mercoledì 17 dicembre 2008

Cristiani perseguitati, testimonianze dall'India


NUOVA DELHI (India) - L'associazione evangelica Porte Aperte, che da oltre cinquanta anni opera a favore dei cristiani perseguitati, riporta le testimonianze di chi ha visitato le zone indiane in cui i cristiani continuano a subire aggressioni e spesso vengono uccisi.

In India i cristiani continuano a morire a causa delle loro fede; nonostante la Costituzione indiana sancisca la libertà di religione, otto Stati hanno cercato di varare leggi anticonversione, che servono a prevenire la conversione al cristianesimo, in particolare dei Dalit, la numerosa classe meno abbiente.

I collaboratori di Porte Aperte raccontano di cristiani aggrediti, torturati e uccisi, ma anche di esempi di profonda fede, che supera le paure della persecuzione; «Ho incontrato varie vittime di questa follia - racconta un cooperatore - ed è stato straziante ascoltare le loro storie, ma la cosa incredibile è che queste persone sono decise a continuare a seguire Cristo a ogni costo. Ho incontrato una donna che ha perso il marito. Gli estremisti volevano che lui rinunciasse al cristianesimo e rinnegasse Gesù, ma si è opposto dicendo "Potete uccidermi, ma non rinuncerò a Cristo". È stato ferito gravemente con un'ascia tra il petto e il collo ed è morto due giorni dopo. Anche sua moglie, la persona con cui ho parlato, è stata gravemente ferita in testa con la stessa ascia. La cosa straordinaria è che, nonostante questo, era decisa a rimanere salda nella sua fede in Cristo».

Storie terribili, che non trovano spazio nei media e questo le rende ancora più tragiche; «C'era una donna - prosegue il collaboratore di Porte Aperte - che presentava ustioni gravi sul 90% del corpo: è stata bruciata perché cristiana. La sua famiglia ha detto chiaramente: "Noi non lasceremo Cristo". Molte persone possono raccontare storie simili, come i genitori di un ragazzo ucciso da colpi di arma da fuoco che, piangendo, mi hanno detto con forza che non avrebbero lasciato Cristo, anche se hanno perso il figlio e la loro casa, dato che non possono più vivere nel loro villaggio a causa della feroce ostilità nei confronti dei cristiani».

Un altro collaboratore della missione, che ha partecipato come osservatore a uno dei seminari organizzati da Porte Aperte nell'ambito del progetto "Standing Strong Through the Storm - Resistere nella tempesta", si dice stupefatto di come le vittime delle persecuzioni rimangano salde nella loro fede: «Trecento pastori di tutte le denominazioni cristiane erano riuniti a questo seminario e cantavano, pregavano e danzavano! C'era così tanto entusiasmo e zelo, che non sembrava che queste persone fossero nel mezzo di una feroce persecuzione».

Attualmente gli Stati del Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Gujarat, Himachal Pradesh e dell'Orissa (quest'ultimo già nel 1967) hanno sancito leggi anticonversione, alle quali gli estremisti fanno riferimento per giustificare le loro aggressioni.

L'Orissa ha una lunga storia di intolleranza verso i cristiani, soprattutto dal 1969, anno in cui Laxmanananda Saraswati creò un centro religioso indù, nato appositamente per contrastare l'attività dei missionari cristiani e per cercare di convertire la popolazione animista delle tribù all'induismo.

L'episodio che ha scatenato la tornata di violenze, partite dall'Orissa ed estesesi ad altri sette Paesi indiani, è l'assassinio di Laxmanananda Saraswati per conto di una falange armata dei maoisti, i quali, per voce del leader Sabyasachi Panda, hanno espressamente rivendicato l'attentato. La responsabilità dei maoisti è stata dimostrata anche dalle indagini eseguite dalla polizia indiana.

Gli estremisti indù, però, hanno usato l'assassinio come pretesto per attaccare i cristiani e l'ondata di violenze che si protrae da quattro mesi conta ormai 60 credenti assassinati, 18 mila feriti, 50 mila sfollati, mentre sono state distrutte oltre quattromila case, trecento villaggi e 151 chiese.

L'Unione Europea ha descritto questa ondata di aggressioni come un vero e proprio «massacro di cristiani». Nonostante il Primo ministro Manmohan Singh del Governo centrale indiano abbia definito le violenze una «vergogna nazionale», gli Stati coinvolti tendono a negare l'evidenza o a ridimensionarla, spesso impedendo gli interventi delle forze dell'ordine, che rimangono a guardare senza far nulla. [sr]

Fonte:
www.evangelici.net
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NUOVA DELHI (India) - L'associazione evangelica Porte Aperte, che da oltre cinquanta anni opera a favore dei cristiani perseguitati, riporta le testimonianze di chi ha visitato le zone indiane in cui i cristiani continuano a subire aggressioni e spesso vengono uccisi.

