domenica 10 maggio 2009

Speciale Esiste l'Italia? La nuova identità italica tra globale e locale




Di Riccardo Giumelli






A quasi 150 anni dall'unificazione d'Italia si preparano i festeggiamenti per il 2011. Ma è lecito porsi delle domande riguardo la natura della nuova identità nazionale.

Nel 2011 si celebreranno i 150 anni dall’Unità d’Italia, così istituzioni statali e locali si apprestano alla
importante ricorrenza.

Nella stampa e fra gli addetti ai lavori si percepisce tuttavia un’aria vaga, incerta: cosa si deve esattamente festeggiare?
Il comune di Torino e la Regione Piemonte sono i più impegnati ovviamente, anche se non mancano manifestazioni di interesse e di entusiasmo da parte di altri enti locali e del mondo politico.

Nonostante questo, i fondi inizialmente stanziati per l’anniversario sono diminuiti e come spesso succede in Italia, ai proclami e agli entusiasmi non sono seguiti fatti ed azioni reali. Tuttavia la domanda di partenza rimane, come se uno scetticismo diffuso sembrasse non giustificare l’impianto dei festeggiamenti: cosa c’è in realtà da festeggiare?

Si può rispondere che si tratta della commemorazione del progetto nazionale unitario dell’Italia, un evento importante che necessita di una rievocazione storica ma che dovrebbe essere principalmente un modo per far riflettere, innanzitutto gli italiani stessi, su questa ricorrenza da altri punti di vista. All’italiano medio pensare che le istituzioni italiane debbano spendere soldi pubblici per celebrare se stesse, fa’ quasi certamente storcere il naso.

Tutti sono consapevoli di quanto gli italiani stessi non si sentano vicini e fiduciosi nell’apparato nazionale-statale italiano, considerato da sempre manifestazione di un potere elitario, rivolto verso se stesso e determinato esclusivamente alla sua conservazione, all’idea di “mantenere la poltrona”.I festeggiamenti saranno allora una rimembranza degli ideali del Risorgimento? Oppure una riflessione su quello che avremmo potuto essere ed invece non siamo riusciti a diventare? O ancora una riflessione disincantata e disillusa su tutti i disastri e le sciagure che in questi 150 anni sono capitati al popolo italiano?

Noi speriamo che non sia tutto ciò ma piuttosto una riflessione sull’Italia intesa nella sua identità profonda e culturale, nella sua lunga memoria, nei suoi progetti d’integrazione che l’hanno vista prima come terra di emigrazione e poi come terra di immigrazione. Insomma speriamo che si voglia rispondere anche alla domanda di cosa significhi essere italiani oggi, in tempi di costruzione dell’identità europea e di processi della globalizzazione. La domanda e la seguente risposta, così come se la pone Limes, “Esiste l’Italia? Dipende da noi”, sembra pertinente con il discorso qui introdotto. Tuttavia se ci ponessimo la questione più precisamente e ci chiedessimo se esista l’identità italiana, la risposta sarebbe immediatamente positiva e non assumerebbe quei toni relativi, opachi e confusi che generalmente evoca l’idea di Italia e gli ideali sui quali si è unificata.

D’Azeglio disse, nella asserzione che gli è impropriamente attribuita (facendone in un certo senso il nostro capro espiatorio), che l’Italia era fatta, ciò che rimaneva da fare erano gli italiani. Mai sentenza sugli italiani e l’Italia ha avuto la sua grande verità nel suo esatto opposto: gli Italiani c’erano già si trattava di fare l’Italia ed ancora oggi non ci siamo riusciti. Ma oggi ha ancora un senso continuare a perseguire gli ideali che intendono costruire la nazione italiana? E’ veramente necessario seguitare testardamente in un percorso che da 150 anni ci ha visto protagonisti di situazioni politiche sconfortanti e deludenti? Non è forse il caso di provare a cambiare o almeno ad intravedere nuove via, forse una terza via “all’italiana”? Si tratta di comprendere prima possibile, come ha ammesso anche Aldo Schiavone nel suo libro “Italiani senza Italia”, che :“L’idea, ripetuta fino a diventare un luogo comune, che il nostro compito sarebbe di ricostituire proprio adesso, con tanto ritardo e dopo tanti appuntamenti mancati, nel cuore di una crisi mondiale di quest’esperienza, una vera nazione – nel senso forte, storico, della parola – mi sembra completamente insensata: un anacronismo illogico. La riprova (se ve ne fosse bisogno) è che, aldilà di qualche esercitazione retorica, questa prospettiva non riesce a mobilitare energie né pensieri. Bisogna rassegnarsi: quel treno è perduto, e per sempre”. E tuttavia il paradosso del come se continua, continuiamo a fingere di appartenere ad un’identità nazionale quando sappiamo in cuor nostro e inconsciamente che non è la nostra.
Ci scandalizziamo quando il nostro paese e noi cittadini non ci comportiamo secondo i modelli che ci sono arrivati da fuori, ma poi alla pratica dei fatti agiamo come sempre “da italiani”.

