lunedì 21 febbraio 2011

Ci dicono che siamo sempre stati schiavi...

Di Vincenzo D' Amico

Ecco a voi il primo paragrafo dell'introduzione di Benedetto Croce al suo libro, Storia del Regno di Napoli, Laterza, 1944, pp. 1-5.

Qualche tempo fa, nel mettere ordine tra i miei libri e nel riunire in un solo scaffale.tutti quelli attinenti alla sto­ria napoletana, mi tornò tra mano il raro volume di Enrico Cenni, Studi sul diritto pubblico 1, e lo lessi da cima a fondo come non avevo fatto per l'innanzi. E, invitato dall'autore, e sotto la sua guida, venni penetrando in quelle che egli mi additava come le latebre della storia dell'Italia meri­dionale; e colà mi apparvero, evocate da lui, immagini del passato che prima non mi era accaduto mai di vedere, o di vedere cosi grandiose e mirabili.

Il vecchio regno di Napoli mi si trasfigurò innanzi agli occhi della mente non solo in uno degli stati più impor­tanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto, nell'avanzamento sociale, il primato, o almeno uno dei primi posti. Sorse esso infatti, nuovo e singolare esempio nella semibarbarica Europa, come monarchia civile, fon­data da Ruggiero, conservata e rassodata dai successori, in­nalzata al sommo fastigio della gloria da Federico svevo: uno stato moderno, in cui il baronaggio era contenuto in istretti confini, ai popoli si garantiva libertà e giustizia, la mente del sovrano, rischiarata da nobili concetti morali e politici, regolava il tutto, avvalendosi degli uomini capaci dovunque li trovasse e promovendo benessere e cultura; uno stato, che affermava tutt'intorno la sua potenza, sul­l'Italia media e superiore, sulle rive dell'Africa, nella peni­sola balcanica, in Palestina, e ora volgeva le mire all'Oriente, rivale degli imperatori bizantini e cupido di prendere il loro posto, ora all'Europa, centro di un effettivo Impero ro­mano germanico. Ma più ancora che il suo organamento e la sua potenza politica, che decadde o andò perduta nei se­coli seguenti, esso fu singolare e venerando per il processo del suo svolgimento civile ; perché, mentre in altri paesi la lotta contro il sistema feudale, attraverso la quale si elaborò la moderna civiltà, ebbe tardo principio o eruppe in moti violenti e rivoluzionari, nell'Italia meridionale venne com­battuta assai presto, e con non altre armi che la ragione e il diritto. Qui, anzitutto, visse sempre l'idea del Comune, vi ebbero sempre vigore i iura civitatis, i diritti che com­petono a tutti i cittadini in quanto tali; e l'ordinamento feudale, allorché fu importato nelle nostre terre, vi trovò già costituito il demanio comunale, e il barone dovè rispet­tarlo e contenersi verso di esso come qualsiasi altro privato cittadino. Se presso la più parte dei feudisti stranieri, e anche italiani, rimase assai perplesso e in ombra il con­cetto che i beni dati in feudo siano beni nazionali e non già proprietà del principe, da taluni nostri scrittori, invece, quel concetto fu messo in chiara luce : che è bella riprova della finezza e profondità del nostro senso giuridico. E se in Trancia il demanio sparve del tutto e ricomparve poi solo a pezzi e bocconi come concessione del signore, e i giuristi di colà ponevano a principio nulle terre sans seigneur, da