martedì 7 aprile 2009

Con i soccorritori friulani tra le voci del dolore e gli odori della tragedia


Dal nostro inviato
Ario Gervasutti

L'AQUILA (7 aprile) - Non ci sono più bare. I corpi restano avvolti nei sudari bianchi nella camera ardente arrangiata in un hangar della caserma della Guardia di finanza, lontano dal centro storico e dalla distruzione. Qui si portano i morti, qui si lavora per i vivi. La piazza d’armi è un porto di mare, i soccorsi arrivano per sapere dove andare, ma troppo spesso restano senza risposta. Lacrime e impotenza, è sempre così quando la terra si arrabbia.

L’Aquila non c’è più, Onna non c’è più, e così altre piccole frazioni sotto il Gran Sasso. Il pugno del terremoto ha colpito il cuore d’Italia, e l’Italia si è mossa all’alba per reagire. L’autostrada tra Teramo e il capoluogo dell’Abruzzo è deserta, passano solo i camion dei soccorsi e della Protezione civile. I giunti dei viadotti sono saltati, ci sono scalini di una decina di centimetri a segnare quanto è stata forte l’onda che nella notte ha sferzato la terra.

Il sole non era sorto e già a Palmanova la Protezione civile del Friuli Venezia Giulia si metteva in marcia. Nove ingegneri per aprire la strada a due ondate di aiuti, gente che sa cosa vuol dire aspettare una mano tra le macerie. Sono i più lontani, ma sono i primi a partire e arrivano a mezzogiorno, quando la confusione è ancora al massimo e c’è ancora tanta gente da tirare fuori. I friulani coordinano tutte le Protezioni civili regionali in caso di terremoto, perché purtroppo hanno provato sulla loro pelle cosa significa.

Si chiamano Burba, Giordani, Di Bernardo, Visintini, erano ragazzi o bambini quando le loro case sono state afferrate dall’Orcolat, l’orco cattivo che si è risvegliato sotto le montagne della Carnia. E adesso sono qui, a vedere ancora una volta le stesse macerie, le stesse lacrime, lo stesso sangue.
Passano attraverso Paganica, quattro case e un po’ di calcinacci ai bordi della strada: sembra impossibile, eppure anche qui c’è stato qualche morto.

«No, non è come in Friuli. Sembra piuttosto il Molise, San Giuliano». È vero, non c’è la distruzione totale, quei paesi ridotti a una distesa di macerie polverose dove non si distinguevano più le strade dai perimetri delle case. L’"orco" ha colpito a macchia di leopardo: cinque chilometri più in là, solo la piccola frazione di Onna ricorda Gemona o Osoppo.

L’Aquila, il capoluogo, è un deserto circondato dal caos: il centro storico sulla cima dell’altopiano si è svuotato quando il sole ha cominciato a picchiare, ma le strade tutto intorno sono bloccate da macchine che fuggono verso l’Adriatico e camion che salgono verso l’epicentro. Non è come in Friuli, ma l’odore e il rumore sono gli stessi.

Il terremoto si percepisce con altri sensi prima della vista. L’odore, una strana mistura di gas, zolfo e polvere. «Quello sì me lo ricordo. E mi ricordo il caldo fuori stagione, come oggi». Alle due del pomeriggio ci sono quasi 27 gradi, la polvere resta bassa come una cipria che non vuole volare via. E i rumori, quelli non si dimenticano: un’onda cupa, un’eco lontana e bassa che arriva prima allo stomaco e poi all’orecchio. Quando si comincia a ballare, i vetri suonano già da un pezzo e il ferro delle armature dentro il cemento dei muri fa sentire il suo lamento.

Nell’enorme palestra della Guardia di finanza si concentra la sala operativa, ed è lì che si piazzano i soccorritori friulani. Li riconosci perché sono gli unici che non scappano ogni mezz’ora, quando la terra si fa viva. «Questa era da 4, quest’altra era da 5». Sono i gradi, misurati a spanne e a esperienza.
In pochi minuti sono pronti, agli ordini. Ma gli ordini non arrivano. Dall’altra parte del piazzale, il premier Berlusconi e il capo della Protezione civile Bertolaso stanno spiegando ai giornalisti che i terremoti non si possono prevedere: «Non ci sono basi scientifiche per dar retta all’avvertimento di qualche geologo», e neanche a farlo apposta, subito arriva una scossa.