E’ lo stesso errore di D’Azeglio o chi per lui, che ha pensato che si potessero fare i nuovi italiani in senso moderno, sulla scia del concetto di cittadinanza e di appartenenza ad uno Stato-Nazione così come proponevano i modelli francese, americano ed inglese, allora vincenti. Ciò che è mancata non è stata tanto un’identità italiana ma piuttosto un’identità dell’Italia, intesa come capacità di creare un solido e chiaro interesse nazionale.

La domanda successiva alla quale si dovrebbe dar risposta è se c’è un futuro per questa Italia o meglio se può esistere un altro futuro, diverso. Come Schiavone, anche in maniera provocatoria, si ritiene che il progetto nazionale sia un fallimento, almeno per quanto riguarda le sue attese ed aspirazioni iniziali.

La stessa tesi, più o meno esplicita, è quella per esempio dello storico inglese Duggan nel suo libro “La forza del destino”, tuttavia le premesse per giungere alla stessa conclusione sono completamente diverse. L’ impressione è che Duggan parta, nelle sue deduzioni, da una cultura westfaliana, domandandosi il perché della differenza del comportamento italiano rispetto a quell’esperienza. Gli sfugge che la storia d’Italia non passi da Westfalia per quattro secoli, ma riceva Westfalia come una imposizione nel 1861 e incontri la glocalizzazione negli anni ‘90-2000, poco più di cent’anni dopo. Il distacco dalle istituzioni del periodo in cui l’integrazione italiana cominciava ad avvenire era retaggio di una immaturità rispetto al tema nazionale, sulla base di un’idea istituzionale senza che prima ci fosse la nazione. Si tratta di una tesi nella quale già ci si accorge del perché di tante problematiche. Perché gli italiani ritardano nella costruzione dell’idea nazionale? Perché rimangono legati a quella comunale-rinascimentale. Gli italiani avevano un aggancio solido ed esauriente con la città stato, con l’ipotesi regionalista del Rinascimento e avevano una consuetudine con l’universalismo e quindi con il cosmopolitismo, realizzata attraverso un approccio non internazionale diplomatico ma culturale.

Si pensi all’universalismo cattolico e a quello di Lorenzo de Medici. Gli italiani, unici forse in Europa, fanno fatica, ancora oggi, a rientrare in una cultura che, per loro è una “cultura arretrata”: quella appunto di Westfalia, segnata da confini, da barriere che definiscono un’identità né abbastanza grande, né abbastanza piccola, parafrasando, né abbastanza globale né abbastanza locale. Tenendo presente che gli italiani non ebbero problemi di guerre di religione, non vi era motivo di considerare lo stato-nazione un punto di raggiungimento positivo, perché non furono coinvolti nella guerra dei trent’anni. Paradossalmente le lotte di religione furono portate in Italia dalla stessa Wesfalia.

Noi eravamo oltre e digerire la concezione Westfaliana poteva sembrare un arretramento. Lo stesso Duggan avrebbe potuto accorgersi che gli italiani mancano di senso di appartenenza alle istituzioni ma non in senso assoluto, solo nei confronti di alcune: quelle statali nazionali. Ce l’hanno invece, per esempio, verso la famiglia (da cui deriva anche il famoso familismo amorale di Banfield) verso l’istituzione religiosa (la Chiesa) e verso l’universalismo (le grandi idee). Infatti gli italiani reagiscono alla crisi e alla povertà, non prendendo la Bastiglia, ma migrando nel mondo (Piero Bassetti 2009).

