mercoledì 6 febbraio 2019

LA SECESSIONE DEI RICCHI: come la Lega vuol tagliare le risorse alle regioni più povere grazie alla complicità del M5s




Di Natale Cuccurese e Michele Dell'Edera 
[Pubblicato su Compagne e Compagni]

Grazie al M5s e ai suoi parlamentari, utili cavalli di Troia al servizio di Salvini, la Lega sta per raggiungere dopo decenni il suo obiettivo storico ai danni del Mezzogiorno: la secessione.
Il progetto vedrà la luce, nei suoi dettagli, il 15 febbraio, approderà, a marce e voti forzati in Parlamento dove, una volta approvato, non potrà essere modificato per 10 anni, senza l’assenso delle regioni interessate. C'è il rischio che l'Italia vada in frantumi a causa dell'autonomia differenziata: un processo decisivo per le sorti del Paese che si sta avviando in maniera caotica, localistica e sottotraccia, mentre i ministri parlano d'altro e la televisione ignora appositamente il tema. Parte così a fari spenti la secessione dei ricchi, appunto, dal momento che Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna da sole producono oltre il 50 per cento del Pil italiano.
Un federalismo iniquo, che divide l'Italia e penalizza il Sud, a partire da temi fondamentali: scuola, salute, welfare.
“Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Dopo vari passaggi alla fine degli anni Novanta si stabilirono i nuovi criteri di riparto dei fondi per la sanità che furono riassunti nel decreto legislativo 56 del 2000. Tale importante decreto, pur mantenendo ferma l’idea di un servizio sanitario nazionale, portò ad una distribuzione differenziata – e sbilanciata a favore delle Regioni settentrionali – dei fondi per la sanità che costituivano, e costituiscono ancor oggi, la parte più cospicua dei bilanci regionali.
La riforma del Titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale n. 3 del 2001, approvata in Parlamento con soli quattro voti di maggioranza nell’ultima decisiva votazione e sottoposta a un referendum popolare al quale partecipò poco più del 34 per cento degli aventi diritto, realizzò una nuova forma di regionalismo volta a trasferire alle Regioni poteri, funzioni e competenze paragonabili a quelle più proprie di Stati federali. In effetti, il nuovo Titolo V della Costituzione, elaborato da una maggioranza di centrosinistra nel tentativo di inseguire gli elettori della Lega, introdusse nell’ordinamento italiano alcuni principi di cosiddetto federalismo fiscale e ribaltò il principio stabilito dai Costituenti secondo cui le competenze non espressamente attribuite ad altro ente dovessero rimanere in capo allo Stato nel suo esatto contrario: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato.
In particolare, mentre l’art. 117 introdusse i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che dovevano essere uguali per tutti i cittadini, l’art. 119 cancellava ogni riferimento al Mezzogiorno, introduceva la formula secondo cui gli enti locali compartecipano al gettito dei tributi erariali «riferibile al loro territorio» e istituiva, nel contempo, un fondo di perequazione per i territori con minore capacità fiscale. Insomma si cercava di salvare l’unità dello Stato affermando che, in teoria, i servizi devono essere uguali per tutti, ma si riconosceva che in alcune regioni virtuose – solo perché economicamente più forti – i servizi pubblici potevano essere anche migliori rispetto a quelli previsti dai semplici livelli essenziali.
Che queste diverse prescrizioni normative non potessero stare insieme, perché creavano un’artificiale sperequazione tra Regioni più ricche e Regioni più povere, era stato subito chiaro alla maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento. Così il Titolo V era stato oggetto di riscritture e correzioni tanto da parte del centrodestra che del centrosinistra; mentre la Corte costituzionale, con una giurisprudenza quasi ventennale, ha contribuito a districare e chiarire le evidenti contraddizioni presenti nel testo del 2001. Infine si è passati dalle velleità di riscrittura o di semplice correzione del Titolo V da parte del Parlamento nazionale, alla richiesta di alcune Regioni di passare all’effettiva attuazione di quanto contenuto nel testo della riforma del 2001.
Ciò è stato reso possibile dal nuovo art. 114 che, ponendo sullo stesso piano Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, ha aperto la strada a forme di legislazione ‘contrattata’. Le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, hanno preso l’iniziativa per realizzare «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» secondo il dettato del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto dal centrosinistra con la riforma del 2001.
Si tratta di procedure inedite e complesse, mai applicate prima, interpretate in modo diverso dalle tre Regioni che le hanno finora utilizzate: la Lombardia e il Veneto hanno basato le proprie richieste su appositi referendum regionali svoltisi il 22 ottobre del 2017 (in Lombardia hanno partecipato al voto solo il 36% degli aventi diritto ndr); mentre la giunta regionale dell’Emilia Romagna, ha ritenuto di poter procedere con la sola approvazione della richiesta di ulteriore autonomia da parte del Consiglio regionale. Il 28 febbraio del 2018 il governo Gentiloni ha approvato tre accordi preliminari con il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna.[1]”
Da allora e grazie alla nascita del governo pentaleghista, la secessione dei ricchi ha preso un rapido avvio a tappe forzate, favorita dal fatto che tutti gli attori in scena sono leghisti. Gli ultimi incontri Governo-Regioni per la messa a punto del progetto di nuove autonomie regionali sono stati di fatto vertici operativi della Lega, suscitando infatti nei giorni scorsi la protesta del Presidente dell’Emilia-Romagna per il mancato invito: “presenti Salvini, il suo braccio destro nei corridoi del governo, Giorgetti, i governatori leghisti di Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, il ministro per gli Affari Regionali Erika Stefani (leghista). Su un tema che – proclama ad alta voce una petizione firmata da 15 mila fra giuristi, economisti, esperti – riguarda tutti gli italiani, ma che la Lega ha praticamente sequestrato, recintando accuratamente ogni possibilità di dibattito e di discussione. E che intende portare fino in fondo, sulla punta del ricatto di una crisi di governo, a tempi serratissimi. Il progetto vedrà la luce, nei suoi dettagli, il 15 febbraio, approderà, a marce e voti forzati in Parlamento dove, una volta approvato, non potrà essere modificato per 10 anni, senza l’assenso delle regioni interessate. Dopo quel voto l’Italia non sarà più la stessa.[3]
Verrà infatti ratificata ufficialmente l’ esistenza di cittadini di serie A (quelli delle regioni ricche) e cittadini di serie B ( tutti gli altri). Ai cittadini italiani non saranno più riconosciuti gli stessi diritti, ma questi cambieranno in base al luogo di nascita.
Secondo uno studio degli economisti Adriano Giannola presidente Svimez e Gaetano Stornaiuolo dell’Università di Napoli “Federico II”, «le Regioni che attueranno il federalismo differenziato vedranno incrementata nella situazione ex post la quota delle risorse erogata e gestita dalle loro Amministrazioni rispetto alle situazioni ex ante (+106 miliardi per la Lombardia, +41 miliardi per il Veneto e +43 miliardi per l’Emilia-Romagna), mentre si assisterà ad una diminuzione di pari importo delle risorse gestite direttamente dall’Amministrazione centrale».
