Il 7 novembre 1860 cinque inermi cittadini, tra cui 3 ragazzi ventunenni ed un ex soldato borbonico padre di famiglia, vengono trucidati dai garibaldini solo perché rei di essere simpatizzanti borbonici
Roseto V., 26.10.2010 - Ci hanno raccontato e continueranno a raccontarci a scuola solo balle! In poche righe, in libri confezionati ad hoc, si racconta e si “decanta” che “l’unificazione d’Italia” avvenne grazie alla “spedizione dei mille”, con l’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele a Teano e con il “plebiscito”. Tutto qui? Ed il resto, la verità storica, quella che da anni è venuta fuori? Tutto tace… I libri, quelli confezionati ad hoc, non ne devono parlare. Né c’è altro da aggiungere!
Tra ricerche ed approfondimenti su quella che comunemente viene definita “unità d’Italia” – per la quale si ha anche il “coraggio” di festeggiare facendo finta che al Sud nulla sia successo – non passa giorno che dalle carte degli archivi spuntano documenti relativi ad avvenimenti e fatti – che la storiografia ufficiale e chi ha interesse a non far conoscere, volutamente ignora – a dir poco raccapriccianti! Una terra ed un popolo furono messi a ferro e fuoco da invasori stranieri senza scrupoli e sottoposti alle più disparate angherie che«gli untori servitori del mendacio: storiografi e giornalisti, ciucci e venduti» preferiscono non raccontare, salvo alcuni casi: stragi di massa, esecuzioni sommarie con esposizione di teste di cadaveri in gabbie, interi paesi incendiati, ragazzi e ragazze seviziati ed uccisi, ruberie generali, fucilazione di minorenni appellati col nome di “briganti”, farsa del plebiscito e quant’altro, hanno fatto dei “liberatori” del Popolo delle Due Sicilie quello che, circa un secolo dopo, hanno compiuto i nazifascisti in Italia: infamia e vergogna!
A Roseto Valfortore, in provincia di Foggia, quindi in ”Italia”, si è compiuta una di queste infamie vergognose, una storia poco conosciuta apparsa anche in un “Romanzo Storico” dell’illustre Prof.Don Michele Marcantonio, “Abbasso la guerra, ossia tre passi a ponente”, 1983 (Ed. Italia Letteraria, MI). Della storia che si sta per raccontare, riferita a cinque cittadini di Roseto Valfortore, mi ero già procurato gli atti di morte per descriverne la loro dolorosa vicenda quando ho ritrovato il libro di Don Michele che lui stesso mi regalò anni addietro agevolandomi il compito. La storia – realmente successa, e gli atti di morte ne sono la testimonianza (portano tutti la stessa data, stesso giorno e stessa ora) – racconta di cinque cittadini rosetani di cui l’autore di un «manoscritto» ne fornisce alcune sommarie generalità: «COTTURO Giuseppeantonio, terza elementare, una sorella di 29 anni; FARACE Liberato, analfabeta, due sorelle, una di 12 e una di 23 anni; SBROCCHI Vito, 1º anno di agraria, moglie di anni 36 e figlia di anni 15; MARRONE Leonardo, terza elementare, sorella di anni 21; ZITA Nunziantonio, perito agrario con diploma conseguito presso la cattedra di Roseto, poi soppressa dai piemontesi, e il fratello di Giuseppeantonio, quinta elementare, una sorella di anni 20, sposata con Donato Sbrocchi».
I cinque sacrificati cittadini di Roseto Valfortore vengono accusati dal “galantuomo” don Vito Capobianco, fratello del sindaco, come“reazionari” e di essere “dei franceschielli”, cioè fedeli al Re Francesco II di Borbone. «I vermi e le lumache appaiono dopo la bufera: i liberali e i mazziniani ricomparvero solo ora – si legge nel libro di Marcantonio –garantiti da scorta armata. Le carte fanno i nomi: don Vito, il figlio don Noè, Luigi Basso e Donato Cascioli. Il primo (don Vito Capobianco) aveva preparato la nota delle famiglie da punire esemplarmente». Sommariamente giudicati da un “tribunale” composto da garibaldini, senza alcuna colpa, i cinque martiri rosetani vengono condannati a morte mediante fucilazione. L’esecuzione avvenne il 7 novembre 1860 alle ore 23:00. Lascio parlare il manoscritto di Don Michele Marcantonio.
Siamo orfani di patria?
«(…) I cinque vennero allineati lungo il muro che guardava alla torretta, di fronte al plotone. L’aria rigida, la pioggia, che ora con furia, il vento, fatto ora cattivo, che tempestava il viso dei condannati con bordate d’acqua gelida e dura come grossi grani di sabbia, e, forse, il contenuto di quel biglietto consigliarono il generale a far presto, a sbrigarsi». Il generale di cui si parla è, udite, udite, Liborio Romano, (omonimo del “vigliacco e traditore che vendette il Sud al Piemonte”), garibaldino e comandante della Legione Peucetia.
«Nell’estremo tentativo di muovere a pietà don Liborio, tre dei condannati, cioè Giuseppe Cotturo, Vito Sbrocchi e Leonardo Marrone, s’inginocchiarono nel fango:
– Pietà! Siamo innocenti!
Parole e lacrime alla pioggia e al vento che mugghiava nella siepe e sui tetti.
– Pietà di noi! –, fece Nunzio.