La costruzione di un senso dello stato-nazione, se c’è stato, non è venuto dall’alto e non certo per merito delle élite politiche in grado solo di succedersi per illudere e deludere: monarchia, liberismi del laissez-faire e del colonialismo, fascismo, partiti di massa come la Democrazia Cristiana, Il Partito Comunista ed il Partito Socialista della defunta Prima Repubblica. L’Italia che emerge è, invece, quella dal basso, del biennio fatale ’43-’45, quando prese coscienza, nello sfaldamento politico e civile della guerra, di essere qualcosa d’altro rispetto agli “stranieri” che attraversavano in massa il territorio (1). L’Italia era quella del miracolo economico, delle famiglie-imprese che si costruirono un futuro con il duro lavoro e che crearono uno spirito collaborativo e cooperativo, anche con il supporto di una forte migrazione interna proveniente dal Sud del paese, alla base degli impianti dei distretti industriali. Ma fu anche l’Italia della lingua italiana diffusa con la scuola e con la televisione e con un giornalismo capace, man mano che aumentava l’alfabetizzazione, di determinare l’agenda setting dell’opinione pubblica, unificando le chiacchiere del giorno dopo da Bolzano a Catania .
(S. Balassone 2009).

Cosa è allora l’Italia e qual è la sua identità oggi? Se proviamo ad uscire, anche in modo avanguardista, prendendoci tutte le responsabilità del caso, dal paradigma dello Stato nazionale di matrice moderna, ci potremmo addentrare in quello del glocalismo (globale e locale). In esso, in una visione sociologica, si condensano in modo ancor più pertinente e attuale sia le spinte modernizzatici, sia le rassicurazioni delle radici. Se la postmodernità è la modernità più riflettuta, pensata e distaccata, nel glocalismo si confondono sia la modernità della globalizzazione sia la presa di coscienza delle radici, di ciò che si è stati nel locale, in un’ interdipendenza continua. L’ inevitabile incrocio globale riscatta il rapporto tra cosmopolitismo e localismo, facendo diventare quest’ultimo un valore moderno, o meglio post-moderno.

Come sostiene, tra gli altri, il sociologo inglese Antony Giddens, le categorie di tempo e spazio vengono riconcettualizzate attraverso l’esperienza mediatica di nuovi e vecchi media. I contenuti culturali, materiali ed immateriali diventano usufruibili immediatamente, basta possedere la strumentazione adatta e facilmente si superano i confini e le barriere territoriali, ridefinendo quotidianamente limiti e possibilità. E’ in questo che il glocalismo può essere la vera prospettiva di cultura politica dentro la quale si può recuperare una nuova forma di statualità basata sulle pluriappartenenze, su nuovo rapporto tra globalizzazione e localismo.

Ma in tutto questo l’identità italiana come si pone? Se l’idea di partenza è che la globalizzazione e il cosmopolitismo sono un dato di fatto, non più una prospettiva, un auspicio o un demone da eliminare e se prendiamo per buona e attinente l’idea di glocalismo, allora parlare di italiano/a inizia a perdere senso. Qui c’è l’altra grande componente che rende vecchio il discorso nazionale costruito sul territorio, perché la postmodernità è costruita su un nuovo rapporto tra funzioni e territorio. Se si considera che le funzioni tendono a essere global e il territorio è per necessità local, è chiaro che la glocalizzazione sta sovvertendo anche da questo punto di vista la statualità westfaliana che era costruita sul confine e sul controllo del territorio. Un termine che meglio esprimerebbe tale svolta epistemologica, comunicativa (Bechelloni 2007) e paradigmatica potrebbe essere quello di Italicità, così come coniato da Piero Bassetti (2). Questo termine permette di definire meglio il mutamento, il nuovo sguardo. L’Italicità è il termine paradigmatico in grado di individuare il cambiamento. Esso ci serve per comprendere tali dinamiche, per fare opera di consapevolezza, per cogliere gli slanci e le cadute della post-modernità. Potremmo anche costruire una sorta di equazione: italianità: sguardo nazionale = italicità: sguardo cosmopolita.

