martedì 19 gennaio 2010

Poi arrivò Luky Luciano e anche Napoli fu Cosa Nostra.


da "I Siciliani", marzo 1983

La mafia siciliana e la camorra napoletana, pur vivendo ed operando fatti delittuosi sotto lo stesso governo, in regioni quasi limitrofe, in situazione socio-economicoa similare, non avevano mai mantenuto rapporti di collaborazione, di solidarietà o di mutua assistenza, nemmeno nei momenti di persecuzione della giustizia, come, invece, è avvenuto tra la mafia e altre organizzazioni delittuose, anche lontane dalla Sicilia. Difatti, non s'era mai detto che un boss della mafia era andato a cercare rifugio a Napoli, né che un camorrista sia mai stato ricoverato o assistito dalla mafia a Palermo.
Ai boss della mafia ha sempre ripugnato il fatto che i camorristi traessero i maggiori profitti dalla prostituzione di persone minorenni, preferendo ora i maschi ora le femmine secondo le richieste che ad essi si fanno.
Altra fonte di profitti disapprovata dalla mafia era la «camorra sui santi»: «A completare la figura di chi vive di sopraffazione sulle bische e sui bordelli, sulla sventura e sulla depravazione - scrive Alfredo De Tille - era necessaria ancora la più ributtante delle prepotenze, quella sul sentimento religioso, e l'immagine della più poetica creazione della divinità muliebre (la madonna della Pignasecca di Corso Vittorio Emanuele di Napoli, n.d.r.) serve di turpe speculazione a gente senza onore. E l'obolo carpito alla pietà dei fedeli - conclude De Tille - serve ad alimentare i vizi e la crapula di questi ras della camorra».
Per i boss della mafia era semplicemente vergognoso che i camorristi - capintesta o capisocietà, capintriti o picciuotti - utilizzassero le loro donne come comari o merciaiuole per ricevere «u buttu» in chiesa (paga) o per consegnare la «bardascia» alla «signora» o al camorrista lenone, fatto, questo, che per il boss era e rimane uno dei fatti più abietti che un uomo possa compiere.
Tra i boss della mafia e i camorristi c'era un abisso nei comportamenti: il boss della vecchia mafia non amava l'ostentazione, parlava poco, minimizzava la sua influenza e la riservatezza caratterizzava il suo potere ed i suoi consumi. A questo proposito, l'intervista concessa da Calogero Vizzini, «don» Calò, capo della mafia della Sicilia, a Indro Montanelli è illuminante. Al camorrista, invece, mancava totalmente la riservatezza; ostentava con anelli d'oro e penne stilografiche lucenti una agiatezza ed una cultura che non aveva; aveva il coltello facile, quando, invece, per il boss della mafia l'omicidio era manifestazione di debolezza e stava ad indicare che, almeno in quel caso, era venuta meno la sua non discutibile capacità a piegare al suo volere; il camorrista si esibiva nella «tirata», nella «zumbata», nella «pietrajata» e nella «sparata», tutte manifestazioni chiassose perché praticate in pubblico, esaurite quasi sempre con un graffio, dopo di che seguiva «l'apparata» (conciliazione) in una delle più «arrinnumate cantine» di Napoli.
La mafia menava vanto di essere «uomini d'onore» che aggiustavano in tutta segretezza le situazioni ed i fatti che minacciavano di diventare ingarbugliati in una società di tipo feudale, ove lo Stato era assente o, se c'era, non aveva la forza di intervenire. Autoqualificatasi «onorata società», la mafia era riuscita ad inserirsi nel sistema di vita e di potere della classe dominante siciliana con il preciso obiettivo di sostituirla nella gestione dei feudi e delle zolfare, uniche fonti di ricchezza nella Sicilia occidentale.
La camorra, secondo i boss della mafia, era organizzazione costituita da individui viziosi e fannulloni, dediti al piccolo delitto, cioè al tipo di delitto contro il quale, a volte, la mafia era costretta ad intervenire con tutto il peso della sua organizzazione e della sua forza per ripristinare il suo ordine e imporre la sua legge. Ed era tale la presunta superiorità della mafia che, nel 1909, don Vito Cascio Ferro si è rifiutato di ricevere un «capintesta» venuto a Palermo per riferire al capo della mafia che i «cumparielli» di New York lo avevano informato che dall'America era partito un capo poliziotto per scoprire e interrompere i canali che univano «Cosa Nostra» e la mafia e la camorra.
Anche in America i napoletani non erano ben visti dai boss di origine siciliana. «Cosa Nostra», termine coniato negli Stati Uniti d'America dai siciliani che nel lontano 1929 costituirono la «Unione Siciliana», è sinonimo di «veru amicu», usato dai mafiosi per indicare persona sulla quale si può fare assegnamento in qualunque momento e per qualunque cosa. Inizialmente «Cosa Nostra» stava ad indicare siciliano affiliato alla mafia.
