mercoledì 9 luglio 2008

Testimoni di giustizia: «Noi, traditi due volte»


Non sono collaboratori di giustizia (i «criminali a contratto», come li chiamano negli Stati Uniti, o i «pentiti» come li abbiamo ribattezzati in Italia).

Sono testimoni di giustizia.

Persone che non hanno nulla di cui «pentirsi», se non, forse, di aver avuto fiducia nello Stato e di aver denunciato i crimini mafiosi. Eppure ancora oggi, a sette anni dalla legge che ha riconosciuto e regolato lo status di testimone di giustizia, si continua a far confusione e, peggio, in molti casi si continua a guardare il collaboratore e il testimone con la stessa diffidenza, quasi fossero entrambi marchiati dal medesimo giudizio di «infamità» con cui i mafiosi bollano chi si dissocia da loro e cambia strada. L'unica cosa che accomuna i testimoni e i collaboratori — ma fino a un certo punto, perché questi ultimi hanno spesso dato prova di non essere credibili — è il fatto che gli uni e gli altri parlano e raccontano ciò che sanno. Fine.

Se ne è accorto, con dieci anni di ritardo, anche il legislatore italiano e così finalmente la legge numero 45 del 2001 ha sostituito la precedente, del 1991, che non faceva alcuna distinzione tra testimoni e collaboratori. Con la nuova legge la disciplina prevista per i collaboratori è stata estesa ai testimoni di giustizia, che oggi sono 75.
Ma nessuna legge, anche quella animata dalle migliori intenzioni, può bastare a risolvere un problema, se le norme restano sulla carta e non vengono adeguate alla realtà che cambia. Figuriamoci in materia di criminalità organizzata e di testimoni di giustizia: persone che invece di piegare la testa la alzano, e denunciano, sono un pericolo mortale per il sistema omertoso sul quale si reggono tutte le mafie. E i mafiosi lo sanno. Infatti, anche a distanza di anni, non dimenticano chi li ha denunciati ed è diventato un «cattivo esempio» per tutti gli altri. I camorristi casertani del clan dei Casalesi, per esempio, non hanno dimenticato che Domenico Noviello, nel 2001, alzò la testa e denunciò le estorsioni subìte, facendo arrestare cinque persone. Lo hanno atteso fino al 15 maggio 2008 — la commissione parlamentare antimafia aveva appena depositato la sua relazione sui testimoni di giustizia — e a Castelvolturno gli hanno scaricato addosso venti colpi di pistola.

Noviello era stato un testimone di giustizia, ma nel 2003 gli venne revocato il programma di protezione, perché secondo la commissione centrale di protezione (ministero dell'Interno) non correva più rischi. Un grave errore di valutazione? Può darsi, anche se si è trattato di un errore che è costato una vita umana.

Poco più di un mese dopo, il 28 giugno scorso, ecco due donne, due sorelle calabresi, che sedici anni dopo aver fatto arrestare gli assassini di due loro fratelli rivelano di vivere ancora nel terrore di una vendetta, nonostante abitino sotto falso nome in una località protetta. «Non abbiamo un lavoro — dicono le due donne —, che potrebbe aiutarci ad uscire dall'isolamento in cui ci si trova dopo una scelta come la nostra». Il lavoro è un problema serio. Purtroppo non è l'unico a impedire che i testimoni di giustizia abbiano una vita il più possibile normale. A isolarli, a farli sentire abbandonati — è la stessa commissione antimafia a riconoscerlo — «è proprio chi per legge dovrebbe esaudire e non ostacolare le loro esigenze».
La «casistica» è varia, grave e incredibile. Per esempio, c'è stato chi aveva un lavoro in un ente pubblico e invece di essere protetto meglio è stato scoraggiato proprio dal servizio centrale di protezione a proseguire in quel rapporto di lavoro. A un altro testimone di giustizia è stata assegnata l'abitazione che era stata di un «pentito». Un altro ha perso la casa, venduta all'asta per 32 mila euro, perché non poteva chiedere prestiti in quanto «protestato» a causa delle estorsioni subìte.

Mentre un altro testimone, anziché godere di uno di quei «mutui agevolati volti al completo reinserimento proprio e dei familiari nella vita economica e sociale», si è visto offrire un mutuo a un tasso addirittura superiore a quello di mercato perché considerato «soggetto a rischio». Poi c'è chi ha visto deprezzarsi i propri beni immobili di giorno in giorno perché lo Stato, come vuole la legge, non li ha acquistati a prezzo di mercato e chi, una volta accettato il programma di protezione, è rimasto rinchiuso in una caserma di polizia per cinquanta giorni senza poter mettere il naso fuori.