Si parla di Italicità, perché si pensa ad un mondo non più diviso in Stati ma riconfigurato su dinamiche culturali, valoriali, di simboli e di stili di vita che caratterizzano, non più e solamente le nazioni, ma identità collettive più ampie come le civiltà sempre più sparse in tutto il globo (3).

Gli italici rappresentano una categoria più comprendente, non solo gli italiani d’Italia e coloro che con passaporto o carta d’identità italiani in tasca si trovano all’estero (gli Italians secondo la formulazione di Beppe Severgnini), ma anche gli oriundi sparsi nel mondo – si conta che siano almeno quanti se non di più degli italiani che vivono nello stivale - cioè i figli e i nipoti di italiani emigrati che comunque hanno appreso, tramandato e costruito attraverso la cultura italica di appartenenza. A questi si possono aggiungere i cosiddetti italofili, coloro i quali pur appartenendo burocraticamente e culturalmente ad un’altra cultura e nazione, per tutta una serie di ragioni si trovano a vivere in Italia, ad amare la sua cultura, la sua storia, il suo folclore, la sua visione del mondo, al punto da rimanerne contagiati. Sono quelli, molti, che amano venirci a trascorrere le loro vacanze, dove magari comprano anche casa, che ne sanno molto ed a volte ne conoscono di più degli stessi italiani. Infine vi è un ultima categoria, si tratta dei nuovi arrivati, gli immigrati in Italia che a partire dai primi anni’80 stanno arrivando sempre più numerosi. Qui il tema è più complesso e necessiterebbe di ulteriori approfondimenti ai quali rimandiamo in futuro.

Certo è che i nuovi nati, che siano cinesi, rumeni, senegalesi o quant’altro verranno socializzati primariamente in Italia e sarà interessante conoscere quanto in essi le culture e le differenze costruiscano le identità. Tuttavia un fatto è certo, ciò di cui siamo caratterizzati, ed in futuro lo saremo sempre di più, è la pluriappartenenza ed una visione di processo della costruzione delle identità, che però rimane incerta e spesso frammentata, dove ognuno possiede pezzi diversi di un puzzle di cui non conosce l’immagine finale.

Il concetto d’Italicità, quindi, si situa in uno spazio che è altrove, più in là di quello dei confini nazionali, tuttavia prende atto di tali frontiere ma al tempo stesso le supera, le oltrepassa. In un mondo dove le identità collettive sono sempre più definite dall’idea della civilizzazione e dove le carte d’identità sono sempre più un mero atto amministrativo, esso fa’ comprendere ancora la natura profonda della cultura italica. La sua lunga storia e la diffusione in tutti gli angoli della terra, attraverso l’emigrazione, hanno bisogno di un approccio che sappia esprimere la complessità che le appartiene e che non può essere ridotta dal concetto d’Italianità, che ne semplifica la portata e la colloca entro il confine paradigmatico di Westfalia. Allora, anche tutti quei vizi di cui gli italiani d’Italia si accusano e vengono accusati potrebbero apparire sotto una luce diversa: l’incapacità di provare un sentimento di appartenenza alle istituzioni nazionali potrà rivelarsi una risorsa ed anche un esempio, in grado di fare muovere italici e non, con passo più sicuro, attraverso quello che il sociologo Alberto Melucci ha definito il “passaggio d’epoca”, nella direzione del cosmopolitismo globale. L’uomo glocal è Homo Italicus e non Italiano e quello che dobbiamo fare è cogliere al più presto i segnali che, magari confusamente, arrivano, al fine di non farsi trovare impreparati. Quest’ultima sarebbe l’ipotesi peggiore.


(1) G. Bechelloni “Diventare Italiani. Coltivare e comunicare la memoria collettiva”, Ed. Ipermedium (2003)

(2) Vedi AAVV “Globus et Locus – Dieci anni di Idee e Pratiche 1998-2008”, Giampiero Casagrande editore (2008), www.globusetlocus.org; con Piero Bassetti, a cura di P. Accolla e N. Acquino, “Italici. Il possibile futuro di una community globale”, Giampiero Casagrande editore (2008); G. Bechelloni “Il silenzio e il rumore. Destino e fortuna degli italici nel mondo” Mediascape (2004)

(3) Per comprendere meglio questo passaggio si rimanda alla lettura del libro di S.Huntington “Lo scontro delle civiltà”, Ed. Garzanti (1994).