Il quinto, più di là che di qua (è Liberato Farace, 22 anni appena, ferito a morte presso la propria abitazione dalle camicie rosse) era ricaduto in un’assenza totale e si teneva ritto al muro come un tronco senza vita. Il sergente rizzava in alto la sciabola come un ricurvo dito d’acciaio guardando fisso il generale. Il sacerdote, adempiuto il suo alto e pietoso ufficio, s’era nascosto nel vano di quel cunicolo-fogna. Don Liborio parlottava con don Vito, quasi estraneo, senza neppur guardare.
Il sergente non batteva ciglio.
Ecco…
Il generale fece con l’indice un cenno distratto, quasi meccanico.
La sciabola piegò verso terra.
Fuoco!
I primi tre, a partire dall’angolo, caddero fulminati.
Al quarto un secondo colpo.
Il quinto, Liberato Farace, indenne.
Il fuciliere di grazia esplose su di lui il terzo e il quarto colpo. Solo quest’ultimo spinse fuori da quel giovane corpo il lieve alito di vita residuo.
Nel tratto dalle Coste al suo palazzo don Vito assaporò tutta la voluttuosa ebbrezza di quel trionfo. Entrò insieme col generale nel suo caseggiato e ne uscì dopo un quarto d’ora. Si strinsero la mano sul portone e don Liborio ripartì subito. Don Vito non fece in tempo a chiudere, che il parroco era comparso come un fantasma sulla soglia, con sul volto lo sdegno più vivo e amaro. Poiché il Capobianco voleva sfuggirgli, lo afferrò per un braccio e lo schiaffeggiò con queste parole:
– Nel cielo c’è un Dio che vendica le lacrime dei deboli. Maledetta la generazione dell’uomo che sparge il sangue innocente! Parola di Dio!
Ritornò sulle Coste a fianco dei suoi caduti. Li coprì col suo mantello. Restò a vegliarli fino al mattino con il rosario in mano, ritto sotto il gelo della coltre bianca novembrina.
Al collo dell’ultimo martire, Liberato Farace, un abitino del Carmine, forato da una pallottola, tamponava la ferita».
Dulcis in fundo, «don Liborio pretese dal popolo rosetano una taglia di ducati 5.035, oltre 240 per il mantenimento della forza».
Cinque croci di legno
Nel 1861 l’amministrazione comunale di Roseto Valfortore fece installare cinque croci di legno poggiate sul muro, lungo il quale erano stati allineati e fucilati i cinque martiri. Quando questo suolo venne concesso ai privati per la costruzione delle case, lo scalpellinoLorenzo Bozzelli, nel 1910, di propria iniziativa, murerà su quella costruzione con una lapide, data e croce il ricordo di quel massacro.
Una pagina drammatica e nello stesso tempo commovente quella appena descritta, che riporta alla luce come fu fatta “l’unità d’italia” al Sud: con il sangue degli innocenti, con il silenzio dei “vincitori” …e con gli spot! Ah, quante “ombre” su questa “unità d’italia”, altro che…! Mentre in queste ore, ahimè!, nel vesuviano, “Italia”, in una sorta di “guerra civile”, uomini, ragazzi, ragazze e “donne vulcaniche” si apprestano a decretare quello che probabilmente sarà il funerale del 150º tra incendi del tricolore e al grido di «siamo orfani di patria!». A’ sùpala nin tene uocchie e vere, nun tene recchie e sente!
Allego i certificati di morte (leggi); vengono tutti contrassegnati dalla nobile professione di contadino i cinque cittadini rosetani vittime, sacrificate dalla mano feroce dei conquistatori garibaldini. La speranza è che il sindaco, la giunta ed il consiglio comunale di Roseto Valfortore vogliano erigere una lapide a ricordo di quei martiri che dopo 150 anni gridano ancora giustizia!
All’elenco dei cinque sacrificati bisogna aggiungere anche il nome diGiuseppe Zita, fratello di Nunzio Antonio, di anni trenta, ucciso durante un rastrellamento dei garibaldini il 6 novembre del 1860 (tra gli atti di morte allegati).
In chiusura, voglio rendere omaggio al grande Angelo Manna – che solo citarlo mi rende orgoglioso di essere meridionale – con il suo memorabile messaggio rivolto ai ragazzi del Sud, pubblicato periodicamente sulla rivista “Due Sicilie”.
«Ragazzi del Sud!»
«L’unificazione italiana ci costò, in poco più di dieci anni, un milione di morti, tutti uccisi a tradimento, e ci costò, in meno di un secolo, e sempre a tradimento, ventisei milioni di emigranti!
Ed ha le meningi imbottite di puttanate, l’Italia!
Ad imbottirgliele sono stati e sono i nord-dipendenti politicanti del Sud, gli eredi dei pragmatici e immorali traditori del fatal sessanta.
E sono stati e sono gli untori servitori del Mendacio: gli storiografi e i giornalisti, ciucci e venduti.
Ma noi abbiamo un dovere da compiere. Una Mamma offesa, tradita, maltrattata, calunniata e in catene sta chiamando dal 1860 i suoi figli attorno alle sue piaghe fisiche e morali che ormai l’hanno ridotta allo stremo.
È possibile che nessuno di essi ne oda il rantolo, che giorno dopo giorno si fa sempre più forte, e accorra al suo capezzale?».
Fonte:Il Frizzo
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