Di Gigi Speroni
Quando Vittorio Emanuele III morì in esilio ad Alessandria d'Egitto, il 28 dicembre 1947, Time rivelò che, prima del 1940, il re aveva depositato, presso la Harnbros Bank di Londra, 6 milioni e 300 mila dollari. Il governo di Sua Maestà britannica aveva convertito la somma in azioni del "Prestito della vittoria". Inglese, ovviamente.
Vittorio Emanuele avrebbe potuto sempre rifarsi alla Borsa di Londra. Come infatti avvenne. Non deve stupire più di tanto. Il sovrano apparteneva pur sempre alla multinazionale delle Corone e aveva fatto un investimento tipico: buoni fruttiferi a reddito fisso. Ma Vittorio Emanuele III era ben diverso dal nipote che porta il suo nome. Odiava la mondanità, s'annoiava ai concerti, parlava e scriveva l'essenziale. Uniche passioni: studiare e collezionare monete. Il mestiere di re lui lo esercitava da freddo burocrate, tutto casa e ufficio, da Villa Savoia al Quirinale, la reggia che la madre, Margherita, aveva reso famosa per le splendide feste, e dove suo padre, Umberto I, manteneva 150 cavalli pregiati. Appena asceso al trono, aveva fatto chiudere salotti e scuderie, i suoi (rari) pranzi ufficiali erano a dir poco frugali. Leggiamo il menù del 9 maggio 1937, primo anniversario della conquista dell'Impero: "Maccheroni alla napoletana. Pollastre lesse con salsa di capperi. Insalata".
Così lo descrive Edoardo Scarfoglio, direttore del Mattino di Napoli, quando il 24 ottobre 1896 Vittorio Emanuele sposa Elena del Montenegro: "Di forme e di statura già poco conformi all'ideale fisico che il popolo ha del re, le scarse volte che è apparso in pubblico non ha conquistato certo l'immaginazione degli spettatori". In effetti il principe ereditario era alto un metro e 54 centimetri, sette in meno della statura media degli italiani. Dal dodici ai vent'anni era stato preso in custodia dal severissimo colonnello Egidio Oslo che, ossessionato dalla statura del suo allievo, l'aveva sottoposto a strazianti sedute con un "infallibile allungatore" ordinato in Germania.
Una volta catapultato sul trono dall'assassinio del padre, Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare i decreti senza leggerli spiegando allo sbigottito presidente del Consiglio, Giuseppe Saracco: «D'ora in poi il re firmerà i propri errori, mai quelli degli altri». E di errori, come sappiamo, ne farà tanti, firmando tutte le leggi che via via gli sottoponeva Mussolini, sino ad accettare di stravolgere lo Statuto liberale elargito dal bisnonno Carlo Alberto, avallando l'imposizione della dittatura.
Suo padre, Umberto I, che i decreti li firmava senza leggerli, nel 1892 aveva nominato senatore del Regno il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo, poi arrestato per aver fatto stampare quaranta milioni di banconote illegali da distribuire a politici "amici". La firma comunque paga, e Umberto I, pagò con la vita quando, nel 1898, volle concedere "motu proprio" al generale Florenzo Bava Beccaris la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia, per aver "riportato l'ordine" a Milano, puntando i cannoni sui cittadini in sciopero e massacrandone un centinaio. Lo uccisero le pallottole dell'anarchico Gaetano Bresci.
I Savoia erano tra i sovrani più ricchi d'Europa. Possedevano ville, castelli, tenute. Parte delle loro ricchezze erano state accumulate con il saccheggio delle regioni del Sud borbonico, che ebbe tra gli artefici il generale Cialdini. Dunque, i Savoia i soldi non dovevano certo andarseli a cercare, ma, fisicamente, li conoscevano poco. Racconta il professor Rodolfo Bernini, che insegnava economia a Umberto II: «Mi chiese di mostragli un biglietto di carta moneta. Stupito, gliene feci vedere uno da cinque lire, lo esaminò con intensa curiosità perché non gli erano mai passate nelle mani».
I problemi economici per un re e i suoi discendenti nascono se perdono beni e appannaggio. E devono inventarsi un nuovo mestiere. Come per Idris, che porta lo stesso nome del nonno, il re di Libia spodestato nel 1969 da Gheddafi. L'avevo conosciuto anni fa nella tenuta del duca d'Aosta al Borro e quando passò da Milano lo invitai a pranzo. Si considerava l'erede al trono, ma, nell'attesa, combinava affari. In quei giorni stava cercando di far approvare dal senato statunitense una commessa di una industria lombarda. Che andò a buon fine "Il mio nome mi apre tutte le porte. Poi, certo, dipende da me"... Un giovane svelto, un faccendiere ad alto livello. Anche Vittorio Emanuele ha cominciato con una commessa di elicotteri Agusta per lo scià di Persia. Ma oggi mi ricorda una battuta del celebre commediografo Victorien Sardou riferita a un principe di fine Ottocento: «Ah! Le métiet est bien gaté!». «Ah! Il mestiere si e molto guastato!»
Fonte: Gente n. 26 Giovedì 29 giugno 2006
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