“Ma la «secessione dei ricchi» si baserebbe, in realtà, su un equivoco consistente nel ritenere effettivamente esistente nelle pieghe del bilancio dello Stato un residuo fiscale a favore di alcune Regioni e, in particolare, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Il residuo fiscale, infatti, sarebbe nient’altro che la «differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori». Sempre secondo Giannola e Stornaiuolo, da un punto di vista di contabilità pubblica, saremmo di fronte a un equivoco perché in uno Stato unitario non ci sono residui fiscali dal momento che il rapporto fiscale si svolge tra il cittadino e lo Stato e non con lo specifico territorio di residenza dei soggetti che pagano le imposte. Inoltre, anche ammettendo l’ipotesi dell’esistenza di un residuo fiscale, vi sarebbe un palese errore di calcolo in quanto non si terrebbe conto del fatto che una parte della differenza di quanto versato all’erario rispetto a quanto trasferito dallo Stato alle Regioni ritornerebbe sul territorio regionale in forma di pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico posseduti dai soggetti residenti in quelle regioni.
Insomma, prendendo in considerazione la distribuzione territoriale dei detentori dei titoli del debito pubblico statale e scomputando il pagamento dei relativi interessi, assisteremmo a un’enorme riduzione del presunto residuo fiscale delle Regioni interessate dal momento che una gran parte del debito pubblico è posseduto da soggetti residenti proprio in quelle Regioni. L’attuazione dell’art. 116 terzo comma, dunque, mentre, da un lato, determina lo spostamento di ingenti flussi finanziari dallo Stato alle Regioni, non tiene conto dei flussi di spesa che arrivano ai territori sotto forma di interessi sul debito pubblico statale.
In ultima analisi il rischio contenuto nell’attuazione del terzo comma dell’art. 116 non sarebbe soltanto quello politico di una possibile rottura dell’Unità nazionale, quanto quello, ben più concreto, di rendere non più sostenibile il debito pubblico statale a causa della riduzione dei flussi di cassa di livello statale come conseguenza del trasferimento di funzioni fondamentali, come la sanità e l’istruzione, alle Regioni.
In uno Stato unitario bisogna assicurare gli stessi servizi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Sono i cittadini più ricchi che, pagando più tasse, finanziano i servizi per i cittadini più poveri su tutto il territorio nazionale. Le eventuali differenze andrebbero semplicemente corrette attraverso una riforma delle organizzazioni pubbliche o private che offrono tali servizi mettendole in condizioni di offrire gli stessi servizi su tutto il territorio nazionale. Una possibile via d’uscita per potrebbe essere quella di stabilire per legge i cosiddetti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e i cosiddetti Lea (Livelli essenziali di assistenza), [ad oggi dal 2001 guarda caso colpevolmente mai fissati ndr], e di fissarli nella media di quelli attualmente garantiti in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Ciò significa che l’eventuale residuo fiscale potrebbe effettivamente spettare alle Regioni interessate soltanto laddove i servizi siano effettivamente deficitari.
Facendo l’esempio della sanità, siccome i livelli dei servizi in quelle tre Regioni sono già più alti rispetto a quelli di tutte le altre a statuto ordinario, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna non avrebbero diritto a ulteriori trasferimenti rispetto alle altre Regioni perché, se così fosse, si andrebbe incontro alla lesione del diritto fondamentale alla salute. Lo Stato dovrebbe, cioè, impiegare i residui fiscali per portare i servizi nelle Regioni deficitarie ai livelli essenziali delle Regioni più efficienti e non per rafforzare quelli delle Regioni più ricche. Se ciò non fosse accettato dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna, non resta che minacciare il trasferimento del debito pubblico italiano alle singole Regioni in proporzione alla ricchezza prodotta da ciascuna di esse e alla residenza territoriale dei possessori dei titoli al fine di scoraggiare coloro che oggi vorrebbero portare lo scontro politico fino alla rottura dell’Unità nazionale. [1]”
“Il presidente Svimez Giannola intervenendo sul Corriere del Mezzogiorno sulla “secessione dei ricchi” ha lanciato l’allarme sui risvolti negativi che si avranno soprattutto su sanità e istruzione al Sud. La concorrenza sleale tra i territori provocherà tensioni ed il rischio di un rifiuto dello Stato.
Così mentre il leghista Giorgetti annuncia la fine delle risorse per il Sud, Salvini cerca di gestire la sperequazione a vantaggio del Nord acquisendo, con una propaganda fuorviante, consensi proprio al Sud grazie all’aiuto del M5s alleato e sodale, ad un’abile strategia comunicativa e all’aiuto dei media.
“Il giornalista di Repubblica Marco Ruffolo, prevede infatti che «dopo il primo anno (ed entro i successivi cinque) i fabbisogni di spesa per le nuove competenze regionali vengano legati al gettito fiscale. E quindi saranno tanto più alti quanto più elevato è il gettito di quella regione. In altre parole, il principio che sta per passare è questo: se sei un cittadino abbiente e quindi paghi più tasse, hai diritto a più spesa pubblica. Da finanziare come? Non con un aumento fiscale a carico della Regione, ma con una maggiore “compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali”. Ossia si consente a quella Regione di ritagliarsi una fetta più grande della torta complessiva. A scapito quindi del resto del Paese». Ne consegue che si riconoscono ai cittadini più ricchi più diritti al welfare, inoltre queste spese aggiuntive (per le regioni più ricche) peseranno sul resto del Paese.
Per di più, tutto questo si verificherà, e qui sta l’inganno, senza che siano definiti i livelli essenziali delle prestazioni sociali (i Lep) da assicurare omogeneamente in tutta Italia, come prescrive la legge mai rispettata.
La secessione dei ricchi impatterà anche sulla scuola e sull’università. Il governo sembra infatti orientato ad accettare, sia pure gradualmente, la “regionalizzazione” della scuola, a cominciare dal personale, con contratti collettivi regionali, ai programmi scolastici e alle dotazioni. Altrettanto viene previsto per i “fondi statali all’università”. L’obiettivo non è tanto e non è solo quello di introdurre istanze regionalistiche nell’organizzazione e nella stessa didattica, ma soprattutto quello di aumentare lo stipendio dei propri insegnanti.
“Chi insegna in una scuola al centro di Milano o di Treviso – spiega l’economista Viesti – potrebbe essere pagato di più di chi lavora, con difficoltà molto maggiori, nelle periferie di Roma o di Napoli, in base al principio che i suoi studenti sono più ricchi”.
Ma il punto più importante è quello delle tasse. E del residuo fiscale, che rappresentava il punto di solidarietà insuperabile per le richieste degli autonomisti, che vivono in Regioni le cui tasse sono maggiori delle spese e quindi i loro soldi finiscono alle regioni dove invece le tasse sono inferiori alle spese. Loro ufficialmente chiedono solo di trasferire le competenze. Ma poi nelle trattative con il governo cercano di strappare, attraverso la nuova stima dei fabbisogni, una spesa maggiore da finanziare trattenendo tasse sul territorio.
