martedì 23 novembre 2010

Irpinia, trent'anni dopo

di Cesare de Seta

La devastazione del terremoto è stata terreno di conquista per politici corrotti e affaristi senza scrupoli. Il racconto in prima persona del giornalista e storico dell'arte

Fonte: L'Espresso

La domenica del 23 novembre ero appena tornato da Capri, con moglie e bambine eravamo saliti a Villa Fersen, a quel tempo in rovina. Sul giradischi misi un trio di Bach, e me lo godevo: a un tratto sentii il divano su cui sedevo che si sollevava e il disco gracchiò, in un lancinante lamento da dies irae, poi tacque. Erano le 19,34. Daria dal bagno gridò: "mamma il vaso si muove, non riesco a sedermi!"; Ilaria, cinque anni, scoppiò in lacrime perché non riusciva ad afferrare una bambola che volteggiava per aria. Il palazzetto della mia casa a Posillipo resse bene alla scossa.

Un gran vociare saliva dalla strada, con auto bloccate e clacson impazziti: ce ne andammo a dormire. L'indomani attraversai strade deserte fino a via Filangieri, negozi chiusi, così la banca dov'ero diretto. Un gruppo di persone si intratteneva: "l'ho sentito forte", "ma dov'è stato? ci sono dei crolli", "sì, ci sono dei feriti": le voci si accavallavano concitate. Capii solo allora che era successo qualcosa di grave. Giunto in studio nessuna telefonata, in tarda mattina chiamò Gaspare Barbiellini Amidei, allora vicedirettore del "Corriere della Sera" e mi chiese di scrivere un commento.

Entrai così assai lentamente nel cupo clima del terremoto e da quel giorno scrissi decine di articoli per "Il Corriere " e poi per "Il Mattino", allora un'unica proprietà . Feci la mia piccola parte di militanza civile con tempestività certamente e spero con scrupolo. Mi opposi contro la massiccia distruzione di quelli che, in modo sprezzante, venivano definiti "presepi": le ruspe avanzavano implacabili in paesi distruggendo casine abbarbicate l'una all'altra.

Da architetto e studioso della città sostenni Maurizio Valenzi, sindaco galantuomo, per fermare i falchi della "tabula rasa", i Quartieri Spagnoli erano gravemente compromessi. Mi chiedo con un po' di malizia quanti sono i giornalisti, scrittori e tecnici che hanno ripubblicato, senza cosmesi, quanto scritto in quei mesi drammatici. I miei articoli e saggi li raccolsi in 'Dopo il terremoto la ricostruzione' edito da Laterza nel 1983. A metà dicembre mi telefonò allarmato Giulio Einaudi: aveva seguito televisione, giornali e letto i miei articoli sul Corriere. Gli dissi che il terremoto di Napoli era un terremoto "freddo", meno grave di quello che aveva devastato Irpinia e Basilicata con migliaia di feriti e insanguinato di vittime il cui numero cresceva paurosamente.


Qualche giorno dopo Einaudi venne giù con la sua auto in compagnia di Nuto Revelli: l'editore, usualmente considerato un uomo gelido, aveva portato doni per le mie bambine. S'era sotto Natale. Lo condussi per la città, i giri che facemmo a piedi per giorni interi lo rese sempre più cupo: volle salire a Capodimonte e Raffaello Causa, che aveva chiuso il museo e sbarrato tutti i balconi del palazzo, ci condusse per le sale deserte, con molte tele a terra, mostrandoci le ferite più gravi.

Einaudi mi chiese di scrivere un rapporto veloce, da stampare subito, sulle condizioni della città, sui problemi da affrontare immediatamente per la tutela del centro storico che conosceva meglio di quanto potessi immaginare. Napoli era tutta transenne, barbacani ovunque, chiese sprangate, erano sorte gabbie di tubi innocenti in ogni dove: soprattutto nei Quartieri Spagnoli.