«Cu è chistu?», chiedeva il boss a «l'amicu» che gli presentava un "picciottu scunusciutu". Se il presentato era un «estraneo», «l'amicu» non raccoglieva la domanda, «babbiava», faceva finta di niente e cambiava discorso; se, invece, era un siciliano affiliato, proveniente dalla Sicilia o da altro Stato, la risposta era: «n'amicu!, cosa nostra è», il che significava che il presentato era un «picciottu d'onuri», «n'omu di rispetto» o «n'amicu di l'amici» come venivano chiamati gli uomini politici, gli avvocati, i medici ed anche qualche magistrato che si prestava a «favorire gli amici».
Nel 1929, Miche Miranda, oriundo da Custonaci (Trapani), commise l'errore di presentare Pietro De Feo, napoletano, a James Balestrere, nativo di Terrasini, capo della «famiglia» di Brooklin. De Feo parlava troppo e infranse spesso la ferrea legge dell'omertà. Per i suoi «errori» e le sue «leggerezze» finirono in galera alcuni membri della «famiglia», imputati dell'assassinio di Fred Boccia, detto «l'Ombra». Fra gli arrestati c'era anche Joseph Pantano di Palermo, nipote di «don» Carmelo Anea, il capo della mafia di Mondello (Palermo) che, dopo la morte di don Vito Cascio Ferro, durante il fascismo, aveva assunto il bastone della mafia in Sicilia.
Analoga leggerezza commise Gustavo Frasca di Benevento, che causò l'arresto di Tony Albert Gizzo trovato il possesso di una notevole quantità di eroina e di una pistola «Beretta» 7,65. Gizzo disse agli agenti che stava recandosi a New York dal suo amico James Balestrere, ricoverato in clinica, colpito da infarto. Il nome di Balestrere fatto prima della scoperta della droga e della pistola portò all'arresto di altri undici «amici» trovati in casa Balestrere, ove la polizia sequestrò altra droga conservata in un cassetto, ove, tra l'altro, c'erano parecchi mazzi di carte da gioco.
Altro grave infortunio capitò a Gaetano Lucchese, alias Tree-Finger-Braun, nativo di Cinisi (Palermo), proprietario di una industria di abbigliamento, arrestato mentre portava nascosti tra giubbe e grembiuli 32 Kg. di eroina. La soffiata, secondo Lucchese, era stata fatta da Vincent Squillante (Jimmy Jerome) di Sarno (Napoli), gregario di Albert Anastasia, detto «u Calabrisi».
Data la gravità dei fatti, e soprattutto per le punizioni da infliggere (Frasca, Squillante e Anastasia furono assassinati qualche anno dopo) i fatti furono portati all'esame dei «siciliani capi famiglia» degli Stati di New York e dell'Illinois (Chicago). Salvatore Maranzano, nativo di Castellammare del Golfo (Trapani), riferendosi al fatto che De Feo, Squillante, Frasca, Anastasia e lo stesso Vito Genovese, don Vitone, non erano siciliani, disse che della sua «famiglia» avrebbero dovuto far parte solamente «amici delle nostre parti». Joseph Bonanno, alias Joe Banana, anche lui di Castellammare, vice capo di Maranzano, ribadì il concetto sintetizzandolo in «Cosa Nostra».
Dopo la morte di Maranzano, assassinato nel 1933, «Cosa Nostra» divenne termine convenzionale di garanzia per indicare la nuova organizzazione composta solamente di siciliani che era riuscita a soppiantare il vecchio «Sindacato» della «Mano Nera».
I napoletani, come venivano chiamati tutti i meridionali continentali, furono lentamente estromessi e sostituiti nei vari settori e nelle varie «famiglie» da «amici di li nostri parti».
Le riserve, le prevenzioni, le animosità si acuirono e diedero luogo alla interminabile catena di omicidi di siciliani e «continentali» durata decenni, durante i quali caddero boss e killers da ambo le parti.
Oltre a Squillante, De Feo, Frasca, Anastasia, caddero Antony Carfano (Little Augie Pisano), Joe Di Marco, John Robilotto, Armando Fava, Joseph Scalise, Stephen Padani (don Steven), Stephen Rinnelli, Willye Moretti, Abe Reles, Frank Amato (Big Dick), Tore Maranzano, James Lepore e Louis Russi, questi ultimi tre assassinati lo stesso giorno, e molti altri boss e killers dell'una e dell'altra parte, fino a quando i napoletani non si rassegnarono ad accettare il prepotere dei siciliani.
A creare le condizioni per la rappacificazione e la collaborazione fra napoletani e siciliani, sia in Italia che negli USA, fu Lucky Luciano, il grande trafficante di stupefacenti che non fece parte di nessuna «famiglia», non ne creò una sua e, tuttavia, operò entro e fuori gli Stati Uniti d'America con una sua rete di spacciatori e «corrieri».