Qualche giorno fa Il Messaggero raccontava in un articolo a firma di Francesco Pacifico che l’autonomia del Nord, così come è stata concepita finora, rischia di far perdere tra uno e due miliardi alle regioni del Sud. Basta guardare ai residui fiscali, cioè la differenza tra quanto si raccoglie di gettito e quanto si spende per i propri cittadini: Stando all’ultimo monitoraggio realizzato con i Conti pubblici territoriali, riferito al 2016, la Campania registra un saldo negativo di 12 miliardi di euro, la Calabria di 10,8 miliardi, la Puglia di 10 miliardi, la Sicilia – a Statuto speciale – di 5 miliardi, l’Abruzzo di 3,1 miliardi, la Basilicata di 2,2 miliardi e il Molise di 1,2 miliardi di euro. Per la cronaca, il residuo fiscale della sola Lombardia supera i 56 miliardi.
Se si applicasse l’ipotesi più spinta di autonomia le principali regionali del Sud perderebbero ognuna tra gli uno e i duemiliardi di euro per la sanità. Senza dimenticare che sotto il Liri Garigliano vive un terzo della popolazione nazionale, un terzo delle entrate è legato a “contributi sociali” e c’è un Pil procapite pari a poco meno della metà di quello del Nord.
E questo è l’altro lato della medaglia. Il CNR-Issirfa ha quantificato che con i nuovi poteri la spesa pubblica in Lombardia salirà di circa 5,2 miliardi di euro all’anno, di 2,9 miliardi in Veneto e di 2,6 miliardi in Emilia-Romagna. E siccome lo Stato fa fatica a indebitarsi, si avrà «una riduzione delle risorse a disposizione nelle altre Regioni». Il conto totale è presto fatto: la secessione dei ricchi costerà agli altri 20 miliardi di euro. [2]”
Lo smantellamento del SSN continuerà così nel segno dell’egoismo diffuso e del profitto di pochi, a danno di solidarietà ed equità ed in spregio all’art. 32 della Costituzione. Una decina di giorni fa si sono riunite tutte le federazioni degli ordini professionali della sanità per un totale di un milione e mezzo di operatori, per dire “no” al regionalismo differenziato, mentre, nello stesso giorno, a dire inspiegabilmente “sì”, spiazzando tutti, è stata proprio la ministra della Salute Giulia Grillo, in barba ai tanti voti presi nel Mezzogiorno dal M5S.
Il tutto mentre al Sud scende l’aspettativa di vita, come certifica l’ultimo rapporto Crea. La salute è un diritto universale che non dovrebbe generare disuguaglianze.
Dal 2009 la spesa pubblica generale continua a scendere. Curarsi è un lusso per oltre una famiglia su 20. L’impoverimento sanitario aumenta e riguarda oltre 400 mila famiglie. Al Sud va peggio, curarsi è un lusso per l’8% delle famiglie.
Da leggere al proposito le giuste dichiarazioni su Repubblica del 21 gennaio dell’ex Presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani a proposito di autonomia differenziata, che evidentemente la pensa diversamente all’attuale Presidente Stefano Bonaccini: “l’autonomia differenziata non può diventare una rincorsa ad un neo- secessionismo mascherato che pregiudicherebbe l’unità nazionale e l’eguale trattamento di tutti cittadini. Per questo è indispensabile definire un quadro nazionale nel quale le risorse, le competenze e l’autonomia si possano esercitare assicurando i livelli dei servizi e dei diritti civili e sociali per tutti i cittadini. Sulle risorse va chiarito un punto essenziale: spesa storica, residuo fiscale, costi standard sono concetti che debbono fare sempre i conti in primo luogo con la storica disparità tra Nord e Sud dal punto di vista sia delle risorse disponibili sia della reale dotazione dei servizi a disposizione dei cittadini.”
Di parere ovviamente opposto il Presidente lombardo Fontana, con un linguaggio che ricorda tempi bui, in una intervista del 5 gennaio vuole che l’efficienza lombarda “infetti” il resto del Paese e, molto democraticamente, ritiene che chi non è d’accordo con lui sia un cialtrone. Infine avverte il M5s e Di Maio, che non a caso lo ha rassicurato in merito nei giorni scorsi, che senza accordo salta il governo.
Vedremo ora cosa accadrà il 15 febbraio nell’incontro fra i Presidenti “secessionisti” ed il Presidente del Consiglio Conte. In poche parole le Regioni del Nord si illudono di trasformarsi in tanti piccoli Stati. Questa arroganza non sfida solo la legge e la Costituzione, ma a lungo andare andrà anche contro i loro stessi interessi visto che l’80% dei prodotti del Nord viene venduto nelle altre Regioni dello stivale.
Domanda: cosa accadrà non appena l’opinione pubblica del Mezzogiorno, che già ribolle come un vulcano pronto ad esplodere, verrà finalmente a conoscenza (visto il mutismo assoluto delle televisioni in merito) della truffa ordita a loro danni e si inizieranno ad avvertire le conseguenze reali nei prossimi mesi del calo di risorse disponibili ? Sicuramente per iniziare ci sarà quantomeno un rifiuto all’acquisto di prodotti di queste tre Regioni. Sono cose già viste nella storia col finale già scritto, nulla di nuovo, ad iniziare dal Boston Tea Party, primo atto della rivoluzione americana del 1773, quando una compagine di giovani americani,travestiti da indiani Mohawk e si imbarcò a bordo delle navi inglesi ancorate nel porto di Boston e gettarono in mare le casse di tè trasportate. Non a caso il meridionalista Nicola Zitara, già direttore di Lotta Continua, profetizzò che “il riscatto del SUD passa per un camioncino della Galbani che viene buttato da un viadotto della Salerno - Reggio Calabria.”
Sembra che lo sguardo di una parte rilevante delle classi dirigenti politico-economiche del Nord (ben al di là del perimetro leghista) si sia decisamente accorciato. Posizione assai miope, sia consentito dirlo e che arruola anche il PD visto che la Vicepresidente dei Deputati PD Alessia Rotta sostiene con forza la secessione dei ricchi (dal Gazzettino). Non solo ma addirittura attacca Zaia, perché secondo lei non rivendicherebbe con sufficiente forza i 9/10 del gettito fiscale. Ovviamente togliendolo a tutti gli altri italiani. In altre parole sorpasso a destra: più leghista della Lega.
Pare che l’equità sia un concetto passato di moda. Se non si rilancia l’intero Paese, se non si fa “ripartire” il Sud, se non si investe in tutte le sue città e in tutti i suoi territori, le stesse aree più forti ne soffriranno. Tenderanno a ridiventare, come in un passato non così lontano, piccole economie satelliti di quella germanica; e non la parte più avanzata di un grande Paese.
E’giusto ricordare che senza investimenti pubblici il Sud già nell’attuale situazione si appresta a sprofondare. Considerando poi che con il cosiddetto “governo del cambiamento” nulla è in realtà cambiato per il Sud se non in peggio.