Persino andare a deporre nei processi a volte è stata un'impresa, tanto che in alcuni casi il servizio centrale di protezione ha consigliato ai testimoni di non andarci. Mentre in una scuola hanno rifiutato l'iscrizione ai figli di un testimone poiché li hanno ritenuti «pericolosi».

Per non dire dei documenti di copertura, spesso «incoerenti» tra loro (carta d'identità con generalità diverse dalla patente o dal libretto sanitario) o con quelli dei propri familiari (con moglie e figli che continuano a mantenere il vero cognome e dunque sono individuabili come bersagli di ritorsioni).

Un altro grosso problema è lo sradicamento.

Quasi tutti i testimoni di giustizia sono stati costretti a lasciare il luogo in cui sono nati e cresciuti e dove, per spirito civile, hanno denunciato i loro aguzzini. E mentre questi sono rimasti, loro, che hanno il certificato penale pulito, hanno dovuto andar via.
E oggi lo Stato non riesce a farli tornare a vivere e a lavorare dove vorrebbero.

Se non è una resa, poco ci manca, perché di fatto i testimoni di giustizia vivono in esilio.

Mentre, come un pugno in faccia, può accadere — il 3 luglio scorso, a Cosenza — che l'ex boss di 'ndrangheta, il «pentito» Peppino Vitelli, al quale si attribuiscono una ventina di omicidi, passeggi per le vie del centro protetto da cinque agenti di scorta.

Infine, ma non ultimo per importanza, il tenore di vita, che secondo la legge non dovrebbe cambiare, ma che nei fatti cambia eccome.

In peggio.

Lo status socioeconomico dei testimoni di giustizia — nella quasi totalità liberi professionisti, imprenditori, commercianti, titolari di rendita, insegnanti — è medio-alto, mentre l'assegno statale va dai 1.000 ai 1.600 euro mensili.

E tuttavia, anche la speranza che lo Stato offrisse ai testimoni di giustizia un'altra «uscita di sicurezza», con la possibilità di assunzione nella pubblica amministrazione, è naufragata. Il 18 giugno scorso il Senato ha detto di no. La questione però non è chiusa. Restano una domanda e una buona intenzione. La domanda: in questa situazione, chi si sentirà invogliato a diventare un testimone di giustizia? La buona intenzione: è il modello americano del United States Marshals Service, una struttura unica (al posto di commissione e servizio centrale di protezione) che assicuri al testimone sicurezza e piena garanzia dei diritti.

Ma questo, per ora, da noi vale solo come slogan.

Carlo Vulpio ha collaborato Benny Calasanzio

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Non sono collaboratori di giustizia (i «criminali a contratto», come li chiamano negli Stati Uniti, o i «pentiti» come li abbiamo ribattezzati in Italia).

Sono testimoni di giustizia.

Persone che non hanno nulla di cui «pentirsi», se non, forse, di aver avuto fiducia nello Stato e di aver denunciato i crimini mafiosi. Eppure ancora oggi, a sette anni dalla legge che ha riconosciuto e regolato lo status di testimone di giustizia, si continua a far confusione e, peggio, in molti casi si continua a guardare il collaboratore e il testimone con la stessa diffidenza, quasi fossero entrambi marchiati dal medesimo giudizio di «infamità» con cui i mafiosi bollano chi si dissocia da loro e cambia strada. L'unica cosa che accomuna i testimoni e i collaboratori — ma fino a un certo punto, perché questi ultimi hanno spesso dato prova di non essere credibili — è il fatto che gli uni e gli altri parlano e raccontano ciò che sanno. Fine.

Se ne è accorto, con dieci anni di ritardo, anche il legislatore italiano e così finalmente la legge numero 45 del 2001 ha sostituito la precedente, del 1991, che non faceva alcuna distinzione tra testimoni e collaboratori. Con la nuova legge la disciplina prevista per i collaboratori è stata estesa ai testimoni di giustizia, che oggi sono 75.
Ma nessuna legge, anche quella animata dalle migliori intenzioni, può bastare a risolvere un problema, se le norme restano sulla carta e non vengono adeguate alla realtà che cambia. Figuriamoci in materia di criminalità organizzata e di testimoni di giustizia: persone che invece di piegare la testa la alzano, e denunciano, sono un pericolo mortale per il sistema omertoso sul quale si reggono tutte le mafie. E i mafiosi lo sanno. Infatti, anche a distanza di anni, non dimenticano chi li ha denunciati ed è diventato un «cattivo esempio» per tutti gli altri. I camorristi casertani del clan dei Casalesi, per esempio, non hanno dimenticato che Domenico Noviello, nel 2001, alzò la testa e denunciò le estorsioni subìte, facendo arrestare cinque persone. Lo hanno atteso fino al 15 maggio 2008 — la commissione parlamentare antimafia aveva appena depositato la sua relazione sui testimoni di giustizia — e a Castelvolturno gli hanno scaricato addosso venti colpi di pistola.