La piazza d’armi della caserma è piena di camion e uomini con le tute fosforescenti. Ma sono fermi, in attesa. Eppure a tre chilometri da qui c’è chi scava. Si sente, è un’altro rumore che non si dimentica: sono le pale delle ruspe che grattano l’asfalto, che strappano pezzi di macerie dalla cima di una montagna che fino a poche ore fa era un palazzo. Il vecchio cuore dell’Aquila è stato colpito a morte. È qui che dopo gli odori e i rumori, si vede e si tocca la rabbia della natura.

Le strade sono deserte, chi viveva qui e si è salvato è già fuggito verso il mare: sono rimasti solo i parenti di chi è ancora sotto le macerie. Salendo lungo i vicoli stretti e silenziosi sembra impossibile che sia passata la morte. I palazzi sono feriti, graffiati, lesionati, ma ancora in piedi. Poi, all’improvviso, ecco il rumore: si gira l’angolo, e dove c’era la casa dello studente c’è un muro di vigili del fuoco sopra un ammasso di macerie. Ai piedi di una scalinata circondata da caseggiati pericolanti c’è un altro vuoto: piazzale Paoli, lì sorgeva un palazzetto di cinque piani.

I vigili scavano con le mani, sotto ci sono ancora sei o sette persone. Voci straniere, albanesi, poi romene, poi greche: «Vassiliiii». L’urlo strozzato di una donna rompe il silenzio. Chiama suo figlio, è là sotto. Le mani dei vigili si allungano in una breccia e tirano fuori un corpo coperto da un lenzuolo. Lo infilano nell’ambulanza che scappa prima di lasciare il tempo ai parenti in attesa di sapere chi è stato tirato fuori, e se fosse vivo o morto. «Ditemi chi è, ditemi chi è», grida una donna aggrappandosi a un giovane carabiniere. Il militare cerca di sottrarsi: «Non lo so, non l’ho visto». Non se la sente di affrontare una madre che urla il suo dolore, e dirle: «È tuo figlio».
Ecco, questo è uguale al Friuli.

La sensazione di non poter far niente, il disagio di essere lì e non avere nulla in mano per sollevare il peso dello strazio. Se non fare il proprio lavoro. I tecnici della Protezione civile cinquecento metri più in là cercano il posto sul quale allestire la prima tendopoli, ma il prato di fronte alla basilica di Collemaggio è occupato dalle auto degli sfollati: allora si torna indietro, verso il centro operativo alla caserma della Finanza. E strada facendo ecco l’ultimo segno, quello che sempre si presenta sulla scena di un terremoto: la pioggia. In cinque minuti i ventisette gradi diventano undici, la grandine si abbatte sulle macerie, sui vivi e sui morti. Lava la polvere e la trasforma in fango: pugni si levano verso il cielo, i pensieri sono più violenti delle parole. I campi sui quali si devono ancora allestire le tendopoli diventano acquitrini: la città è divisa in due, ai friulani tocca la gestione della zona sud. Ma ancora non viene comunicato cosa serve e dove.

Una squadra si piazza alla Dicomac, la direzione comando controllo vicino alla caserma dei vigili del fuoco. Gli altri, prendono possesso di un campo sportivo alle porte della città dove si sistemeranno gli oltre 400 volontari che arriveranno nella notte. Non hanno molta voglia di parlare, ma è evidente il loro nervosismo. Saprebbero perfettamente cosa fare, sanno "chi ha che cosa" e sono in grado di recuperarla in poche ore, sanno dove trovare tende o autobotti o scavatrici, ma alle sette di sera mentre il rombo dei tuoni si confonde con quello della terra, nessuno ha ancora deciso dove dovranno operare.

Centinaia e centinaia di tute fosforescenti sono ancora ferme sul piazzale in attesa di ordini.
Dietro la caserma, la camera ardente è buia: trenta bare allineate con i nomi dei morti scritti su un nastro adesivo. Vengono tutte da Onna. Due bare bianche in mezzo, i fratelli De Lorenzi. Finite le bare, cominciano i sudari: venti, trenta avvolgono poveri resti, alcune lenzuola sono piccole, troppo piccole. Sono i bimbi morti nella Pediatria dell’ospedale crollata. I rumori tacciono, fuori le nuvole nere diventano improvvisamente gialle, incendiate dal tramonto; una luce assurda, la stessa che 33 anni fa ha coperto i friulani.

E gli occhi si chiudono, per non vedere e per non piangere.