Nella manovra del “cambiamento “del fascio pentaleghista sono previsti infatti i seguenti segni meno per il Mezzogiorno: meno 1,65 miliardi di investimenti, meno 800 mln. del Fondo di Sviluppo e Coesione , meno 850 mln. del cofinanziamento dei Fondi Ue e meno 150 milioni di credito di imposta.
Il tutto in una situazione che a contraddire la propaganda leghista, vede il Sud già penalizzato enormemente dagli investimenti in opere pubbliche degli ultimi cinquat’anni rispetto al Nord (come da tabella Svimez, Ance, Banca d’Italia allegata).
La situazione nel Mezzogiorno è già esplosiva da anni, se consideriamo che il Sud è afflitto appunto da bassi livelli d’investimenti e scarsità di infrastrutture rispetto al nord, alta disoccupazione ( maggiore di tre volte rispetto al Nord), disoccupazione giovanile al record europeo in Calabria (58,7%), record europeo di Neet ( tre milioni e mezzo di giovani che non studiano più e non lavorano), povertà assoluta al 10% della popolazione più un 40% in povertà relativa, emigrazione verso il nord e l’estero a livelli record da dati OCSE, emergenze ambientali e sanitarie, evasione scolastica vicina al 20%, ben 6 punti sopra la media nazionale, il doppio di quella europea, un sistema universitario messo alle strette per effetto di criteri "folli" nella ripartizione dei fondi che premiano le Università del nord, i comuni prossimi al default grazie alle folli politiche del pareggio di bilancio, con conseguenti politiche socio-sanitarie quasi azzerate e trasporti locali ai minimi storici, un'aspettativa di vita più bassa di 5 anni rispetto alla media nazionale, natalità in forte calo causa emigrazione giovanile e si potrebbe ancora continuare a lungo ...
“I grandi meridionalisti (Salvemini, Gramsci, Fiore, Rossi-Doria, Nitti, etc.) non hanno mai coltivato lo sfascio della nazione. Al contrario, il testo della nostra Costituzione è visibilmente attraversato dal grande fiume del pensiero meridionalista, il quale ne costituì un substrato fecondo. Il miope tentativo di trattenere più risorse su una o più regioni che oggi sono più ricche è sconveniente per una serie di ragioni: in primis, perché lo sono anche grazie a risorse in passato investite dal governo nazionale su quei territori; poi, perché questo approccio confligge col concetto di interdipendenza economica e si corre il rischio di costruire un boomerang che danneggerà anche quei territori che oggi puntano a salvarsi sulla propria piccola scialuppa di salvataggio. È quantomeno bizzarro che coloro i quali lanciano slogan come “prima gli italiani” si trincerino in battaglie dal vago sapore secessionista nel nome di un localismo peraltro verosimilmente contrario allo spirito costituzionale.”[4]
E così lentamente muore lo spirito unitario e i “ricchi secessionisti” alzano sempre più la posta, non solo vogliono le tante competenze richieste, ma Zaia ora vuole gestire anche le autostrade, magari con un bel casello di pedaggio al confine ( Gazzettino del 23/12/18) e mentre in televisione nessuno ne parla, il Nord chiede, grazie al Decreto semplificazioni già approvato al Senato, anche la proprietà ed il controllo delle reti idriche sottraendole allo Stato. La posta in gioco è la riscossione di ricchi canoni di cui beneficeranno le regioni del Nord a scapito di quelle del Sud. Si stimano (lo scrive la relazione tecnica approvata dalla Ragioneria dello Stato) entrate totali per Regioni e Province di circa 300 milioni l’anno solo per la prima fase delle riassegnazioni — 9 miliardi nell’arco di 30 anni — senza contare 60 milioni di euro l’anno in elettricità gratis «da destinare per servizi pubblici e categorie di utenti dei territori interessati dalle concessioni».
Insomma, come si leggeva nei manifesti di una decina d’anni fa della Lega Nord — dove Umberto Bossi compariva agitando un pugno chiuso — «da oggi i soldi delle nostre dighe sono della nostra gente».
E così grazie al supporto fondamentale del M5s, che ha tradito il voto del Sud, la Lega si appresta a raggiungere il suo obiettivo storico: la secessione della “Padania”.
Il tutto mentre addirittura la ministra per il Mezzogiorno,senza portafoglio, Barbara Lezzi del M5s afferma in una intervista (Mattino di Padova del 23 gennaio) che “L’autonomia differenziata non è il nemico”.
In conclusione: chi ha di più dovrebbe pagare di più, a prescindere dal fatto che viva a Milano o a Reggio Calabria, e di conseguenza a prescindere dal luogo in cui risiede dovrebbe avere la stessa qualità di servizi pubblici. Ma visto che nè i Lep né il Fondo Perequativo, previsti entrambi dagli articoli 117 e 119 della Costituzione, sono stati mai realizzati, si è consentito in modo a dir poco miope che andasse avanti un regionalismo fortemente sbilanciato a favore delle zone ricche del paese.
Si aprirà così una nuova stagione di tagli ai servizi e di emigrazioni dalle regioni povere a quelle ricche, sostenute anche dal meccanismo della emigrazione forzata prevista dal recente decreto sul reddito di cittadinanza. E’ ovvio che questo processo non potrà che peggiorare le già fortissime disuguaglianze sociali che esistono nel paese.
Ai tagli ai servizi pubblici, alle privatizzazioni, alla mancanza di lavoro soprattutto per i giovani, alla precarizzazione dello stesso e al contenimento dei salari che hanno attraversato in questi anni tutto il paese, ispirati dalle politiche neoliberiste di Bruxelles, si aggiungerà come detonatore del malcontento di gran parte del paese” la secessione dei ricchi”, che non potrà che accrescere queste disparità, preparando così un periodo di tensioni e scontri sociali come mai prima d’ora nella storia repubblicana del nostro Paese.
E mentre sono in corso petizioni e proteste sostenute da meridionalisti, scrittori, giornalisti, solo pochi sindaci del Sud hanno preso posizione decisa in merito, così come la giunta regionale calabrese che pochi giorni fa ha votato all’unanimità un documento di diffida al governo nel procedere alla secessione dei ricchi.
Per il resto si ringraziano sentitamente i meridionali e gli italiani tutti che continuano ad essere complici di questo governo a trazione leghista malgrado l’evidenza dei fatti.
La storia vi giudicherà


Riferimenti:
[1] Regionalismo differenziato | Analisi dei rischi del regionalismo differenziato, di Sergio Marotta
[2] Next quotidianino – La secessione dei ricchi è servita, di Alessandro D’Amato
[3] La secessione dei ricchi, così la Lega vuol tagliare le risorse alle regioni più povere, di Maurizio Ricci su Notizie.Tiscali
[4] Auguri al Sud di Alessandro Cannavale su Basilicata 24
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Di Natale Cuccurese e Michele Dell'Edera 
[Pubblicato su Compagne e Compagni]

Grazie al M5s e ai suoi parlamentari, utili cavalli di Troia al servizio di Salvini, la Lega sta per raggiungere dopo decenni il suo obiettivo storico ai danni del Mezzogiorno: la secessione.