Salvatore Lucania, alias Lucky (Fortunato) Luciano, negli anni Trenta, era inviso a tutte le comunità siciliane di New York perché spacciatore di stupefacenti e tenutario di bordelli, attività mai esercitata da nessun mafioso. Al «Congresso del terrore», tenuto ad Atlantic City nel febbraio 1929, Joe Doto, Joe Masseria e Joseph Di Giovanni (Scarface), anime tutt'altro che candide, si dichiararono scandalizzate al pensiero che «l'infame» (nomignolo dato a Lucky dalle ragazze da lui sedotte e avviate al vizio dopo averle rese tossico-dipendenti) potesse diventare membro della «onorata società» dei siciliani in America.
Malgrado l'ostracismo dei siculo-americani, Lucky riuscì a creare una perfetta ed efficiente catena di bordelli ed una fitta rete di spacciatori di stupefacenti rivelatisi, anni dopo, di notevole utilità per gli americani in guerra per certe operazioni nel porto di New York e per lo sbarco in Sicilia nel 1943.
Nel 1940, due mesi dopo l'entrata in guerra dell'Italia, la stampa americana affermò apertamente che il boicottaggio di alcune navi in partenza per l'Europa con carichi di aiuti per gli inglesi era da attribuire a fascisti annidati nelle varie comunità italiane.
La Naval Intelligence Service chiese l'intervento del potere politico americano per stroncare gli attentati; i politici, alcuni dei quali «amici» dei capi del «Sindacato», chiesero l'aiuto dei boss; questi, dopo una riunione tenuta in una sala dell'albergo Palisades nel New Yersey, decisero di affidare a Lucky Luciano, l'unico che, durante il fascismo, era rimasto in collegamento con i pochi boss della mafia siciliana, l'incarico di individuare ed eliminare i sabotatori.
Luciano, malgrado in galera, disponeva di una fitta ed efficiente rete di trafficanti sparsi in Sicilia, in Italia, in Francia ed in altre parti del mondo; disponeva inoltre di una organizzata schiera di spacciatori nel mondo della malavita e del vizio in America, capace di controllare ogni movimento nel porto di New York.
«Secondo Moses Palakov, avvocato difensore di Meyer Lansky, - ha scritto Kefauver - il Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano chiedendo a Palakof di fare da intermediario. Palakof, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi rivolto a Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri durante i quali Luciano fornì certe informazioni. «Il governo era riuscito a individuare i tedeschi perfettamente - disse Palakof - ma si temevano i sabotaggi degli italiani, i quali non erano stati individuati». Egli si riferiva a possibili sabotaggi nel porto di New York. Augusto Del Grazio disse che Luciano si sarebbe servito della sua posizione in seno alla mafia per spianare la via agli agenti segreti americani e la Sicilia sarebbe stata così facile obiettivo».
Nel 1946, a guerra finita, Luciano venne rilasciato sulla parola e rimpatriato in Italia. Tutti si aspettavano che si trasferisse a Palermo, invece si stabilì a Napoli, ove elesse domicilio in via Tasso assieme a Igea Lissone, la ballerina della Scala che fu sua compagna per molti anni, ed ove aprì, in via Chiaramonte, un negozio di articoli sanitari. Più tardi smise questa attività grazie, anche, ad una decisione della Corte di Appello di Napoli che rifiutò alla polizia l'autorizzazione di tenere Luciano sotto sorveglianza, reintegrandolo nel suo pieno diritto di vivere splendidamente di rendita. Chiuso il negozio di sanitari, Luciano aprì a nome di «fidato compariello» un grande magazzino di elettrodomestici nel quale lavorarono i più noti trafficanti e spacciatori tra i quali il nipote di Max Mugnai, il trafficante che nel 1943 era stato nominato dagli americani depositario-sovrintendente per i prodotti farmaceutici del Comando militare americano di Palermo e di Nola.
A Palermo, invece, Luciano creò la «Fabbrica di confetti e dolciumi» di Piazzetta S. Francesco di Assisi, intestata a Salvatore Lucania di Lercara, suo cugino omonimo, in società con don Calogero Vizzini («don Calò», capo della mafia siciliana, che tanta parte aveva avuto durante l'occupazione della Sicilia da parte delle truppe alleate).
Nel traffico degli stupefacenti c'era sufficiente spazio per tutti e soprattutto per i camorristi napoletani che avevano accolto Luciano con grandi onori e garantivano la sua tranquillità senza chiedergli conto per i suoi trascorsi di tenutario di bordelli. Da Napoli Luciano ha diretto tutto il traffico da e per gli Stati Uniti d'America, per il Canada e per il Messico, ed ha creato le basi per la diffusione della droga in Europa.