Fonte:Limes segnalazione Redazione Due Sicilie
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Di Riccardo Giumelli






A quasi 150 anni dall'unificazione d'Italia si preparano i festeggiamenti per il 2011. Ma è lecito porsi delle domande riguardo la natura della nuova identità nazionale.

Nel 2011 si celebreranno i 150 anni dall’Unità d’Italia, così istituzioni statali e locali si apprestano alla
importante ricorrenza.

Nella stampa e fra gli addetti ai lavori si percepisce tuttavia un’aria vaga, incerta: cosa si deve esattamente festeggiare?
Il comune di Torino e la Regione Piemonte sono i più impegnati ovviamente, anche se non mancano manifestazioni di interesse e di entusiasmo da parte di altri enti locali e del mondo politico.

Nonostante questo, i fondi inizialmente stanziati per l’anniversario sono diminuiti e come spesso succede in Italia, ai proclami e agli entusiasmi non sono seguiti fatti ed azioni reali. Tuttavia la domanda di partenza rimane, come se uno scetticismo diffuso sembrasse non giustificare l’impianto dei festeggiamenti: cosa c’è in realtà da festeggiare?

Si può rispondere che si tratta della commemorazione del progetto nazionale unitario dell’Italia, un evento importante che necessita di una rievocazione storica ma che dovrebbe essere principalmente un modo per far riflettere, innanzitutto gli italiani stessi, su questa ricorrenza da altri punti di vista. All’italiano medio pensare che le istituzioni italiane debbano spendere soldi pubblici per celebrare se stesse, fa’ quasi certamente storcere il naso.

Tutti sono consapevoli di quanto gli italiani stessi non si sentano vicini e fiduciosi nell’apparato nazionale-statale italiano, considerato da sempre manifestazione di un potere elitario, rivolto verso se stesso e determinato esclusivamente alla sua conservazione, all’idea di “mantenere la poltrona”.I festeggiamenti saranno allora una rimembranza degli ideali del Risorgimento? Oppure una riflessione su quello che avremmo potuto essere ed invece non siamo riusciti a diventare? O ancora una riflessione disincantata e disillusa su tutti i disastri e le sciagure che in questi 150 anni sono capitati al popolo italiano?

Noi speriamo che non sia tutto ciò ma piuttosto una riflessione sull’Italia intesa nella sua identità profonda e culturale, nella sua lunga memoria, nei suoi progetti d’integrazione che l’hanno vista prima come terra di emigrazione e poi come terra di immigrazione. Insomma speriamo che si voglia rispondere anche alla domanda di cosa significhi essere italiani oggi, in tempi di costruzione dell’identità europea e di processi della globalizzazione. La domanda e la seguente risposta, così come se la pone Limes, “Esiste l’Italia? Dipende da noi”, sembra pertinente con il discorso qui introdotto. Tuttavia se ci ponessimo la questione più precisamente e ci chiedessimo se esista l’identità italiana, la risposta sarebbe immediatamente positiva e non assumerebbe quei toni relativi, opachi e confusi che generalmente evoca l’idea di Italia e gli ideali sui quali si è unificata.

D’Azeglio disse, nella asserzione che gli è impropriamente attribuita (facendone in un certo senso il nostro capro espiatorio), che l’Italia era fatta, ciò che rimaneva da fare erano gli italiani. Mai sentenza sugli italiani e l’Italia ha avuto la sua grande verità nel suo esatto opposto: gli Italiani c’erano già si trattava di fare l’Italia ed ancora oggi non ci siamo riusciti. Ma oggi ha ancora un senso continuare a perseguire gli ideali che intendono costruire la nazione italiana? E’ veramente necessario seguitare testardamente in un percorso che da 150 anni ci ha visto protagonisti di situazioni politiche sconfortanti e deludenti? Non è forse il caso di provare a cambiare o almeno ad intravedere nuove via, forse una terza via “all’italiana”? Si tratta di comprendere prima possibile, come ha ammesso anche Aldo Schiavone nel suo libro “Italiani senza Italia”, che :“L’idea, ripetuta fino a diventare un luogo comune, che il nostro compito sarebbe di ricostituire proprio adesso, con tanto ritardo e dopo tanti appuntamenti mancati, nel cuore di una crisi mondiale di quest’esperienza, una vera nazione – nel senso forte, storico, della parola – mi sembra completamente insensata: un anacronismo illogico. La riprova (se ve ne fosse bisogno) è che, aldilà di qualche esercitazione retorica, questa prospettiva non riesce a mobilitare energie né pensieri. Bisogna rassegnarsi: quel treno è perduto, e per sempre”. E tuttavia il paradosso del come se continua, continuiamo a fingere di appartenere ad un’identità nazionale quando sappiamo in cuor nostro e inconsciamente che non è la nostra.
Ci scandalizziamo quando il nostro paese e noi cittadini non ci comportiamo secondo i modelli che ci sono arrivati da fuori, ma poi alla pratica dei fatti agiamo come sempre “da italiani”.