Il progetto vedrà la luce, nei suoi dettagli, il 15 febbraio, approderà, a marce e voti forzati in Parlamento dove, una volta approvato, non potrà essere modificato per 10 anni, senza l’assenso delle regioni interessate. C'è il rischio che l'Italia vada in frantumi a causa dell'autonomia differenziata: un processo decisivo per le sorti del Paese che si sta avviando in maniera caotica, localistica e sottotraccia, mentre i ministri parlano d'altro e la televisione ignora appositamente il tema. Parte così a fari spenti la secessione dei ricchi, appunto, dal momento che Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna da sole producono oltre il 50 per cento del Pil italiano.
Un federalismo iniquo, che divide l'Italia e penalizza il Sud, a partire da temi fondamentali: scuola, salute, welfare.
“Che le Regioni fossero troppo costose per il bilancio dello Stato italiano lo aveva già detto, in Assemblea costituente, Francesco Saverio Nitti che certo di conti pubblici se ne intendeva, essendo stato uno dei massimi studiosi di scienza delle finanze noto e apprezzato in tutta Europa. Dopo vari passaggi alla fine degli anni Novanta si stabilirono i nuovi criteri di riparto dei fondi per la sanità che furono riassunti nel decreto legislativo 56 del 2000. Tale importante decreto, pur mantenendo ferma l’idea di un servizio sanitario nazionale, portò ad una distribuzione differenziata – e sbilanciata a favore delle Regioni settentrionali – dei fondi per la sanità che costituivano, e costituiscono ancor oggi, la parte più cospicua dei bilanci regionali.
La riforma del Titolo V della Costituzione, con la legge costituzionale n. 3 del 2001, approvata in Parlamento con soli quattro voti di maggioranza nell’ultima decisiva votazione e sottoposta a un referendum popolare al quale partecipò poco più del 34 per cento degli aventi diritto, realizzò una nuova forma di regionalismo volta a trasferire alle Regioni poteri, funzioni e competenze paragonabili a quelle più proprie di Stati federali. In effetti, il nuovo Titolo V della Costituzione, elaborato da una maggioranza di centrosinistra nel tentativo di inseguire gli elettori della Lega, introdusse nell’ordinamento italiano alcuni principi di cosiddetto federalismo fiscale e ribaltò il principio stabilito dai Costituenti secondo cui le competenze non espressamente attribuite ad altro ente dovessero rimanere in capo allo Stato nel suo esatto contrario: ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato doveva spettare alle Regioni e non più allo Stato.
In particolare, mentre l’art. 117 introdusse i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che dovevano essere uguali per tutti i cittadini, l’art. 119 cancellava ogni riferimento al Mezzogiorno, introduceva la formula secondo cui gli enti locali compartecipano al gettito dei tributi erariali «riferibile al loro territorio» e istituiva, nel contempo, un fondo di perequazione per i territori con minore capacità fiscale. Insomma si cercava di salvare l’unità dello Stato affermando che, in teoria, i servizi devono essere uguali per tutti, ma si riconosceva che in alcune regioni virtuose – solo perché economicamente più forti – i servizi pubblici potevano essere anche migliori rispetto a quelli previsti dai semplici livelli essenziali.
Che queste diverse prescrizioni normative non potessero stare insieme, perché creavano un’artificiale sperequazione tra Regioni più ricche e Regioni più povere, era stato subito chiaro alla maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento. Così il Titolo V era stato oggetto di riscritture e correzioni tanto da parte del centrodestra che del centrosinistra; mentre la Corte costituzionale, con una giurisprudenza quasi ventennale, ha contribuito a districare e chiarire le evidenti contraddizioni presenti nel testo del 2001. Infine si è passati dalle velleità di riscrittura o di semplice correzione del Titolo V da parte del Parlamento nazionale, alla richiesta di alcune Regioni di passare all’effettiva attuazione di quanto contenuto nel testo della riforma del 2001.
Ciò è stato reso possibile dal nuovo art. 114 che, ponendo sullo stesso piano Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane, ha aperto la strada a forme di legislazione ‘contrattata’. Le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dopo il fallimento del referendum costituzionale del 2016, hanno preso l’iniziativa per realizzare «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» secondo il dettato del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, introdotto dal centrosinistra con la riforma del 2001.
Si tratta di procedure inedite e complesse, mai applicate prima, interpretate in modo diverso dalle tre Regioni che le hanno finora utilizzate: la Lombardia e il Veneto hanno basato le proprie richieste su appositi referendum regionali svoltisi il 22 ottobre del 2017 (in Lombardia hanno partecipato al voto solo il 36% degli aventi diritto ndr); mentre la giunta regionale dell’Emilia Romagna, ha ritenuto di poter procedere con la sola approvazione della richiesta di ulteriore autonomia da parte del Consiglio regionale. Il 28 febbraio del 2018 il governo Gentiloni ha approvato tre accordi preliminari con il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna.[1]”
Da allora e grazie alla nascita del governo pentaleghista, la secessione dei ricchi ha preso un rapido avvio a tappe forzate, favorita dal fatto che tutti gli attori in scena sono leghisti. Gli ultimi incontri Governo-Regioni per la messa a punto del progetto di nuove autonomie regionali sono stati di fatto vertici operativi della Lega, suscitando infatti nei giorni scorsi la protesta del Presidente dell’Emilia-Romagna per il mancato invito: “presenti Salvini, il suo braccio destro nei corridoi del governo, Giorgetti, i governatori leghisti di Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, il ministro per gli Affari Regionali Erika Stefani (leghista). Su un tema che – proclama ad alta voce una petizione firmata da 15 mila fra giuristi, economisti, esperti – riguarda tutti gli italiani, ma che la Lega ha praticamente sequestrato, recintando accuratamente ogni possibilità di dibattito e di discussione. E che intende portare fino in fondo, sulla punta del ricatto di una crisi di governo, a tempi serratissimi. Il progetto vedrà la luce, nei suoi dettagli, il 15 febbraio, approderà, a marce e voti forzati in Parlamento dove, una volta approvato, non potrà essere modificato per 10 anni, senza l’assenso delle regioni interessate. Dopo quel voto l’Italia non sarà più la stessa.[3]
Verrà infatti ratificata ufficialmente l’ esistenza di cittadini di serie A (quelli delle regioni ricche) e cittadini di serie B ( tutti gli altri). Ai cittadini italiani non saranno più riconosciuti gli stessi diritti, ma questi cambieranno in base al luogo di nascita.
Secondo uno studio degli economisti Adriano Giannola presidente Svimez e Gaetano Stornaiuolo dell’Università di Napoli “Federico II”, «le Regioni che attueranno il federalismo differenziato vedranno incrementata nella situazione ex post la quota delle risorse erogata e gestita dalle loro Amministrazioni rispetto alle situazioni ex ante (+106 miliardi per la Lombardia, +41 miliardi per il Veneto e +43 miliardi per l’Emilia-Romagna), mentre si assisterà ad una diminuzione di pari importo delle risorse gestite direttamente dall’Amministrazione centrale».