Nel "cratere" ci attendeva Manlio Rossi Doria e ci raggiunse Diego Novelli sindaco di Torino: trascorremmo con una guida eccezionale, giorni angosciosi, rimasti infissi nel mio cuore. Manlio amava questa gente: in ogni paese c'era qualcuno che conosceva e, salutandolo, qualcuno provava a baciargli la mano; ci diceva della natura franosa dei terreni, dei paesi che andavano evacuati e di quelli che potevano e dovevano essere recuperati, pensava a quello che si doveva fare per il destino di questa gente martoriata. Einaudi aveva un autista dai nervi d'acciaio: "perché vai così piano", "perché corri tanto", "hai visto la neve", "stai attento", "fermati", "rallenta", era un continuo: ci guardavamo interdetti, fidando nella pazienza dell'autista che forse si chiamava Giobbe. C'era neve, tanto fango e freddo: mangiammo alla tavola dei campi di accoglienza, una sera fummo ospiti di un farmacista amico di Manlio. Lui si muoveva a fatica tra macerie, sterrati, calanchi, bare d'abete disposte in fila, cadaveri all'addiaccio e tanti feriti nelle tende: almanaccava le colture più idonee a questo o quel terreno, diceva che bisognava puntare su una agricoltura specializzata e meccanizzata. Si scavava tra le macerie.
Andando verso Potenza l'editore chiese a Rossi Doria di scrivere qualcosa da stampare subito: lui, al contrario di me, fu bravissimo, e in due mesi fu edito dallo Struzzo il Rapporto: un quaderno bianco che era il distillato del sapere di un grande meridionalista e economista agrario che conosceva l' osso del Mezzogiorno come nessun altro. Tutti plaudirono, a cominciar da De Mita, ma la politica della ricostruzione di fatto se ne infischiò, hélas (ahimé, ndr), e andò in tutt'altre direzioni che si mostrarono fallimentari sciali di risorse.

Ingrassarono pescecani di ogni risma e gli sciacalli della malavita. In febbraio a Napoli ci fu una tremenda scossa che mise in ginocchio la città: ero in studio, quinto piano, che condividevo con Mimmo Jodice: lessi nei suoi occhi azzurri il terrore, qualcosa di simile immagino lesse nei miei. I tempi per sedimentare un'esperienza così lancinante furono molto lunghi, scrivo con lentezza e ho bisogno di molto tempo per giungere a qualcosa. Ma dovevo liberarmi di questa angoscia, così maturai l'idea di trasformare l'evento sismico in una metafora della nostra vita che è una sequenza di scosse piccole e grandi.

Ho un sentimento religioso della natura, un rispetto goethiano per le sue leggi che vedo sistematicamente violate. In Irpinia ieri e in Abruzzo oggi. Soltanto nel 2002 pubblicai 'Terremoti', un romanzo che ha al centro il sisma in Irpinia. Nulla c'è di autobiografico in senso proprio, ma tutto è autobiografico perché narro solo quello che ho visto e vissuto.

Nei mesi drammatici dell'inverno del 1980 Andrea, geologo alle prime armi, tocca con mano il delittuoso ritardo dei soccorsi, si scontra con l'improvvisazione, il disordine, le prevaricazione di politici e tecnici. Ma vede anche tanti giovani venuti in soccorso dal nord e incontra Stefania, una bella, matura e affermata geologa dell'Università di Trieste, che lo guida e lo rassicura nel lavoro. Il rapporto tra loro si trasforma in un'irrisolta storia d'amore esaltante e dolorosa.

Nel compiere le missioni ispettive sul campo Andrea giunge nel paese d'origine della famiglia e trova ridotta a macerie l'antica casa dei nonni: l'incontro con quelle rovine è l'occasione di un bilancio. Sul filo della memoria il giovane ripercorre le vicende del paese dal dopoguerra in poi. Le rivolte dei contadini, l'occupazione delle terre, l'emigrazione al nord dei più giovani e capaci, il paese ridotto a vecchi, donne e bambini. Riconosce per caso il compagno di giochi, divenuto un "capo bastone" della malavita.

Il terremoto e gli sciami sismici non hanno solo sconvolto le montagne dell'Irpinia e i "presepi", ma la vita collettiva e l'esistenza di molti poveri cristi. Una memoria dissipata, una storia di gente calpestata dalla storia e derisa dalla natura.

Andrea tornerà in Irpinia dopo dieci anni e vede con raccapriccio quel che sono stati capaci di fare amministratori e costruttori senza scrupoli, in combutta con geometri, ingegneri, architetti, dando libero sfogo ad ambizioni sbagliate. Se oggi si torna in quei paesi distrutti e ricostruiti si corre per autostrade deserte che portano al nulla o per faraonici svincoli che conducono ad Aree industriali senza industrie, ci aggredisce la crudeltà e l'indicibile violenza che i 2.914 morti del terremoto non meritavano.