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Dal nostro inviato
Ario Gervasutti

L'AQUILA (7 aprile) - Non ci sono più bare. I corpi restano avvolti nei sudari bianchi nella camera ardente arrangiata in un hangar della caserma della Guardia di finanza, lontano dal centro storico e dalla distruzione. Qui si portano i morti, qui si lavora per i vivi. La piazza d’armi è un porto di mare, i soccorsi arrivano per sapere dove andare, ma troppo spesso restano senza risposta. Lacrime e impotenza, è sempre così quando la terra si arrabbia.

L’Aquila non c’è più, Onna non c’è più, e così altre piccole frazioni sotto il Gran Sasso. Il pugno del terremoto ha colpito il cuore d’Italia, e l’Italia si è mossa all’alba per reagire. L’autostrada tra Teramo e il capoluogo dell’Abruzzo è deserta, passano solo i camion dei soccorsi e della Protezione civile. I giunti dei viadotti sono saltati, ci sono scalini di una decina di centimetri a segnare quanto è stata forte l’onda che nella notte ha sferzato la terra.

Il sole non era sorto e già a Palmanova la Protezione civile del Friuli Venezia Giulia si metteva in marcia. Nove ingegneri per aprire la strada a due ondate di aiuti, gente che sa cosa vuol dire aspettare una mano tra le macerie. Sono i più lontani, ma sono i primi a partire e arrivano a mezzogiorno, quando la confusione è ancora al massimo e c’è ancora tanta gente da tirare fuori. I friulani coordinano tutte le Protezioni civili regionali in caso di terremoto, perché purtroppo hanno provato sulla loro pelle cosa significa.

Si chiamano Burba, Giordani, Di Bernardo, Visintini, erano ragazzi o bambini quando le loro case sono state afferrate dall’Orcolat, l’orco cattivo che si è risvegliato sotto le montagne della Carnia. E adesso sono qui, a vedere ancora una volta le stesse macerie, le stesse lacrime, lo stesso sangue.
Passano attraverso Paganica, quattro case e un po’ di calcinacci ai bordi della strada: sembra impossibile, eppure anche qui c’è stato qualche morto.

«No, non è come in Friuli. Sembra piuttosto il Molise, San Giuliano». È vero, non c’è la distruzione totale, quei paesi ridotti a una distesa di macerie polverose dove non si distinguevano più le strade dai perimetri delle case. L’"orco" ha colpito a macchia di leopardo: cinque chilometri più in là, solo la piccola frazione di Onna ricorda Gemona o Osoppo.

L’Aquila, il capoluogo, è un deserto circondato dal caos: il centro storico sulla cima dell’altopiano si è svuotato quando il sole ha cominciato a picchiare, ma le strade tutto intorno sono bloccate da macchine che fuggono verso l’Adriatico e camion che salgono verso l’epicentro. Non è come in Friuli, ma l’odore e il rumore sono gli stessi.

Il terremoto si percepisce con altri sensi prima della vista. L’odore, una strana mistura di gas, zolfo e polvere. «Quello sì me lo ricordo. E mi ricordo il caldo fuori stagione, come oggi». Alle due del pomeriggio ci sono quasi 27 gradi, la polvere resta bassa come una cipria che non vuole volare via. E i rumori, quelli non si dimenticano: un’onda cupa, un’eco lontana e bassa che arriva prima allo stomaco e poi all’orecchio. Quando si comincia a ballare, i vetri suonano già da un pezzo e il ferro delle armature dentro il cemento dei muri fa sentire il suo lamento.

Nell’enorme palestra della Guardia di finanza si concentra la sala operativa, ed è lì che si piazzano i soccorritori friulani. Li riconosci perché sono gli unici che non scappano ogni mezz’ora, quando la terra si fa viva. «Questa era da 4, quest’altra era da 5». Sono i gradi, misurati a spanne e a esperienza.
In pochi minuti sono pronti, agli ordini. Ma gli ordini non arrivano. Dall’altra parte del piazzale, il premier Berlusconi e il capo della Protezione civile Bertolaso stanno spiegando ai giornalisti che i terremoti non si possono prevedere: «Non ci sono basi scientifiche per dar retta all’avvertimento di qualche geologo», e neanche a farlo apposta, subito arriva una scossa.

