Europa non è affatto al di fuori della crisi, siamo nel bel mezzo e ci saranno altri seri problemi da affrontare».

Detto da chi guida un paese che è dovuto correre a chiedere un prestito d’emergenza da 3 miliardi di euro alla Bce quando l’asta di bond della Lettonia è andata a vuoto facendo crollare le azioni delle banche svedesi esposte in quel paese per 75 miliardi di euro, fa pensare oltre che paura. Anche perché l’ulteriore piano di aiuto finanziario al sistema bancario Ue, stanziato la scorsa settimana dalla Bce per oltre 400 miliardi di euro, ha fatto schizzare il rapporto debito/Pil dell’eurozona all’83,8% dal 66% del 2007. La grande bolla del debito potrebbe esplodere senza dare troppi segnali di avvertimento e allora sarà troppo tardi, anche per chi ha voluto cogliere nel rapporto del Lombard Street Research uno sprone a fare meglio e non una critica preconcetta, tanto di moda in questi tempi.

Fonte
:il Sussidiario del 02/07/2009
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Di Mauro Bottarelli

Silvio Berlusconi non ce ne vorrà se eccediamo con il pessimismo, ma visto da questa latitudine è preferibile chiamarlo realismo, una dote tipica degli uomini di Stato che devono fare i conti con gli avvenimenti e trovare soluzioni.
Il 30 di giugno, infatti, il Lombard Street Research, uno dei think tank economici più autorevoli del Regno Unito, universalmente riconosciuto per la sua indipendenza nel martellare a destra e a manca, ha dedicato la sua “Daily note” all’Italia e le due pagine vergate da Maya Bhandari non fanno ben sperare, a partire dal titolo: “Il decennio gettato via dell’Italia sta per essere seguito da un altro”.


Questa volta non si attacca genericamente, non si lanciano accuse scollacciate né si inseguono veline e prostitute più o meno riconosciute: si mettono in fila le cifre e soprattutto si fanno i conti con l’impossibilità di un percorso riformatore del mercato del lavoro e dei rapporti industriali in Italia. Partiamo da principio. I dati del primo trimestre del nostro paese sono da incubo: crollo della produzione industriale sotto i livelli di 20 anni fa, qualcosa come il 12,5% con un picco del 13,3% nel solo settore manifatturiero. La produttività, dal 2000, è crollata del 2% annuo e il costo per unità lavorativa rimane pesantemente sopravvalutato rispetto alla valutazione base di 90 punti data dall’ingresso del nostro paese nell’euro, visto che ora viaggia su quota 123, qualcosa come una sopravalutazione del 35% nel solo mese di marzo.

Il debito pubblico, oggi al 104% sul Pil, non permette politiche di stimolo fiscale e l’effetto netto delle politiche di “tax and spending” per i prossimi due anni sono precisamente lo 0 per cento del Pil del 2008. Inoltre, scrive Maya Bhandari, il sistema bancario è tutt’altro che esente da gravi rischi «visto che Intesa e Unicredit sono tra i prestatori di moneta straniera maggiore nell’Europa centrale e orientale, una regione che noi riteniamo possa esplodere entro l’anno». Il debito estero di breve termine rappresenta il 70% del Pil e il 250% dell’export: «Tornando con la mente ai tempi delle crisi finanziarie asiatiche possiamo dire che il debito verso l’esterno sopra il 50% o sopra il 200% dell’export sono chiari segnali di allarme da “luce rossa”. Viste così, con o senza l’ancora dell’euro, queste cifre sono spaventose».

Quali ricette, quindi? «Riforma dell’ultraregolamentato mercato del lavoro, stimoli verso quel settore di endemica debolezza che è la produttività, incentivi alla competitività e intervento sul debito pubblico», il quale, se toccherà quota 120-125% sul Pil ci costringerà davvero a scelte molto, molto pesanti con un taglio obbligato del 35% della spesa corrente dello Stato non potendo più fare leva sulla svalutazione della lira e non potendo permettersi i nostri partner l’uscita anche temporanea dell’Italia dall’euro in un meccanismo di fluttuazione fissa, visto che diventeremmo un competitore imbattibile sul mercato dell’export.

A Londra la vedono così, magari esagerano, ma quando si finisce troppo sotto la lente d’ingrandimento non bisogna soltanto chiedersi se il censore ce l’ha con noi ma se davvero la situazione non sia estremamente grave: tutti, dai sindacati a Confindustria alla politica devono prendere atto di queste cifre e guardarle in faccia per ciò che sono, la triste realtà economica di un paese ingessato e imbrigliato che avrebbe potenzialità spaventose se solo decidesse di diventare grande. Anche perché, giova ripeterlo, la terza ondata partita a metà giugno toccherà il suo massimo agli inizi di settembre e ieri, nel giorno dell’insediamento della Svezia come presidente di turno dell’Ue, il primo ministro di quel paese, Fredrik Reinfeldt, ha detto chiaramente che a livello finanziario «l’Europa non è affatto al di fuori della crisi, siamo nel bel mezzo e ci saranno altri seri problemi da affrontare».

Detto da chi guida un paese che è dovuto correre a chiedere un prestito d’emergenza da 3 miliardi di euro alla Bce quando l’asta di bond della Lettonia è andata a vuoto facendo crollare le azioni delle banche svedesi esposte in quel paese per 75 miliardi di euro, fa pensare oltre che paura. Anche perché l’ulteriore piano di aiuto finanziario al sistema bancario Ue, stanziato la scorsa settimana dalla Bce per oltre 400 miliardi di euro, ha fatto schizzare il rapporto debito/Pil dell’eurozona all’83,8% dal 66% del 2007. La grande bolla del debito potrebbe esplodere senza dare troppi segnali di avvertimento e allora sarà troppo tardi, anche per chi ha voluto cogliere nel rapporto del Lombard Street Research uno sprone a fare meglio e non una critica preconcetta, tanto di moda in questi tempi.

Fonte
:il Sussidiario del 02/07/2009

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