Fonte:L'Espresso del 22/11/2010
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di Cesare de Seta

La devastazione del terremoto è stata terreno di conquista per politici corrotti e affaristi senza scrupoli. Il racconto in prima persona del giornalista e storico dell'arte

Fonte: L'Espresso

La domenica del 23 novembre ero appena tornato da Capri, con moglie e bambine eravamo saliti a Villa Fersen, a quel tempo in rovina. Sul giradischi misi un trio di Bach, e me lo godevo: a un tratto sentii il divano su cui sedevo che si sollevava e il disco gracchiò, in un lancinante lamento da dies irae, poi tacque. Erano le 19,34. Daria dal bagno gridò: "mamma il vaso si muove, non riesco a sedermi!"; Ilaria, cinque anni, scoppiò in lacrime perché non riusciva ad afferrare una bambola che volteggiava per aria. Il palazzetto della mia casa a Posillipo resse bene alla scossa.

Un gran vociare saliva dalla strada, con auto bloccate e clacson impazziti: ce ne andammo a dormire. L'indomani attraversai strade deserte fino a via Filangieri, negozi chiusi, così la banca dov'ero diretto. Un gruppo di persone si intratteneva: "l'ho sentito forte", "ma dov'è stato? ci sono dei crolli", "sì, ci sono dei feriti": le voci si accavallavano concitate. Capii solo allora che era successo qualcosa di grave. Giunto in studio nessuna telefonata, in tarda mattina chiamò Gaspare Barbiellini Amidei, allora vicedirettore del "Corriere della Sera" e mi chiese di scrivere un commento.

Entrai così assai lentamente nel cupo clima del terremoto e da quel giorno scrissi decine di articoli per "Il Corriere " e poi per "Il Mattino", allora un'unica proprietà . Feci la mia piccola parte di militanza civile con tempestività certamente e spero con scrupolo. Mi opposi contro la massiccia distruzione di quelli che, in modo sprezzante, venivano definiti "presepi": le ruspe avanzavano implacabili in paesi distruggendo casine abbarbicate l'una all'altra.

Da architetto e studioso della città sostenni Maurizio Valenzi, sindaco galantuomo, per fermare i falchi della "tabula rasa", i Quartieri Spagnoli erano gravemente compromessi. Mi chiedo con un po' di malizia quanti sono i giornalisti, scrittori e tecnici che hanno ripubblicato, senza cosmesi, quanto scritto in quei mesi drammatici. I miei articoli e saggi li raccolsi in 'Dopo il terremoto la ricostruzione' edito da Laterza nel 1983. A metà dicembre mi telefonò allarmato Giulio Einaudi: aveva seguito televisione, giornali e letto i miei articoli sul Corriere. Gli dissi che il terremoto di Napoli era un terremoto "freddo", meno grave di quello che aveva devastato Irpinia e Basilicata con migliaia di feriti e insanguinato di vittime il cui numero cresceva paurosamente.


Qualche giorno dopo Einaudi venne giù con la sua auto in compagnia di Nuto Revelli: l'editore, usualmente considerato un uomo gelido, aveva portato doni per le mie bambine. S'era sotto Natale. Lo condussi per la città, i giri che facemmo a piedi per giorni interi lo rese sempre più cupo: volle salire a Capodimonte e Raffaello Causa, che aveva chiuso il museo e sbarrato tutti i balconi del palazzo, ci condusse per le sale deserte, con molte tele a terra, mostrandoci le ferite più gravi.

Einaudi mi chiese di scrivere un rapporto veloce, da stampare subito, sulle condizioni della città, sui problemi da affrontare immediatamente per la tutela del centro storico che conosceva meglio di quanto potessi immaginare. Napoli era tutta transenne, barbacani ovunque, chiese sprangate, erano sorte gabbie di tubi innocenti in ogni dove: soprattutto nei Quartieri Spagnoli.