“Ma la «secessione dei ricchi» si baserebbe, in realtà, su un equivoco consistente nel ritenere effettivamente esistente nelle pieghe del bilancio dello Stato un residuo fiscale a favore di alcune Regioni e, in particolare, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Il residuo fiscale, infatti, sarebbe nient’altro che la «differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori». Sempre secondo Giannola e Stornaiuolo, da un punto di vista di contabilità pubblica, saremmo di fronte a un equivoco perché in uno Stato unitario non ci sono residui fiscali dal momento che il rapporto fiscale si svolge tra il cittadino e lo Stato e non con lo specifico territorio di residenza dei soggetti che pagano le imposte. Inoltre, anche ammettendo l’ipotesi dell’esistenza di un residuo fiscale, vi sarebbe un palese errore di calcolo in quanto non si terrebbe conto del fatto che una parte della differenza di quanto versato all’erario rispetto a quanto trasferito dallo Stato alle Regioni ritornerebbe sul territorio regionale in forma di pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico posseduti dai soggetti residenti in quelle regioni.
Insomma, prendendo in considerazione la distribuzione territoriale dei detentori dei titoli del debito pubblico statale e scomputando il pagamento dei relativi interessi, assisteremmo a un’enorme riduzione del presunto residuo fiscale delle Regioni interessate dal momento che una gran parte del debito pubblico è posseduto da soggetti residenti proprio in quelle Regioni. L’attuazione dell’art. 116 terzo comma, dunque, mentre, da un lato, determina lo spostamento di ingenti flussi finanziari dallo Stato alle Regioni, non tiene conto dei flussi di spesa che arrivano ai territori sotto forma di interessi sul debito pubblico statale.
In ultima analisi il rischio contenuto nell’attuazione del terzo comma dell’art. 116 non sarebbe soltanto quello politico di una possibile rottura dell’Unità nazionale, quanto quello, ben più concreto, di rendere non più sostenibile il debito pubblico statale a causa della riduzione dei flussi di cassa di livello statale come conseguenza del trasferimento di funzioni fondamentali, come la sanità e l’istruzione, alle Regioni.
In uno Stato unitario bisogna assicurare gli stessi servizi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Sono i cittadini più ricchi che, pagando più tasse, finanziano i servizi per i cittadini più poveri su tutto il territorio nazionale. Le eventuali differenze andrebbero semplicemente corrette attraverso una riforma delle organizzazioni pubbliche o private che offrono tali servizi mettendole in condizioni di offrire gli stessi servizi su tutto il territorio nazionale. Una possibile via d’uscita per potrebbe essere quella di stabilire per legge i cosiddetti Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) e i cosiddetti Lea (Livelli essenziali di assistenza), [ad oggi dal 2001 guarda caso colpevolmente mai fissati ndr], e di fissarli nella media di quelli attualmente garantiti in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Ciò significa che l’eventuale residuo fiscale potrebbe effettivamente spettare alle Regioni interessate soltanto laddove i servizi siano effettivamente deficitari.
Facendo l’esempio della sanità, siccome i livelli dei servizi in quelle tre Regioni sono già più alti rispetto a quelli di tutte le altre a statuto ordinario, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna non avrebbero diritto a ulteriori trasferimenti rispetto alle altre Regioni perché, se così fosse, si andrebbe incontro alla lesione del diritto fondamentale alla salute. Lo Stato dovrebbe, cioè, impiegare i residui fiscali per portare i servizi nelle Regioni deficitarie ai livelli essenziali delle Regioni più efficienti e non per rafforzare quelli delle Regioni più ricche. Se ciò non fosse accettato dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna, non resta che minacciare il trasferimento del debito pubblico italiano alle singole Regioni in proporzione alla ricchezza prodotta da ciascuna di esse e alla residenza territoriale dei possessori dei titoli al fine di scoraggiare coloro che oggi vorrebbero portare lo scontro politico fino alla rottura dell’Unità nazionale. [1]”
“Il presidente Svimez Giannola intervenendo sul Corriere del Mezzogiorno sulla “secessione dei ricchi” ha lanciato l’allarme sui risvolti negativi che si avranno soprattutto su sanità e istruzione al Sud. La concorrenza sleale tra i territori provocherà tensioni ed il rischio di un rifiuto dello Stato.
Così mentre il leghista Giorgetti annuncia la fine delle risorse per il Sud, Salvini cerca di gestire la sperequazione a vantaggio del Nord acquisendo, con una propaganda fuorviante, consensi proprio al Sud grazie all’aiuto del M5s alleato e sodale, ad un’abile strategia comunicativa e all’aiuto dei media.
“Il giornalista di Repubblica Marco Ruffolo, prevede infatti che «dopo il primo anno (ed entro i successivi cinque) i fabbisogni di spesa per le nuove competenze regionali vengano legati al gettito fiscale. E quindi saranno tanto più alti quanto più elevato è il gettito di quella regione. In altre parole, il principio che sta per passare è questo: se sei un cittadino abbiente e quindi paghi più tasse, hai diritto a più spesa pubblica. Da finanziare come? Non con un aumento fiscale a carico della Regione, ma con una maggiore “compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali”. Ossia si consente a quella Regione di ritagliarsi una fetta più grande della torta complessiva. A scapito quindi del resto del Paese». Ne consegue che si riconoscono ai cittadini più ricchi più diritti al welfare, inoltre queste spese aggiuntive (per le regioni più ricche) peseranno sul resto del Paese.
Per di più, tutto questo si verificherà, e qui sta l’inganno, senza che siano definiti i livelli essenziali delle prestazioni sociali (i Lep) da assicurare omogeneamente in tutta Italia, come prescrive la legge mai rispettata.
La secessione dei ricchi impatterà anche sulla scuola e sull’università. Il governo sembra infatti orientato ad accettare, sia pure gradualmente, la “regionalizzazione” della scuola, a cominciare dal personale, con contratti collettivi regionali, ai programmi scolastici e alle dotazioni. Altrettanto viene previsto per i “fondi statali all’università”. L’obiettivo non è tanto e non è solo quello di introdurre istanze regionalistiche nell’organizzazione e nella stessa didattica, ma soprattutto quello di aumentare lo stipendio dei propri insegnanti.
“Chi insegna in una scuola al centro di Milano o di Treviso – spiega l’economista Viesti – potrebbe essere pagato di più di chi lavora, con difficoltà molto maggiori, nelle periferie di Roma o di Napoli, in base al principio che i suoi studenti sono più ricchi”.
Ma il punto più importante è quello delle tasse. E del residuo fiscale, che rappresentava il punto di solidarietà insuperabile per le richieste degli autonomisti, che vivono in Regioni le cui tasse sono maggiori delle spese e quindi i loro soldi finiscono alle regioni dove invece le tasse sono inferiori alle spese. Loro ufficialmente chiedono solo di trasferire le competenze. Ma poi nelle trattative con il governo cercano di strappare, attraverso la nuova stima dei fabbisogni, una spesa maggiore da finanziare trattenendo tasse sul territorio.