La piazza d’armi della caserma è piena di camion e uomini con le tute fosforescenti. Ma sono fermi, in attesa. Eppure a tre chilometri da qui c’è chi scava. Si sente, è un’altro rumore che non si dimentica: sono le pale delle ruspe che grattano l’asfalto, che strappano pezzi di macerie dalla cima di una montagna che fino a poche ore fa era un palazzo. Il vecchio cuore dell’Aquila è stato colpito a morte. È qui che dopo gli odori e i rumori, si vede e si tocca la rabbia della natura.

Le strade sono deserte, chi viveva qui e si è salvato è già fuggito verso il mare: sono rimasti solo i parenti di chi è ancora sotto le macerie. Salendo lungo i vicoli stretti e silenziosi sembra impossibile che sia passata la morte. I palazzi sono feriti, graffiati, lesionati, ma ancora in piedi. Poi, all’improvviso, ecco il rumore: si gira l’angolo, e dove c’era la casa dello studente c’è un muro di vigili del fuoco sopra un ammasso di macerie. Ai piedi di una scalinata circondata da caseggiati pericolanti c’è un altro vuoto: piazzale Paoli, lì sorgeva un palazzetto di cinque piani.

I vigili scavano con le mani, sotto ci sono ancora sei o sette persone. Voci straniere, albanesi, poi romene, poi greche: «Vassiliiii». L’urlo strozzato di una donna rompe il silenzio. Chiama suo figlio, è là sotto. Le mani dei vigili si allungano in una breccia e tirano fuori un corpo coperto da un lenzuolo. Lo infilano nell’ambulanza che scappa prima di lasciare il tempo ai parenti in attesa di sapere chi è stato tirato fuori, e se fosse vivo o morto. «Ditemi chi è, ditemi chi è», grida una donna aggrappandosi a un giovane carabiniere. Il militare cerca di sottrarsi: «Non lo so, non l’ho visto». Non se la sente di affrontare una madre che urla il suo dolore, e dirle: «È tuo figlio».
Ecco, questo è uguale al Friuli.

La sensazione di non poter far niente, il disagio di essere lì e non avere nulla in mano per sollevare il peso dello strazio. Se non fare il proprio lavoro. I tecnici della Protezione civile cinquecento metri più in là cercano il posto sul quale allestire la prima tendopoli, ma il prato di fronte alla basilica di Collemaggio è occupato dalle auto degli sfollati: allora si torna indietro, verso il centro operativo alla caserma della Finanza. E strada facendo ecco l’ultimo segno, quello che sempre si presenta sulla scena di un terremoto: la pioggia. In cinque minuti i ventisette gradi diventano undici, la grandine si abbatte sulle macerie, sui vivi e sui morti. Lava la polvere e la trasforma in fango: pugni si levano verso il cielo, i pensieri sono più violenti delle parole. I campi sui quali si devono ancora allestire le tendopoli diventano acquitrini: la città è divisa in due, ai friulani tocca la gestione della zona sud. Ma ancora non viene comunicato cosa serve e dove.

Una squadra si piazza alla Dicomac, la direzione comando controllo vicino alla caserma dei vigili del fuoco. Gli altri, prendono possesso di un campo sportivo alle porte della città dove si sistemeranno gli oltre 400 volontari che arriveranno nella notte. Non hanno molta voglia di parlare, ma è evidente il loro nervosismo. Saprebbero perfettamente cosa fare, sanno "chi ha che cosa" e sono in grado di recuperarla in poche ore, sanno dove trovare tende o autobotti o scavatrici, ma alle sette di sera mentre il rombo dei tuoni si confonde con quello della terra, nessuno ha ancora deciso dove dovranno operare.

Centinaia e centinaia di tute fosforescenti sono ancora ferme sul piazzale in attesa di ordini.
Dietro la caserma, la camera ardente è buia: trenta bare allineate con i nomi dei morti scritti su un nastro adesivo. Vengono tutte da Onna. Due bare bianche in mezzo, i fratelli De Lorenzi. Finite le bare, cominciano i sudari: venti, trenta avvolgono poveri resti, alcune lenzuola sono piccole, troppo piccole. Sono i bimbi morti nella Pediatria dell’ospedale crollata. I rumori tacciono, fuori le nuvole nere diventano improvvisamente gialle, incendiate dal tramonto; una luce assurda, la stessa che 33 anni fa ha coperto i friulani.

E gli occhi si chiudono, per non vedere e per non piangere.

1 commento:

NON MI ARRENDO ha detto...

Grazie caro amico,
per la tua solidarietà.

 
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