Braccio destro di Luciano era Pascal Molinelli, detto "mosier Richard" e il «Goldfinger» del Mediterraneo, coordinatore di tutte le attività da e per gli Stati d'oltre Oceano. Molinelli, la cui famiglia era di origine napoletana, era noto alla Guardia di Finanza italiana, alla polizia francese, agli agenti del Narcotic Bureau del ministero del Tesoro degli USA e, tuttavia, era la «primula rossa» del Mediterraneo. Le diverse polizie che gli davano la caccia non avevano le impronte digitali né possedevano una sua fotografia, tranne una istantanea scattata da lontano mentre era assieme a diverse persone, fra le quali il generale Thomazo, uno dei capi del putsch dell'Algeria. Con Molinelli lavoravano trafficanti di diversi paesi: Michel De Val di Nizza, Salomone Gonzales di Tangeri, Francesco Bonis di S. Remo, Elio Forni di Morbella (Malaga), Pietro Davì, Rosario Mancino e Tommaso Buscetta (Masino) di Palermo.
Fra le persone di fiducia di Luciano c'era Vittorio Gatti di Marsiglia, incaricato di dirigere la stazione radio installata a Bastia, in Corsica, collegata con altre due ricetrasmittenti clandestine, una installata a Napoli e l'altra su un lussuoso yacht, quasi sempre all'ancora nel porto di Villefrance-sur-mer, ovvero in rotta per Nizza o per Napoli. La ricetrasmittente di Napoli coordinava e dirigeva tutto il traffico e manteneva il collegamento con Palermo, ove c'era la «raffineria-fabbrica di confetti» alla quale era cointeressato «don» Calò.
La fabbrica di confetti era sorta con tutti i crismi della legalità: la licenza era stata rilasciata dalla questura di Palermo al «Sig. Salvatore Lucania di Lercara» cugino del grande gangster. Il Lucania di Lercara non si era mai occupato in vita sua di commercio di confetti e dolciumi, né di altri generi; era rimasto legato alle attività agricole, alle quali continuò a dedicarsi anche dopo essere stato intestatario della fabbrica, e anche dopo che l'ufficio vendite della avviata ditta era riuscito ad esportare confetti in Germania, Francia, Irlanda, Canada, Messico e Stati Uniti d'America.
Erano i tempi dello scandalo di Capocotta per la morte per overdose della giovane Vilma Montesi, scandalo nel quale rimase coinvolto il figlio del Presidente del Consiglio dei Ministri, on. Piccioni, e i giornali, specialmente quelli dell'opposizione, erano alla ricerca di notizie sui retroscena, e per la morte della Montesi, e per i legami e gli intrallazzi tra la Roma della «Dolce Vita» e gli uomini politici al potere.
«L'Avanti» di Roma dell'11 aprile 1954, in un articolo in prima pagina dal titolo «Tessuti e confetti sulla via della droga», pubblicò la fotografia della facciata della fabbrica sulla quale faceva spicco una grande tabella con il nome di Salvatore Lucania, lasciando intendere che nei confetti «due o tre grammi di eroina potevano prendere il posto della mandorla».
Raramente la pubblicazione di una fotografia ha avuto risultati più fulminei. La notte stessa la fabbrica smontava i macchinari e chiudeva i battenti. Quanto agli operai specializzati, questi venivano portati in alto mare, dove venivano prelevati da una nave turca e portati clandestinamente in America. I macchinari, invece, furono portati a Napoli, dove diedero vita ad una nuova fabbrica intestata a «compariello» di tutto riposo. Napoli, che fino ad allora era stata centro di coordinamento diretto personalmente da Luciano, diventò la sede operativa dalla quale la droga partiva raffinata, confezionata e spedita dai napoletani. I palermitani, amici di don Calò, volenti o nolenti, furono costretti ad accettare la situazione di fatto e collaborare con i camorristi, protagonisti principali del traffico da e per l'America. La camorra, mercé Luciano e don Calò, usciva dal ghetto del piccolo degradante delitto per assurgere a «grande famiglia» del traffico di stupefacenti a livello internazionale.
«Don» Calò è morto di vecchiaia il 12 luglio 1954, all'età di 77 anni, ed ha lasciato un patrimonio valutato alcuni miliardi, accumulati in meno di dieci anni; Lucky Luciano è morto in circostanze misteriose all'aeroporto di Capodichino (Napoli) il 26 gennaio 1962. La loro morte non ha interrotto il traffico, anzi, per i napoletani è andato sempre più rafforzandosi perché ogni qualvolta in Sicilia sono stati scoperti i canali ed individuati i corrieri, il traffico si è trasferito a Napoli e sulle coste napoletane.
Oggi «Cosa Nostra», cioè mafia e camorra, sono diventate la maggiore holding finanziaria-criminale nel mondo, il cui movimento finanziario è stato valutato nell'ordine di 300 miliardi di dollari l'anno.
Angelo Bruno, capo di «Cosa Nostra» di Filadelfia, socio di Carlos Marcello, il cui vero nome era Angelo Annaloro, nativo di Villalba (Caltanissetta), tre anni fa, prima di essere assassinato, ha preconizzato che entro la fine del secolo nel mondo dovranno dominare dieci grandi imprese multinazionali. «Lavoriamo - ha affermato, senza precisare se in qualità di proprietari di banche e alberghi in Inghilterra ed in Svizzera ovvero come capi di "Cosa Nostra" - per essere fra queste dieci».