Nel "cratere" ci attendeva Manlio Rossi Doria e ci raggiunse Diego Novelli sindaco di Torino: trascorremmo con una guida eccezionale, giorni angosciosi, rimasti infissi nel mio cuore. Manlio amava questa gente: in ogni paese c'era qualcuno che conosceva e, salutandolo, qualcuno provava a baciargli la mano; ci diceva della natura franosa dei terreni, dei paesi che andavano evacuati e di quelli che potevano e dovevano essere recuperati, pensava a quello che si doveva fare per il destino di questa gente martoriata. Einaudi aveva un autista dai nervi d'acciaio: "perché vai così piano", "perché corri tanto", "hai visto la neve", "stai attento", "fermati", "rallenta", era un continuo: ci guardavamo interdetti, fidando nella pazienza dell'autista che forse si chiamava Giobbe. C'era neve, tanto fango e freddo: mangiammo alla tavola dei campi di accoglienza, una sera fummo ospiti di un farmacista amico di Manlio. Lui si muoveva a fatica tra macerie, sterrati, calanchi, bare d'abete disposte in fila, cadaveri all'addiaccio e tanti feriti nelle tende: almanaccava le colture più idonee a questo o quel terreno, diceva che bisognava puntare su una agricoltura specializzata e meccanizzata. Si scavava tra le macerie.
Andando verso Potenza l'editore chiese a Rossi Doria di scrivere qualcosa da stampare subito: lui, al contrario di me, fu bravissimo, e in due mesi fu edito dallo Struzzo il Rapporto: un quaderno bianco che era il distillato del sapere di un grande meridionalista e economista agrario che conosceva l' osso del Mezzogiorno come nessun altro. Tutti plaudirono, a cominciar da De Mita, ma la politica della ricostruzione di fatto se ne infischiò, hélas (ahimé, ndr), e andò in tutt'altre direzioni che si mostrarono fallimentari sciali di risorse.

Ingrassarono pescecani di ogni risma e gli sciacalli della malavita. In febbraio a Napoli ci fu una tremenda scossa che mise in ginocchio la città: ero in studio, quinto piano, che condividevo con Mimmo Jodice: lessi nei suoi occhi azzurri il terrore, qualcosa di simile immagino lesse nei miei. I tempi per sedimentare un'esperienza così lancinante furono molto lunghi, scrivo con lentezza e ho bisogno di molto tempo per giungere a qualcosa. Ma dovevo liberarmi di questa angoscia, così maturai l'idea di trasformare l'evento sismico in una metafora della nostra vita che è una sequenza di scosse piccole e grandi.

Ho un sentimento religioso della natura, un rispetto goethiano per le sue leggi che vedo sistematicamente violate. In Irpinia ieri e in Abruzzo oggi. Soltanto nel 2002 pubblicai 'Terremoti', un romanzo che ha al centro il sisma in Irpinia. Nulla c'è di autobiografico in senso proprio, ma tutto è autobiografico perché narro solo quello che ho visto e vissuto.

Nei mesi drammatici dell'inverno del 1980 Andrea, geologo alle prime armi, tocca con mano il delittuoso ritardo dei soccorsi, si scontra con l'improvvisazione, il disordine, le prevaricazione di politici e tecnici. Ma vede anche tanti giovani venuti in soccorso dal nord e incontra Stefania, una bella, matura e affermata geologa dell'Università di Trieste, che lo guida e lo rassicura nel lavoro. Il rapporto tra loro si trasforma in un'irrisolta storia d'amore esaltante e dolorosa.

Nel compiere le missioni ispettive sul campo Andrea giunge nel paese d'origine della famiglia e trova ridotta a macerie l'antica casa dei nonni: l'incontro con quelle rovine è l'occasione di un bilancio. Sul filo della memoria il giovane ripercorre le vicende del paese dal dopoguerra in poi. Le rivolte dei contadini, l'occupazione delle terre, l'emigrazione al nord dei più giovani e capaci, il paese ridotto a vecchi, donne e bambini. Riconosce per caso il compagno di giochi, divenuto un "capo bastone" della malavita.

Il terremoto e gli sciami sismici non hanno solo sconvolto le montagne dell'Irpinia e i "presepi", ma la vita collettiva e l'esistenza di molti poveri cristi. Una memoria dissipata, una storia di gente calpestata dalla storia e derisa dalla natura.

Andrea tornerà in Irpinia dopo dieci anni e vede con raccapriccio quel che sono stati capaci di fare amministratori e costruttori senza scrupoli, in combutta con geometri, ingegneri, architetti, dando libero sfogo ad ambizioni sbagliate. Se oggi si torna in quei paesi distrutti e ricostruiti si corre per autostrade deserte che portano al nulla o per faraonici svincoli che conducono ad Aree industriali senza industrie, ci aggredisce la crudeltà e l'indicibile violenza che i 2.914 morti del terremoto non meritavano.

Fonte:L'Espresso del 22/11/2010
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