In India i cristiani continuano a morire a causa delle loro fede; nonostante la Costituzione indiana sancisca la libertà di religione, otto Stati hanno cercato di varare leggi anticonversione, che servono a prevenire la conversione al cristianesimo, in particolare dei Dalit, la numerosa classe meno abbiente.

I collaboratori di Porte Aperte raccontano di cristiani aggrediti, torturati e uccisi, ma anche di esempi di profonda fede, che supera le paure della persecuzione; «Ho incontrato varie vittime di questa follia - racconta un cooperatore - ed è stato straziante ascoltare le loro storie, ma la cosa incredibile è che queste persone sono decise a continuare a seguire Cristo a ogni costo. Ho incontrato una donna che ha perso il marito. Gli estremisti volevano che lui rinunciasse al cristianesimo e rinnegasse Gesù, ma si è opposto dicendo "Potete uccidermi, ma non rinuncerò a Cristo". È stato ferito gravemente con un'ascia tra il petto e il collo ed è morto due giorni dopo. Anche sua moglie, la persona con cui ho parlato, è stata gravemente ferita in testa con la stessa ascia. La cosa straordinaria è che, nonostante questo, era decisa a rimanere salda nella sua fede in Cristo».

Storie terribili, che non trovano spazio nei media e questo le rende ancora più tragiche; «C'era una donna - prosegue il collaboratore di Porte Aperte - che presentava ustioni gravi sul 90% del corpo: è stata bruciata perché cristiana. La sua famiglia ha detto chiaramente: "Noi non lasceremo Cristo". Molte persone possono raccontare storie simili, come i genitori di un ragazzo ucciso da colpi di arma da fuoco che, piangendo, mi hanno detto con forza che non avrebbero lasciato Cristo, anche se hanno perso il figlio e la loro casa, dato che non possono più vivere nel loro villaggio a causa della feroce ostilità nei confronti dei cristiani».

Un altro collaboratore della missione, che ha partecipato come osservatore a uno dei seminari organizzati da Porte Aperte nell'ambito del progetto "Standing Strong Through the Storm - Resistere nella tempesta", si dice stupefatto di come le vittime delle persecuzioni rimangano salde nella loro fede: «Trecento pastori di tutte le denominazioni cristiane erano riuniti a questo seminario e cantavano, pregavano e danzavano! C'era così tanto entusiasmo e zelo, che non sembrava che queste persone fossero nel mezzo di una feroce persecuzione».

Attualmente gli Stati del Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Gujarat, Himachal Pradesh e dell'Orissa (quest'ultimo già nel 1967) hanno sancito leggi anticonversione, alle quali gli estremisti fanno riferimento per giustificare le loro aggressioni.

L'Orissa ha una lunga storia di intolleranza verso i cristiani, soprattutto dal 1969, anno in cui Laxmanananda Saraswati creò un centro religioso indù, nato appositamente per contrastare l'attività dei missionari cristiani e per cercare di convertire la popolazione animista delle tribù all'induismo.

L'episodio che ha scatenato la tornata di violenze, partite dall'Orissa ed estesesi ad altri sette Paesi indiani, è l'assassinio di Laxmanananda Saraswati per conto di una falange armata dei maoisti, i quali, per voce del leader Sabyasachi Panda, hanno espressamente rivendicato l'attentato. La responsabilità dei maoisti è stata dimostrata anche dalle indagini eseguite dalla polizia indiana.

Gli estremisti indù, però, hanno usato l'assassinio come pretesto per attaccare i cristiani e l'ondata di violenze che si protrae da quattro mesi conta ormai 60 credenti assassinati, 18 mila feriti, 50 mila sfollati, mentre sono state distrutte oltre quattromila case, trecento villaggi e 151 chiese.

L'Unione Europea ha descritto questa ondata di aggressioni come un vero e proprio «massacro di cristiani». Nonostante il Primo ministro Manmohan Singh del Governo centrale indiano abbia definito le violenze una «vergogna nazionale», gli Stati coinvolti tendono a negare l'evidenza o a ridimensionarla, spesso impedendo gli interventi delle forze dell'ordine, che rimangono a guardare senza far nulla. [sr]

Fonte:
www.evangelici.net

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