Napoli e Palermo, in perfetta armonia e in totale collaborazione, sono i due principali centri di coordinamento e smistamento del traffico di stupefacenti in transito dal Mediterraneo verso l'America e verso l'Europa occidentale. Il più piccolo turbamento di questo equilibrio provoca catene interminabili di omicidi: il 1982 ha chiuso a Napoli con 263 omicidi e 76 scomparsi (lupara bianca); a Palermo gli assassinati sono stati 151, gli scomparsi 103, i mancati omicidi 24, numero in continuo aumento; vertiginoso è il numero dei drogati, anche fra i lavoratori e soprattutto fra i giovani nelle scuole.

Michele Pantaleone



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da "I Siciliani", marzo 1983

La mafia siciliana e la camorra napoletana, pur vivendo ed operando fatti delittuosi sotto lo stesso governo, in regioni quasi limitrofe, in situazione socio-economicoa similare, non avevano mai mantenuto rapporti di collaborazione, di solidarietà o di mutua assistenza, nemmeno nei momenti di persecuzione della giustizia, come, invece, è avvenuto tra la mafia e altre organizzazioni delittuose, anche lontane dalla Sicilia. Difatti, non s'era mai detto che un boss della mafia era andato a cercare rifugio a Napoli, né che un camorrista sia mai stato ricoverato o assistito dalla mafia a Palermo.
Ai boss della mafia ha sempre ripugnato il fatto che i camorristi traessero i maggiori profitti dalla prostituzione di persone minorenni, preferendo ora i maschi ora le femmine secondo le richieste che ad essi si fanno.
Altra fonte di profitti disapprovata dalla mafia era la «camorra sui santi»: «A completare la figura di chi vive di sopraffazione sulle bische e sui bordelli, sulla sventura e sulla depravazione - scrive Alfredo De Tille - era necessaria ancora la più ributtante delle prepotenze, quella sul sentimento religioso, e l'immagine della più poetica creazione della divinità muliebre (la madonna della Pignasecca di Corso Vittorio Emanuele di Napoli, n.d.r.) serve di turpe speculazione a gente senza onore. E l'obolo carpito alla pietà dei fedeli - conclude De Tille - serve ad alimentare i vizi e la crapula di questi ras della camorra».
Per i boss della mafia era semplicemente vergognoso che i camorristi - capintesta o capisocietà, capintriti o picciuotti - utilizzassero le loro donne come comari o merciaiuole per ricevere «u buttu» in chiesa (paga) o per consegnare la «bardascia» alla «signora» o al camorrista lenone, fatto, questo, che per il boss era e rimane uno dei fatti più abietti che un uomo possa compiere.
Tra i boss della mafia e i camorristi c'era un abisso nei comportamenti: il boss della vecchia mafia non amava l'ostentazione, parlava poco, minimizzava la sua influenza e la riservatezza caratterizzava il suo potere ed i suoi consumi. A questo proposito, l'intervista concessa da Calogero Vizzini, «don» Calò, capo della mafia della Sicilia, a Indro Montanelli è illuminante. Al camorrista, invece, mancava totalmente la riservatezza; ostentava con anelli d'oro e penne stilografiche lucenti una agiatezza ed una cultura che non aveva; aveva il coltello facile, quando, invece, per il boss della mafia l'omicidio era manifestazione di debolezza e stava ad indicare che, almeno in quel caso, era venuta meno la sua non discutibile capacità a piegare al suo volere; il camorrista si esibiva nella «tirata», nella «zumbata», nella «pietrajata» e nella «sparata», tutte manifestazioni chiassose perché praticate in pubblico, esaurite quasi sempre con un graffio, dopo di che seguiva «l'apparata» (conciliazione) in una delle più «arrinnumate cantine» di Napoli.
La mafia menava vanto di essere «uomini d'onore» che aggiustavano in tutta segretezza le situazioni ed i fatti che minacciavano di diventare ingarbugliati in una società di tipo feudale, ove lo Stato era assente o, se c'era, non aveva la forza di intervenire. Autoqualificatasi «onorata società», la mafia era riuscita ad inserirsi nel sistema di vita e di potere della classe dominante siciliana con il preciso obiettivo di sostituirla nella gestione dei feudi e delle zolfare, uniche fonti di ricchezza nella Sicilia occidentale.
La camorra, secondo i boss della mafia, era organizzazione costituita da individui viziosi e fannulloni, dediti al piccolo delitto, cioè al tipo di delitto contro il quale, a volte, la mafia era costretta ad intervenire con tutto il peso della sua organizzazione e della sua forza per ripristinare il suo ordine e imporre la sua legge. Ed era tale la presunta superiorità della mafia che, nel 1909, don Vito Cascio Ferro si è rifiutato di ricevere un «capintesta» venuto a Palermo per riferire al capo della mafia che i «cumparielli» di New York lo avevano informato che dall'America era partito un capo poliziotto per scoprire e interrompere i canali che univano «Cosa Nostra» e la mafia e la camorra.