noi questo detto sarebbe sembrato una stortura, e da noi non c'era alcun bisogno di fare e di aspettare una dichiarazione dei diritti dell'uomo, perché questi diritti vivevano nella comune coscienza, e i giuristi gagliardamente dife­sero i iura civitatis, e li protessero i sovrani; tra i quali Ferrante d'Aragona largì ai-popoli dell'Italia meridionale, con la sua prammatica del 14 dicembre 1483, la vera magna charta dei diritti del cittadino, convalidata dipoi da due prammatiche di Carlo V. Onde, nell'Italia meridionale, non ascrittizì e servi della gleba; l'investitura del feudo si dava solo quoad iurisdictionem e non quoad dominium • il feudo stesso non potè trapiantarsi, in queste terre, con la sua primitiva selvatichezza, ma, mitigandosi nelle generali condizioni del paese, manifestò presto la tendenza a trasfor­marsi in allodio col progressivo allargamento dei gradi della successione, e con quei feudi detti « misti », nei quali l'erede feudale doveva avere la qualità di erede civile, e che ai feudisti della restante Europa parvero (com'erano, nella logica del giure feudale) « mostri propri del Regno di Napoli ». La scuola giuridica napoletana, che considerò le terre date in feudo come proprietà della nazione e in vario modo ma incessantemente corrose l'ordinamento feudale, si levò « maestra in Europa di equità civile », e fu presso di noi la vera classe politica, della quale ci spetta trar vanto. Né a questi soli punti si restringono i meriti che l'Italia meridionale si acquistò nella storia civile; e, non meno che contro il feudo, insigne fu la lotta che essa, cattolica e della sua fede osservantissima, sostenne lungo i secoli per l'autonomia e l'autorità dello Stato contro le smodate pre­tese della Curia romana, sia politiche come quelle dì si­gnoria feudale sul Regno, sia giurisdizionali ed economiche, esenzioni tributarie, tribunali ecclesiastici, asili, conferi­menti di benefici, e simili. E, sempre senza cader mai in alcuna eresia, questo popolo lottò con pari forza e trionfo per la libertà di coscienza contro il Sant'Ufficio dell' Inqui­sizione, del quale non permise mai l'insediamento nella sua terra, sollevandosi unanime contro ogni siffatto tenta­tivo e stabilendo, a segno di vittoria, un'apposita giunta che invigilasse e si opponesse per questa parte alle insidie di Spagna e di Eoma. E tanto era forte il senso giuridico in queste popolazioni che, quando, a mezzo del secolo deci­mosettimo, con Masaniello esse si rivoltarono contro gli spa-gnuoli, si comportarono in tal guisa da dare in Europa « il primo esempio d'una rivoluzione legale ». E qui il Vico « pubblicò una nuova scienza civile, che dovrà, presto o tardi che sia, governare l'umano consorzio » ; e qui fiori­rono « innumerevoli giannonisti, difensori costanti e intre­pidi dei diritti dell'Homo ». Se nella storia d'Italia Firenze rappresentò l'arte e la poesia, Napoli rappresentò invece il pensiero e la filosofia; e a Napoli e non a Firenze (il di­scorso si riferisce al tempo in cui non si desiderava, o non si sperava prossima, Roma capitale), a Napoli sarebbe spet­tato di essere capitale della nuova Italia, perché (il Vico lo ha dimosti'ato) « la ragione è uno stadio superiore alla fantasia » 2.