E’ lo stesso errore di D’Azeglio o chi per lui, che ha pensato che si potessero fare i nuovi italiani in senso moderno, sulla scia del concetto di cittadinanza e di appartenenza ad uno Stato-Nazione così come proponevano i modelli francese, americano ed inglese, allora vincenti. Ciò che è mancata non è stata tanto un’identità italiana ma piuttosto un’identità dell’Italia, intesa come capacità di creare un solido e chiaro interesse nazionale.

La domanda successiva alla quale si dovrebbe dar risposta è se c’è un futuro per questa Italia o meglio se può esistere un altro futuro, diverso. Come Schiavone, anche in maniera provocatoria, si ritiene che il progetto nazionale sia un fallimento, almeno per quanto riguarda le sue attese ed aspirazioni iniziali.

La stessa tesi, più o meno esplicita, è quella per esempio dello storico inglese Duggan nel suo libro “La forza del destino”, tuttavia le premesse per giungere alla stessa conclusione sono completamente diverse. L’ impressione è che Duggan parta, nelle sue deduzioni, da una cultura westfaliana, domandandosi il perché della differenza del comportamento italiano rispetto a quell’esperienza. Gli sfugge che la storia d’Italia non passi da Westfalia per quattro secoli, ma riceva Westfalia come una imposizione nel 1861 e incontri la glocalizzazione negli anni ‘90-2000, poco più di cent’anni dopo. Il distacco dalle istituzioni del periodo in cui l’integrazione italiana cominciava ad avvenire era retaggio di una immaturità rispetto al tema nazionale, sulla base di un’idea istituzionale senza che prima ci fosse la nazione. Si tratta di una tesi nella quale già ci si accorge del perché di tante problematiche. Perché gli italiani ritardano nella costruzione dell’idea nazionale? Perché rimangono legati a quella comunale-rinascimentale. Gli italiani avevano un aggancio solido ed esauriente con la città stato, con l’ipotesi regionalista del Rinascimento e avevano una consuetudine con l’universalismo e quindi con il cosmopolitismo, realizzata attraverso un approccio non internazionale diplomatico ma culturale.

Si pensi all’universalismo cattolico e a quello di Lorenzo de Medici. Gli italiani, unici forse in Europa, fanno fatica, ancora oggi, a rientrare in una cultura che, per loro è una “cultura arretrata”: quella appunto di Westfalia, segnata da confini, da barriere che definiscono un’identità né abbastanza grande, né abbastanza piccola, parafrasando, né abbastanza globale né abbastanza locale. Tenendo presente che gli italiani non ebbero problemi di guerre di religione, non vi era motivo di considerare lo stato-nazione un punto di raggiungimento positivo, perché non furono coinvolti nella guerra dei trent’anni. Paradossalmente le lotte di religione furono portate in Italia dalla stessa Wesfalia.

Noi eravamo oltre e digerire la concezione Westfaliana poteva sembrare un arretramento. Lo stesso Duggan avrebbe potuto accorgersi che gli italiani mancano di senso di appartenenza alle istituzioni ma non in senso assoluto, solo nei confronti di alcune: quelle statali nazionali. Ce l’hanno invece, per esempio, verso la famiglia (da cui deriva anche il famoso familismo amorale di Banfield) verso l’istituzione religiosa (la Chiesa) e verso l’universalismo (le grandi idee). Infatti gli italiani reagiscono alla crisi e alla povertà, non prendendo la Bastiglia, ma migrando nel mondo (Piero Bassetti 2009).