Anche in America i napoletani non erano ben visti dai boss di origine siciliana. «Cosa Nostra», termine coniato negli Stati Uniti d'America dai siciliani che nel lontano 1929 costituirono la «Unione Siciliana», è sinonimo di «veru amicu», usato dai mafiosi per indicare persona sulla quale si può fare assegnamento in qualunque momento e per qualunque cosa. Inizialmente «Cosa Nostra» stava ad indicare siciliano affiliato alla mafia.
«Cu è chistu?», chiedeva il boss a «l'amicu» che gli presentava un "picciottu scunusciutu". Se il presentato era un «estraneo», «l'amicu» non raccoglieva la domanda, «babbiava», faceva finta di niente e cambiava discorso; se, invece, era un siciliano affiliato, proveniente dalla Sicilia o da altro Stato, la risposta era: «n'amicu!, cosa nostra è», il che significava che il presentato era un «picciottu d'onuri», «n'omu di rispetto» o «n'amicu di l'amici» come venivano chiamati gli uomini politici, gli avvocati, i medici ed anche qualche magistrato che si prestava a «favorire gli amici».
Nel 1929, Miche Miranda, oriundo da Custonaci (Trapani), commise l'errore di presentare Pietro De Feo, napoletano, a James Balestrere, nativo di Terrasini, capo della «famiglia» di Brooklin. De Feo parlava troppo e infranse spesso la ferrea legge dell'omertà. Per i suoi «errori» e le sue «leggerezze» finirono in galera alcuni membri della «famiglia», imputati dell'assassinio di Fred Boccia, detto «l'Ombra». Fra gli arrestati c'era anche Joseph Pantano di Palermo, nipote di «don» Carmelo Anea, il capo della mafia di Mondello (Palermo) che, dopo la morte di don Vito Cascio Ferro, durante il fascismo, aveva assunto il bastone della mafia in Sicilia.
Analoga leggerezza commise Gustavo Frasca di Benevento, che causò l'arresto di Tony Albert Gizzo trovato il possesso di una notevole quantità di eroina e di una pistola «Beretta» 7,65. Gizzo disse agli agenti che stava recandosi a New York dal suo amico James Balestrere, ricoverato in clinica, colpito da infarto. Il nome di Balestrere fatto prima della scoperta della droga e della pistola portò all'arresto di altri undici «amici» trovati in casa Balestrere, ove la polizia sequestrò altra droga conservata in un cassetto, ove, tra l'altro, c'erano parecchi mazzi di carte da gioco.
Altro grave infortunio capitò a Gaetano Lucchese, alias Tree-Finger-Braun, nativo di Cinisi (Palermo), proprietario di una industria di abbigliamento, arrestato mentre portava nascosti tra giubbe e grembiuli 32 Kg. di eroina. La soffiata, secondo Lucchese, era stata fatta da Vincent Squillante (Jimmy Jerome) di Sarno (Napoli), gregario di Albert Anastasia, detto «u Calabrisi».
Data la gravità dei fatti, e soprattutto per le punizioni da infliggere (Frasca, Squillante e Anastasia furono assassinati qualche anno dopo) i fatti furono portati all'esame dei «siciliani capi famiglia» degli Stati di New York e dell'Illinois (Chicago). Salvatore Maranzano, nativo di Castellammare del Golfo (Trapani), riferendosi al fatto che De Feo, Squillante, Frasca, Anastasia e lo stesso Vito Genovese, don Vitone, non erano siciliani, disse che della sua «famiglia» avrebbero dovuto far parte solamente «amici delle nostre parti». Joseph Bonanno, alias Joe Banana, anche lui di Castellammare, vice capo di Maranzano, ribadì il concetto sintetizzandolo in «Cosa Nostra».
Dopo la morte di Maranzano, assassinato nel 1933, «Cosa Nostra» divenne termine convenzionale di garanzia per indicare la nuova organizzazione composta solamente di siciliani che era riuscita a soppiantare il vecchio «Sindacato» della «Mano Nera».
I napoletani, come venivano chiamati tutti i meridionali continentali, furono lentamente estromessi e sostituiti nei vari settori e nelle varie «famiglie» da «amici di li nostri parti».
Le riserve, le prevenzioni, le animosità si acuirono e diedero luogo alla interminabile catena di omicidi di siciliani e «continentali» durata decenni, durante i quali caddero boss e killers da ambo le parti.
Oltre a Squillante, De Feo, Frasca, Anastasia, caddero Antony Carfano (Little Augie Pisano), Joe Di Marco, John Robilotto, Armando Fava, Joseph Scalise, Stephen Padani (don Steven), Stephen Rinnelli, Willye Moretti, Abe Reles, Frank Amato (Big Dick), Tore Maranzano, James Lepore e Louis Russi, questi ultimi tre assassinati lo stesso giorno, e molti altri boss e killers dell'una e dell'altra parte, fino a quando i napoletani non si rassegnarono ad accettare il prepotere dei siciliani.