Qualche giorno fa Il Messaggero raccontava in un articolo a firma di Francesco Pacifico che l’autonomia del Nord, così come è stata concepita finora, rischia di far perdere tra uno e due miliardi alle regioni del Sud. Basta guardare ai residui fiscali, cioè la differenza tra quanto si raccoglie di gettito e quanto si spende per i propri cittadini: Stando all’ultimo monitoraggio realizzato con i Conti pubblici territoriali, riferito al 2016, la Campania registra un saldo negativo di 12 miliardi di euro, la Calabria di 10,8 miliardi, la Puglia di 10 miliardi, la Sicilia – a Statuto speciale – di 5 miliardi, l’Abruzzo di 3,1 miliardi, la Basilicata di 2,2 miliardi e il Molise di 1,2 miliardi di euro. Per la cronaca, il residuo fiscale della sola Lombardia supera i 56 miliardi.
Se si applicasse l’ipotesi più spinta di autonomia le principali regionali del Sud perderebbero ognuna tra gli uno e i duemiliardi di euro per la sanità. Senza dimenticare che sotto il Liri Garigliano vive un terzo della popolazione nazionale, un terzo delle entrate è legato a “contributi sociali” e c’è un Pil procapite pari a poco meno della metà di quello del Nord.
E questo è l’altro lato della medaglia. Il CNR-Issirfa ha quantificato che con i nuovi poteri la spesa pubblica in Lombardia salirà di circa 5,2 miliardi di euro all’anno, di 2,9 miliardi in Veneto e di 2,6 miliardi in Emilia-Romagna. E siccome lo Stato fa fatica a indebitarsi, si avrà «una riduzione delle risorse a disposizione nelle altre Regioni». Il conto totale è presto fatto: la secessione dei ricchi costerà agli altri 20 miliardi di euro. [2]”
Lo smantellamento del SSN continuerà così nel segno dell’egoismo diffuso e del profitto di pochi, a danno di solidarietà ed equità ed in spregio all’art. 32 della Costituzione. Una decina di giorni fa si sono riunite tutte le federazioni degli ordini professionali della sanità per un totale di un milione e mezzo di operatori, per dire “no” al regionalismo differenziato, mentre, nello stesso giorno, a dire inspiegabilmente “sì”, spiazzando tutti, è stata proprio la ministra della Salute Giulia Grillo, in barba ai tanti voti presi nel Mezzogiorno dal M5S.
Il tutto mentre al Sud scende l’aspettativa di vita, come certifica l’ultimo rapporto Crea. La salute è un diritto universale che non dovrebbe generare disuguaglianze.
Dal 2009 la spesa pubblica generale continua a scendere. Curarsi è un lusso per oltre una famiglia su 20. L’impoverimento sanitario aumenta e riguarda oltre 400 mila famiglie. Al Sud va peggio, curarsi è un lusso per l’8% delle famiglie.
Da leggere al proposito le giuste dichiarazioni su Repubblica del 21 gennaio dell’ex Presidente dell’Emilia-Romagna Vasco Errani a proposito di autonomia differenziata, che evidentemente la pensa diversamente all’attuale Presidente Stefano Bonaccini: “l’autonomia differenziata non può diventare una rincorsa ad un neo- secessionismo mascherato che pregiudicherebbe l’unità nazionale e l’eguale trattamento di tutti cittadini. Per questo è indispensabile definire un quadro nazionale nel quale le risorse, le competenze e l’autonomia si possano esercitare assicurando i livelli dei servizi e dei diritti civili e sociali per tutti i cittadini. Sulle risorse va chiarito un punto essenziale: spesa storica, residuo fiscale, costi standard sono concetti che debbono fare sempre i conti in primo luogo con la storica disparità tra Nord e Sud dal punto di vista sia delle risorse disponibili sia della reale dotazione dei servizi a disposizione dei cittadini.”
Di parere ovviamente opposto il Presidente lombardo Fontana, con un linguaggio che ricorda tempi bui, in una intervista del 5 gennaio vuole che l’efficienza lombarda “infetti” il resto del Paese e, molto democraticamente, ritiene che chi non è d’accordo con lui sia un cialtrone. Infine avverte il M5s e Di Maio, che non a caso lo ha rassicurato in merito nei giorni scorsi, che senza accordo salta il governo.
Vedremo ora cosa accadrà il 15 febbraio nell’incontro fra i Presidenti “secessionisti” ed il Presidente del Consiglio Conte. In poche parole le Regioni del Nord si illudono di trasformarsi in tanti piccoli Stati. Questa arroganza non sfida solo la legge e la Costituzione, ma a lungo andare andrà anche contro i loro stessi interessi visto che l’80% dei prodotti del Nord viene venduto nelle altre Regioni dello stivale.
Domanda: cosa accadrà non appena l’opinione pubblica del Mezzogiorno, che già ribolle come un vulcano pronto ad esplodere, verrà finalmente a conoscenza (visto il mutismo assoluto delle televisioni in merito) della truffa ordita a loro danni e si inizieranno ad avvertire le conseguenze reali nei prossimi mesi del calo di risorse disponibili ? Sicuramente per iniziare ci sarà quantomeno un rifiuto all’acquisto di prodotti di queste tre Regioni. Sono cose già viste nella storia col finale già scritto, nulla di nuovo, ad iniziare dal Boston Tea Party, primo atto della rivoluzione americana del 1773, quando una compagine di giovani americani,travestiti da indiani Mohawk e si imbarcò a bordo delle navi inglesi ancorate nel porto di Boston e gettarono in mare le casse di tè trasportate. Non a caso il meridionalista Nicola Zitara, già direttore di Lotta Continua, profetizzò che “il riscatto del SUD passa per un camioncino della Galbani che viene buttato da un viadotto della Salerno - Reggio Calabria.”
Sembra che lo sguardo di una parte rilevante delle classi dirigenti politico-economiche del Nord (ben al di là del perimetro leghista) si sia decisamente accorciato. Posizione assai miope, sia consentito dirlo e che arruola anche il PD visto che la Vicepresidente dei Deputati PD Alessia Rotta sostiene con forza la secessione dei ricchi (dal Gazzettino). Non solo ma addirittura attacca Zaia, perché secondo lei non rivendicherebbe con sufficiente forza i 9/10 del gettito fiscale. Ovviamente togliendolo a tutti gli altri italiani. In altre parole sorpasso a destra: più leghista della Lega.
Pare che l’equità sia un concetto passato di moda. Se non si rilancia l’intero Paese, se non si fa “ripartire” il Sud, se non si investe in tutte le sue città e in tutti i suoi territori, le stesse aree più forti ne soffriranno. Tenderanno a ridiventare, come in un passato non così lontano, piccole economie satelliti di quella germanica; e non la parte più avanzata di un grande Paese.