Noviello era stato un testimone di giustizia, ma nel 2003 gli venne revocato il programma di protezione, perché secondo la commissione centrale di protezione (ministero dell'Interno) non correva più rischi. Un grave errore di valutazione? Può darsi, anche se si è trattato di un errore che è costato una vita umana.

Poco più di un mese dopo, il 28 giugno scorso, ecco due donne, due sorelle calabresi, che sedici anni dopo aver fatto arrestare gli assassini di due loro fratelli rivelano di vivere ancora nel terrore di una vendetta, nonostante abitino sotto falso nome in una località protetta. «Non abbiamo un lavoro — dicono le due donne —, che potrebbe aiutarci ad uscire dall'isolamento in cui ci si trova dopo una scelta come la nostra». Il lavoro è un problema serio. Purtroppo non è l'unico a impedire che i testimoni di giustizia abbiano una vita il più possibile normale. A isolarli, a farli sentire abbandonati — è la stessa commissione antimafia a riconoscerlo — «è proprio chi per legge dovrebbe esaudire e non ostacolare le loro esigenze».
La «casistica» è varia, grave e incredibile. Per esempio, c'è stato chi aveva un lavoro in un ente pubblico e invece di essere protetto meglio è stato scoraggiato proprio dal servizio centrale di protezione a proseguire in quel rapporto di lavoro. A un altro testimone di giustizia è stata assegnata l'abitazione che era stata di un «pentito». Un altro ha perso la casa, venduta all'asta per 32 mila euro, perché non poteva chiedere prestiti in quanto «protestato» a causa delle estorsioni subìte.

Mentre un altro testimone, anziché godere di uno di quei «mutui agevolati volti al completo reinserimento proprio e dei familiari nella vita economica e sociale», si è visto offrire un mutuo a un tasso addirittura superiore a quello di mercato perché considerato «soggetto a rischio». Poi c'è chi ha visto deprezzarsi i propri beni immobili di giorno in giorno perché lo Stato, come vuole la legge, non li ha acquistati a prezzo di mercato e chi, una volta accettato il programma di protezione, è rimasto rinchiuso in una caserma di polizia per cinquanta giorni senza poter mettere il naso fuori.

Persino andare a deporre nei processi a volte è stata un'impresa, tanto che in alcuni casi il servizio centrale di protezione ha consigliato ai testimoni di non andarci. Mentre in una scuola hanno rifiutato l'iscrizione ai figli di un testimone poiché li hanno ritenuti «pericolosi».

Per non dire dei documenti di copertura, spesso «incoerenti» tra loro (carta d'identità con generalità diverse dalla patente o dal libretto sanitario) o con quelli dei propri familiari (con moglie e figli che continuano a mantenere il vero cognome e dunque sono individuabili come bersagli di ritorsioni).

Un altro grosso problema è lo sradicamento.

Quasi tutti i testimoni di giustizia sono stati costretti a lasciare il luogo in cui sono nati e cresciuti e dove, per spirito civile, hanno denunciato i loro aguzzini. E mentre questi sono rimasti, loro, che hanno il certificato penale pulito, hanno dovuto andar via.
E oggi lo Stato non riesce a farli tornare a vivere e a lavorare dove vorrebbero.

Se non è una resa, poco ci manca, perché di fatto i testimoni di giustizia vivono in esilio.

Mentre, come un pugno in faccia, può accadere — il 3 luglio scorso, a Cosenza — che l'ex boss di 'ndrangheta, il «pentito» Peppino Vitelli, al quale si attribuiscono una ventina di omicidi, passeggi per le vie del centro protetto da cinque agenti di scorta.

Infine, ma non ultimo per importanza, il tenore di vita, che secondo la legge non dovrebbe cambiare, ma che nei fatti cambia eccome.

In peggio.

Lo status socioeconomico dei testimoni di giustizia — nella quasi totalità liberi professionisti, imprenditori, commercianti, titolari di rendita, insegnanti — è medio-alto, mentre l'assegno statale va dai 1.000 ai 1.600 euro mensili.

E tuttavia, anche la speranza che lo Stato offrisse ai testimoni di giustizia un'altra «uscita di sicurezza», con la possibilità di assunzione nella pubblica amministrazione, è naufragata. Il 18 giugno scorso il Senato ha detto di no. La questione però non è chiusa. Restano una domanda e una buona intenzione. La domanda: in questa situazione, chi si sentirà invogliato a diventare un testimone di giustizia? La buona intenzione: è il modello americano del United States Marshals Service, una struttura unica (al posto di commissione e servizio centrale di protezione) che assicuri al testimone sicurezza e piena garanzia dei diritti.

Ma questo, per ora, da noi vale solo come slogan.

Carlo Vulpio ha collaborato Benny Calasanzio

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