Or come mai tutta questa sublime storia napoletana, questa parte quasi privilegiata che essa ha avuta nell'ope­rosità politica e civile, questa cosi grande e perseverante virtù e sapienza di cittadini devoti alla patria non è gene­ralmente conosciuta e, anzi, è generalmente disconosciuta e negata? « Se questa sacra terra (conclude il Cenni) è ora messa in non cale, se ne vuole avere unica obbligazione alla setta liberale gallizzante, stigmatizzata sin sull'apparire della santa e nazionale ira di Vittorio Alfieri, alla setta che insistentemente si arrogò il monopolio della libertà e del progresso. Essa, in queste provincie, ruppe le nostre gloriose tradizioni e, serva umilissima com'era delle idee francesi, che pigliava di seconda mano, sostituì alla nostra robusta e nazionale scienza, che domandava solo di essere rammodernata, una scienza superficiale e leggera, impor­tata da fuori; fu dessa che rapi ogni originalità di fisio­nomia alla nostra giurisprudenza ed al nostro civile stato per renderci miserabili e servili copisti di Francia ».



Fonte:Fb
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Di Vincenzo D' Amico

Ecco a voi il primo paragrafo dell'introduzione di Benedetto Croce al suo libro, Storia del Regno di Napoli, Laterza, 1944, pp. 1-5.

Qualche tempo fa, nel mettere ordine tra i miei libri e nel riunire in un solo scaffale.tutti quelli attinenti alla sto­ria napoletana, mi tornò tra mano il raro volume di Enrico Cenni, Studi sul diritto pubblico 1, e lo lessi da cima a fondo come non avevo fatto per l'innanzi. E, invitato dall'autore, e sotto la sua guida, venni penetrando in quelle che egli mi additava come le latebre della storia dell'Italia meri­dionale; e colà mi apparvero, evocate da lui, immagini del passato che prima non mi era accaduto mai di vedere, o di vedere cosi grandiose e mirabili.

Il vecchio regno di Napoli mi si trasfigurò innanzi agli occhi della mente non solo in uno degli stati più impor­tanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto, nell'avanzamento sociale, il primato, o almeno uno dei primi posti. Sorse esso infatti, nuovo e singolare esempio nella semibarbarica Europa, come monarchia civile, fon­data da Ruggiero, conservata e rassodata dai successori, in­nalzata al sommo fastigio della gloria da Federico svevo: uno stato moderno, in cui il baronaggio era contenuto in istretti confini, ai popoli si garantiva libertà e giustizia, la mente del sovrano, rischiarata da nobili concetti morali e politici, regolava il tutto, avvalendosi degli uomini capaci dovunque li trovasse e promovendo benessere e cultura; uno stato, che affermava tutt'intorno la sua potenza, sul­l'Italia media e superiore, sulle rive dell'Africa, nella peni­sola balcanica, in Palestina, e ora volgeva le mire all'Oriente, rivale degli imperatori bizantini e cupido di prendere il loro posto, ora all'Europa, centro di un effettivo Impero ro­mano germanico. Ma più ancora che il suo organamento e la sua potenza politica, che decadde o andò perduta nei se­coli seguenti, esso fu singolare e venerando per il processo del suo svolgimento civile ; perché, mentre in altri paesi la lotta contro il sistema feudale, attraverso la quale si elaborò la moderna civiltà, ebbe tardo principio o eruppe in moti violenti e rivoluzionari, nell'Italia meridionale venne com­battuta assai presto, e con non altre armi che la ragione e il diritto. Qui, anzitutto, visse sempre l'idea del Comune, vi ebbero sempre vigore i iura civitatis, i diritti che com­petono a tutti i cittadini in quanto tali; e l'ordinamento feudale, allorché fu importato nelle nostre terre, vi trovò già costituito il demanio comunale, e il barone dovè rispet­tarlo e contenersi verso di esso come qualsiasi altro privato cittadino. Se presso la più parte dei feudisti stranieri, e anche italiani, rimase assai perplesso e in ombra il con­cetto che i beni dati in feudo siano beni nazionali e non già proprietà del principe, da taluni nostri scrittori, invece, quel concetto fu messo in chiara luce : che è bella riprova della finezza e profondità del nostro senso giuridico. E se in Trancia il demanio sparve del tutto e ricomparve poi solo a pezzi e bocconi come concessione del signore, e i giuristi di colà ponevano a principio nulle terre sans seigneur, da noi questo detto sarebbe