E’giusto ricordare che senza investimenti pubblici il Sud già nell’attuale situazione si appresta a sprofondare. Considerando poi che con il cosiddetto “governo del cambiamento” nulla è in realtà cambiato per il Sud se non in peggio.
Nella manovra del “cambiamento “del fascio pentaleghista sono previsti infatti i seguenti segni meno per il Mezzogiorno: meno 1,65 miliardi di investimenti, meno 800 mln. del Fondo di Sviluppo e Coesione , meno 850 mln. del cofinanziamento dei Fondi Ue e meno 150 milioni di credito di imposta.
Il tutto in una situazione che a contraddire la propaganda leghista, vede il Sud già penalizzato enormemente dagli investimenti in opere pubbliche degli ultimi cinquat’anni rispetto al Nord (come da tabella Svimez, Ance, Banca d’Italia allegata).
La situazione nel Mezzogiorno è già esplosiva da anni, se consideriamo che il Sud è afflitto appunto da bassi livelli d’investimenti e scarsità di infrastrutture rispetto al nord, alta disoccupazione ( maggiore di tre volte rispetto al Nord), disoccupazione giovanile al record europeo in Calabria (58,7%), record europeo di Neet ( tre milioni e mezzo di giovani che non studiano più e non lavorano), povertà assoluta al 10% della popolazione più un 40% in povertà relativa, emigrazione verso il nord e l’estero a livelli record da dati OCSE, emergenze ambientali e sanitarie, evasione scolastica vicina al 20%, ben 6 punti sopra la media nazionale, il doppio di quella europea, un sistema universitario messo alle strette per effetto di criteri "folli" nella ripartizione dei fondi che premiano le Università del nord, i comuni prossimi al default grazie alle folli politiche del pareggio di bilancio, con conseguenti politiche socio-sanitarie quasi azzerate e trasporti locali ai minimi storici, un'aspettativa di vita più bassa di 5 anni rispetto alla media nazionale, natalità in forte calo causa emigrazione giovanile e si potrebbe ancora continuare a lungo ...
“I grandi meridionalisti (Salvemini, Gramsci, Fiore, Rossi-Doria, Nitti, etc.) non hanno mai coltivato lo sfascio della nazione. Al contrario, il testo della nostra Costituzione è visibilmente attraversato dal grande fiume del pensiero meridionalista, il quale ne costituì un substrato fecondo. Il miope tentativo di trattenere più risorse su una o più regioni che oggi sono più ricche è sconveniente per una serie di ragioni: in primis, perché lo sono anche grazie a risorse in passato investite dal governo nazionale su quei territori; poi, perché questo approccio confligge col concetto di interdipendenza economica e si corre il rischio di costruire un boomerang che danneggerà anche quei territori che oggi puntano a salvarsi sulla propria piccola scialuppa di salvataggio. È quantomeno bizzarro che coloro i quali lanciano slogan come “prima gli italiani” si trincerino in battaglie dal vago sapore secessionista nel nome di un localismo peraltro verosimilmente contrario allo spirito costituzionale.”[4]
E così lentamente muore lo spirito unitario e i “ricchi secessionisti” alzano sempre più la posta, non solo vogliono le tante competenze richieste, ma Zaia ora vuole gestire anche le autostrade, magari con un bel casello di pedaggio al confine ( Gazzettino del 23/12/18) e mentre in televisione nessuno ne parla, il Nord chiede, grazie al Decreto semplificazioni già approvato al Senato, anche la proprietà ed il controllo delle reti idriche sottraendole allo Stato. La posta in gioco è la riscossione di ricchi canoni di cui beneficeranno le regioni del Nord a scapito di quelle del Sud. Si stimano (lo scrive la relazione tecnica approvata dalla Ragioneria dello Stato) entrate totali per Regioni e Province di circa 300 milioni l’anno solo per la prima fase delle riassegnazioni — 9 miliardi nell’arco di 30 anni — senza contare 60 milioni di euro l’anno in elettricità gratis «da destinare per servizi pubblici e categorie di utenti dei territori interessati dalle concessioni».
Insomma, come si leggeva nei manifesti di una decina d’anni fa della Lega Nord — dove Umberto Bossi compariva agitando un pugno chiuso — «da oggi i soldi delle nostre dighe sono della nostra gente».
E così grazie al supporto fondamentale del M5s, che ha tradito il voto del Sud, la Lega si appresta a raggiungere il suo obiettivo storico: la secessione della “Padania”.
Il tutto mentre addirittura la ministra per il Mezzogiorno,senza portafoglio, Barbara Lezzi del M5s afferma in una intervista (Mattino di Padova del 23 gennaio) che “L’autonomia differenziata non è il nemico”.
In conclusione: chi ha di più dovrebbe pagare di più, a prescindere dal fatto che viva a Milano o a Reggio Calabria, e di conseguenza a prescindere dal luogo in cui risiede dovrebbe avere la stessa qualità di servizi pubblici. Ma visto che nè i Lep né il Fondo Perequativo, previsti entrambi dagli articoli 117 e 119 della Costituzione, sono stati mai realizzati, si è consentito in modo a dir poco miope che andasse avanti un regionalismo fortemente sbilanciato a favore delle zone ricche del paese.
Si aprirà così una nuova stagione di tagli ai servizi e di emigrazioni dalle regioni povere a quelle ricche, sostenute anche dal meccanismo della emigrazione forzata prevista dal recente decreto sul reddito di cittadinanza. E’ ovvio che questo processo non potrà che peggiorare le già fortissime disuguaglianze sociali che esistono nel paese.
Ai tagli ai servizi pubblici, alle privatizzazioni, alla mancanza di lavoro soprattutto per i giovani, alla precarizzazione dello stesso e al contenimento dei salari che hanno attraversato in questi anni tutto il paese, ispirati dalle politiche neoliberiste di Bruxelles, si aggiungerà come detonatore del malcontento di gran parte del paese” la secessione dei ricchi”, che non potrà che accrescere queste disparità, preparando così un periodo di tensioni e scontri sociali come mai prima d’ora nella storia repubblicana del nostro Paese.
E mentre sono in corso petizioni e proteste sostenute da meridionalisti, scrittori, giornalisti, solo pochi sindaci del Sud hanno preso posizione decisa in merito, così come la giunta regionale calabrese che pochi giorni fa ha votato all’unanimità un documento di diffida al governo nel procedere alla secessione dei ricchi.
Per il resto si ringraziano sentitamente i meridionali e gli italiani tutti che continuano ad essere complici di questo governo a trazione leghista malgrado l’evidenza dei fatti.
La storia vi giudicherà


Riferimenti:
[1] Regionalismo differenziato | Analisi dei rischi del regionalismo differenziato, di Sergio Marotta
[2] Next quotidianino – La secessione dei ricchi è servita, di Alessandro D’Amato
[3] La secessione dei ricchi, così la Lega vuol tagliare le risorse alle regioni più povere, di Maurizio Ricci su Notizie.Tiscali
[4] Auguri al Sud di Alessandro Cannavale su Basilicata 24

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