La costruzione di un senso dello stato-nazione, se c’è stato, non è venuto dall’alto e non certo per merito delle élite politiche in grado solo di succedersi per illudere e deludere: monarchia, liberismi del laissez-faire e del colonialismo, fascismo, partiti di massa come la Democrazia Cristiana, Il Partito Comunista ed il Partito Socialista della defunta Prima Repubblica. L’Italia che emerge è, invece, quella dal basso, del biennio fatale ’43-’45, quando prese coscienza, nello sfaldamento politico e civile della guerra, di essere qualcosa d’altro rispetto agli “stranieri” che attraversavano in massa il territorio (1). L’Italia era quella del miracolo economico, delle famiglie-imprese che si costruirono un futuro con il duro lavoro e che crearono uno spirito collaborativo e cooperativo, anche con il supporto di una forte migrazione interna proveniente dal Sud del paese, alla base degli impianti dei distretti industriali. Ma fu anche l’Italia della lingua italiana diffusa con la scuola e con la televisione e con un giornalismo capace, man mano che aumentava l’alfabetizzazione, di determinare l’agenda setting dell’opinione pubblica, unificando le chiacchiere del giorno dopo da Bolzano a Catania .
(S. Balassone 2009).

Cosa è allora l’Italia e qual è la sua identità oggi? Se proviamo ad uscire, anche in modo avanguardista, prendendoci tutte le responsabilità del caso, dal paradigma dello Stato nazionale di matrice moderna, ci potremmo addentrare in quello del glocalismo (globale e locale). In esso, in una visione sociologica, si condensano in modo ancor più pertinente e attuale sia le spinte modernizzatici, sia le rassicurazioni delle radici. Se la postmodernità è la modernità più riflettuta, pensata e distaccata, nel glocalismo si confondono sia la modernità della globalizzazione sia la presa di coscienza delle radici, di ciò che si è stati nel locale, in un’ interdipendenza continua. L’ inevitabile incrocio globale riscatta il rapporto tra cosmopolitismo e localismo, facendo diventare quest’ultimo un valore moderno, o meglio post-moderno.

Come sostiene, tra gli altri, il sociologo inglese Antony Giddens, le categorie di tempo e spazio vengono riconcettualizzate attraverso l’esperienza mediatica di nuovi e vecchi media. I contenuti culturali, materiali ed immateriali diventano usufruibili immediatamente, basta possedere la strumentazione adatta e facilmente si superano i confini e le barriere territoriali, ridefinendo quotidianamente limiti e possibilità. E’ in questo che il glocalismo può essere la vera prospettiva di cultura politica dentro la quale si può recuperare una nuova forma di statualità basata sulle pluriappartenenze, su nuovo rapporto tra globalizzazione e localismo.

Ma in tutto questo l’identità italiana come si pone? Se l’idea di partenza è che la globalizzazione e il cosmopolitismo sono un dato di fatto, non più una prospettiva, un auspicio o un demone da eliminare e se prendiamo per buona e attinente l’idea di glocalismo, allora parlare di italiano/a inizia a perdere senso. Qui c’è l’altra grande componente che rende vecchio il discorso nazionale costruito sul territorio, perché la postmodernità è costruita su un nuovo rapporto tra funzioni e territorio. Se si considera che le funzioni tendono a essere global e il territorio è per necessità local, è chiaro che la glocalizzazione sta sovvertendo anche da questo punto di vista la statualità westfaliana che era costruita sul confine e sul controllo del territorio. Un termine che meglio esprimerebbe tale svolta epistemologica, comunicativa (Bechelloni 2007) e paradigmatica potrebbe essere quello di Italicità, così come coniato da Piero Bassetti (2). Questo termine permette di definire meglio il mutamento, il nuovo sguardo. L’Italicità è il termine paradigmatico in grado di individuare il cambiamento. Esso ci serve per comprendere tali dinamiche, per fare opera di consapevolezza, per cogliere gli slanci e le cadute della post-modernità. Potremmo anche costruire una sorta di equazione: italianità: sguardo nazionale = italicità: sguardo cosmopolita.

Si parla di Italicità, perché si pensa ad un mondo non più diviso in Stati ma riconfigurato su dinamiche culturali, valoriali, di simboli e di stili di vita che caratterizzano, non più e solamente le nazioni, ma identità collettive più ampie come le civiltà sempre più sparse in tutto il globo (3).