A creare le condizioni per la rappacificazione e la collaborazione fra napoletani e siciliani, sia in Italia che negli USA, fu Lucky Luciano, il grande trafficante di stupefacenti che non fece parte di nessuna «famiglia», non ne creò una sua e, tuttavia, operò entro e fuori gli Stati Uniti d'America con una sua rete di spacciatori e «corrieri».
Salvatore Lucania, alias Lucky (Fortunato) Luciano, negli anni Trenta, era inviso a tutte le comunità siciliane di New York perché spacciatore di stupefacenti e tenutario di bordelli, attività mai esercitata da nessun mafioso. Al «Congresso del terrore», tenuto ad Atlantic City nel febbraio 1929, Joe Doto, Joe Masseria e Joseph Di Giovanni (Scarface), anime tutt'altro che candide, si dichiararono scandalizzate al pensiero che «l'infame» (nomignolo dato a Lucky dalle ragazze da lui sedotte e avviate al vizio dopo averle rese tossico-dipendenti) potesse diventare membro della «onorata società» dei siciliani in America.
Malgrado l'ostracismo dei siculo-americani, Lucky riuscì a creare una perfetta ed efficiente catena di bordelli ed una fitta rete di spacciatori di stupefacenti rivelatisi, anni dopo, di notevole utilità per gli americani in guerra per certe operazioni nel porto di New York e per lo sbarco in Sicilia nel 1943.
Nel 1940, due mesi dopo l'entrata in guerra dell'Italia, la stampa americana affermò apertamente che il boicottaggio di alcune navi in partenza per l'Europa con carichi di aiuti per gli inglesi era da attribuire a fascisti annidati nelle varie comunità italiane.
La Naval Intelligence Service chiese l'intervento del potere politico americano per stroncare gli attentati; i politici, alcuni dei quali «amici» dei capi del «Sindacato», chiesero l'aiuto dei boss; questi, dopo una riunione tenuta in una sala dell'albergo Palisades nel New Yersey, decisero di affidare a Lucky Luciano, l'unico che, durante il fascismo, era rimasto in collegamento con i pochi boss della mafia siciliana, l'incarico di individuare ed eliminare i sabotatori.
Luciano, malgrado in galera, disponeva di una fitta ed efficiente rete di trafficanti sparsi in Sicilia, in Italia, in Francia ed in altre parti del mondo; disponeva inoltre di una organizzata schiera di spacciatori nel mondo della malavita e del vizio in America, capace di controllare ogni movimento nel porto di New York.
«Secondo Moses Palakov, avvocato difensore di Meyer Lansky, - ha scritto Kefauver - il Naval Intelligence aveva richiesto l'aiuto di Luciano chiedendo a Palakof di fare da intermediario. Palakof, il quale aveva difeso Luciano quando questi venne condannato, disse di essersi rivolto a Lansky, antico compagno di Luciano; vennero combinati quindici o venti incontri durante i quali Luciano fornì certe informazioni. «Il governo era riuscito a individuare i tedeschi perfettamente - disse Palakof - ma si temevano i sabotaggi degli italiani, i quali non erano stati individuati». Egli si riferiva a possibili sabotaggi nel porto di New York. Augusto Del Grazio disse che Luciano si sarebbe servito della sua posizione in seno alla mafia per spianare la via agli agenti segreti americani e la Sicilia sarebbe stata così facile obiettivo».
Nel 1946, a guerra finita, Luciano venne rilasciato sulla parola e rimpatriato in Italia. Tutti si aspettavano che si trasferisse a Palermo, invece si stabilì a Napoli, ove elesse domicilio in via Tasso assieme a Igea Lissone, la ballerina della Scala che fu sua compagna per molti anni, ed ove aprì, in via Chiaramonte, un negozio di articoli sanitari. Più tardi smise questa attività grazie, anche, ad una decisione della Corte di Appello di Napoli che rifiutò alla polizia l'autorizzazione di tenere Luciano sotto sorveglianza, reintegrandolo nel suo pieno diritto di vivere splendidamente di rendita. Chiuso il negozio di sanitari, Luciano aprì a nome di «fidato compariello» un grande magazzino di elettrodomestici nel quale lavorarono i più noti trafficanti e spacciatori tra i quali il nipote di Max Mugnai, il trafficante che nel 1943 era stato nominato dagli americani depositario-sovrintendente per i prodotti farmaceutici del Comando militare americano di Palermo e di Nola.
A Palermo, invece, Luciano creò la «Fabbrica di confetti e dolciumi» di Piazzetta S. Francesco di Assisi, intestata a Salvatore Lucania di Lercara, suo cugino omonimo, in società con don Calogero Vizzini («don Calò», capo della mafia siciliana, che tanta parte aveva avuto durante l'occupazione della Sicilia da parte delle truppe alleate).
Nel traffico degli stupefacenti c'era sufficiente spazio per tutti e soprattutto per i camorristi napoletani che avevano accolto Luciano con grandi onori e garantivano la sua tranquillità senza chiedergli conto per i suoi trascorsi di tenutario di bordelli. Da Napoli Luciano ha diretto tutto il traffico da e per gli Stati Uniti d'America, per il Canada e per il Messico, ed ha creato le basi per la diffusione della droga in Europa.