sembrato una stortura, e da noi non c'era alcun bisogno di fare e di aspettare una dichiarazione dei diritti dell'uomo, perché questi diritti vivevano nella comune coscienza, e i giuristi gagliardamente dife­sero i iura civitatis, e li protessero i sovrani; tra i quali Ferrante d'Aragona largì ai-popoli dell'Italia meridionale, con la sua prammatica del 14 dicembre 1483, la vera magna charta dei diritti del cittadino, convalidata dipoi da due prammatiche di Carlo V. Onde, nell'Italia meridionale, non ascrittizì e servi della gleba; l'investitura del feudo si dava solo quoad iurisdictionem e non quoad dominium • il feudo stesso non potè trapiantarsi, in queste terre, con la sua primitiva selvatichezza, ma, mitigandosi nelle generali condizioni del paese, manifestò presto la tendenza a trasfor­marsi in allodio col progressivo allargamento dei gradi della successione, e con quei feudi detti « misti », nei quali l'erede feudale doveva avere la qualità di erede civile, e che ai feudisti della restante Europa parvero (com'erano, nella logica del giure feudale) « mostri propri del Regno di Napoli ». La scuola giuridica napoletana, che considerò le terre date in feudo come proprietà della nazione e in vario modo ma incessantemente corrose l'ordinamento feudale, si levò « maestra in Europa di equità civile », e fu presso di noi la vera classe politica, della quale ci spetta trar vanto. Né a questi soli punti si restringono i meriti che l'Italia meridionale si acquistò nella storia civile; e, non meno che contro il feudo, insigne fu la lotta che essa, cattolica e della sua fede osservantissima, sostenne lungo i secoli per l'autonomia e l'autorità dello Stato contro le smodate pre­tese della Curia romana, sia politiche come quelle dì si­gnoria feudale sul Regno, sia giurisdizionali ed economiche, esenzioni tributarie, tribunali ecclesiastici, asili, conferi­menti di benefici, e simili. E, sempre senza cader mai in alcuna eresia, questo popolo lottò con pari forza e trionfo per la libertà di coscienza contro il Sant'Ufficio dell' Inqui­sizione, del quale non permise mai l'insediamento nella sua terra, sollevandosi unanime contro ogni siffatto tenta­tivo e stabilendo, a segno di vittoria, un'apposita giunta che invigilasse e si opponesse per questa parte alle insidie di Spagna e di Eoma. E tanto era forte il senso giuridico in queste popolazioni che, quando, a mezzo del secolo deci­mosettimo, con Masaniello esse si rivoltarono contro gli spa-gnuoli, si comportarono in tal guisa da dare in Europa « il primo esempio d'una rivoluzione legale ». E qui il Vico « pubblicò una nuova scienza civile, che dovrà, presto o tardi che sia, governare l'umano consorzio » ; e qui fiori­rono « innumerevoli giannonisti, difensori costanti e intre­pidi dei diritti dell'Homo ». Se nella storia d'Italia Firenze rappresentò l'arte e la poesia, Napoli rappresentò invece il pensiero e la filosofia; e a Napoli e non a Firenze (il di­scorso si riferisce al tempo in cui non si desiderava, o non si sperava prossima, Roma capitale), a Napoli sarebbe spet­tato di essere capitale della nuova Italia, perché (il Vico lo ha dimosti'ato) « la ragione è uno stadio superiore alla fantasia » 2.

Or come mai tutta questa sublime storia napoletana, questa parte quasi privilegiata che essa ha avuta nell'ope­rosità politica e civile, questa cosi grande e perseverante virtù e sapienza di cittadini devoti alla patria non è gene­ralmente conosciuta e, anzi, è generalmente disconosciuta e negata? « Se questa sacra terra (conclude il Cenni) è ora messa in non cale, se ne vuole avere unica obbligazione alla setta liberale gallizzante, stigmatizzata sin sull'apparire della santa e nazionale ira di Vittorio Alfieri, alla setta che insistentemente si arrogò il monopolio della libertà e del progresso. Essa, in queste provincie, ruppe le nostre gloriose tradizioni e, serva umilissima com'era delle idee francesi, che pigliava di seconda mano, sostituì alla nostra robusta e nazionale scienza, che domandava solo di essere rammodernata, una scienza superficiale e leggera, impor­tata da fuori; fu dessa che rapi ogni originalità di fisio­nomia alla nostra giurisprudenza ed al nostro civile stato per renderci miserabili e servili copisti di Francia ».



Fonte:Fb
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