Gli italici rappresentano una categoria più comprendente, non solo gli italiani d’Italia e coloro che con passaporto o carta d’identità italiani in tasca si trovano all’estero (gli Italians secondo la formulazione di Beppe Severgnini), ma anche gli oriundi sparsi nel mondo – si conta che siano almeno quanti se non di più degli italiani che vivono nello stivale - cioè i figli e i nipoti di italiani emigrati che comunque hanno appreso, tramandato e costruito attraverso la cultura italica di appartenenza. A questi si possono aggiungere i cosiddetti italofili, coloro i quali pur appartenendo burocraticamente e culturalmente ad un’altra cultura e nazione, per tutta una serie di ragioni si trovano a vivere in Italia, ad amare la sua cultura, la sua storia, il suo folclore, la sua visione del mondo, al punto da rimanerne contagiati. Sono quelli, molti, che amano venirci a trascorrere le loro vacanze, dove magari comprano anche casa, che ne sanno molto ed a volte ne conoscono di più degli stessi italiani. Infine vi è un ultima categoria, si tratta dei nuovi arrivati, gli immigrati in Italia che a partire dai primi anni’80 stanno arrivando sempre più numerosi. Qui il tema è più complesso e necessiterebbe di ulteriori approfondimenti ai quali rimandiamo in futuro.

Certo è che i nuovi nati, che siano cinesi, rumeni, senegalesi o quant’altro verranno socializzati primariamente in Italia e sarà interessante conoscere quanto in essi le culture e le differenze costruiscano le identità. Tuttavia un fatto è certo, ciò di cui siamo caratterizzati, ed in futuro lo saremo sempre di più, è la pluriappartenenza ed una visione di processo della costruzione delle identità, che però rimane incerta e spesso frammentata, dove ognuno possiede pezzi diversi di un puzzle di cui non conosce l’immagine finale.

Il concetto d’Italicità, quindi, si situa in uno spazio che è altrove, più in là di quello dei confini nazionali, tuttavia prende atto di tali frontiere ma al tempo stesso le supera, le oltrepassa. In un mondo dove le identità collettive sono sempre più definite dall’idea della civilizzazione e dove le carte d’identità sono sempre più un mero atto amministrativo, esso fa’ comprendere ancora la natura profonda della cultura italica. La sua lunga storia e la diffusione in tutti gli angoli della terra, attraverso l’emigrazione, hanno bisogno di un approccio che sappia esprimere la complessità che le appartiene e che non può essere ridotta dal concetto d’Italianità, che ne semplifica la portata e la colloca entro il confine paradigmatico di Westfalia. Allora, anche tutti quei vizi di cui gli italiani d’Italia si accusano e vengono accusati potrebbero apparire sotto una luce diversa: l’incapacità di provare un sentimento di appartenenza alle istituzioni nazionali potrà rivelarsi una risorsa ed anche un esempio, in grado di fare muovere italici e non, con passo più sicuro, attraverso quello che il sociologo Alberto Melucci ha definito il “passaggio d’epoca”, nella direzione del cosmopolitismo globale. L’uomo glocal è Homo Italicus e non Italiano e quello che dobbiamo fare è cogliere al più presto i segnali che, magari confusamente, arrivano, al fine di non farsi trovare impreparati. Quest’ultima sarebbe l’ipotesi peggiore.


(1) G. Bechelloni “Diventare Italiani. Coltivare e comunicare la memoria collettiva”, Ed. Ipermedium (2003)

(2) Vedi AAVV “Globus et Locus – Dieci anni di Idee e Pratiche 1998-2008”, Giampiero Casagrande editore (2008), www.globusetlocus.org; con Piero Bassetti, a cura di P. Accolla e N. Acquino, “Italici. Il possibile futuro di una community globale”, Giampiero Casagrande editore (2008); G. Bechelloni “Il silenzio e il rumore. Destino e fortuna degli italici nel mondo” Mediascape (2004)

(3) Per comprendere meglio questo passaggio si rimanda alla lettura del libro di S.Huntington “Lo scontro delle civiltà”, Ed. Garzanti (1994).


Fonte:Limes segnalazione Redazione Due Sicilie

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