Braccio destro di Luciano era Pascal Molinelli, detto "mosier Richard" e il «Goldfinger» del Mediterraneo, coordinatore di tutte le attività da e per gli Stati d'oltre Oceano. Molinelli, la cui famiglia era di origine napoletana, era noto alla Guardia di Finanza italiana, alla polizia francese, agli agenti del Narcotic Bureau del ministero del Tesoro degli USA e, tuttavia, era la «primula rossa» del Mediterraneo. Le diverse polizie che gli davano la caccia non avevano le impronte digitali né possedevano una sua fotografia, tranne una istantanea scattata da lontano mentre era assieme a diverse persone, fra le quali il generale Thomazo, uno dei capi del putsch dell'Algeria. Con Molinelli lavoravano trafficanti di diversi paesi: Michel De Val di Nizza, Salomone Gonzales di Tangeri, Francesco Bonis di S. Remo, Elio Forni di Morbella (Malaga), Pietro Davì, Rosario Mancino e Tommaso Buscetta (Masino) di Palermo.
Fra le persone di fiducia di Luciano c'era Vittorio Gatti di Marsiglia, incaricato di dirigere la stazione radio installata a Bastia, in Corsica, collegata con altre due ricetrasmittenti clandestine, una installata a Napoli e l'altra su un lussuoso yacht, quasi sempre all'ancora nel porto di Villefrance-sur-mer, ovvero in rotta per Nizza o per Napoli. La ricetrasmittente di Napoli coordinava e dirigeva tutto il traffico e manteneva il collegamento con Palermo, ove c'era la «raffineria-fabbrica di confetti» alla quale era cointeressato «don» Calò.
La fabbrica di confetti era sorta con tutti i crismi della legalità: la licenza era stata rilasciata dalla questura di Palermo al «Sig. Salvatore Lucania di Lercara» cugino del grande gangster. Il Lucania di Lercara non si era mai occupato in vita sua di commercio di confetti e dolciumi, né di altri generi; era rimasto legato alle attività agricole, alle quali continuò a dedicarsi anche dopo essere stato intestatario della fabbrica, e anche dopo che l'ufficio vendite della avviata ditta era riuscito ad esportare confetti in Germania, Francia, Irlanda, Canada, Messico e Stati Uniti d'America.
Erano i tempi dello scandalo di Capocotta per la morte per overdose della giovane Vilma Montesi, scandalo nel quale rimase coinvolto il figlio del Presidente del Consiglio dei Ministri, on. Piccioni, e i giornali, specialmente quelli dell'opposizione, erano alla ricerca di notizie sui retroscena, e per la morte della Montesi, e per i legami e gli intrallazzi tra la Roma della «Dolce Vita» e gli uomini politici al potere.
«L'Avanti» di Roma dell'11 aprile 1954, in un articolo in prima pagina dal titolo «Tessuti e confetti sulla via della droga», pubblicò la fotografia della facciata della fabbrica sulla quale faceva spicco una grande tabella con il nome di Salvatore Lucania, lasciando intendere che nei confetti «due o tre grammi di eroina potevano prendere il posto della mandorla».
Raramente la pubblicazione di una fotografia ha avuto risultati più fulminei. La notte stessa la fabbrica smontava i macchinari e chiudeva i battenti. Quanto agli operai specializzati, questi venivano portati in alto mare, dove venivano prelevati da una nave turca e portati clandestinamente in America. I macchinari, invece, furono portati a Napoli, dove diedero vita ad una nuova fabbrica intestata a «compariello» di tutto riposo. Napoli, che fino ad allora era stata centro di coordinamento diretto personalmente da Luciano, diventò la sede operativa dalla quale la droga partiva raffinata, confezionata e spedita dai napoletani. I palermitani, amici di don Calò, volenti o nolenti, furono costretti ad accettare la situazione di fatto e collaborare con i camorristi, protagonisti principali del traffico da e per l'America. La camorra, mercé Luciano e don Calò, usciva dal ghetto del piccolo degradante delitto per assurgere a «grande famiglia» del traffico di stupefacenti a livello internazionale.
«Don» Calò è morto di vecchiaia il 12 luglio 1954, all'età di 77 anni, ed ha lasciato un patrimonio valutato alcuni miliardi, accumulati in meno di dieci anni; Lucky Luciano è morto in circostanze misteriose all'aeroporto di Capodichino (Napoli) il 26 gennaio 1962. La loro morte non ha interrotto il traffico, anzi, per i napoletani è andato sempre più rafforzandosi perché ogni qualvolta in Sicilia sono stati scoperti i canali ed individuati i corrieri, il traffico si è trasferito a Napoli e sulle coste napoletane.
Oggi «Cosa Nostra», cioè mafia e camorra, sono diventate la maggiore holding finanziaria-criminale nel mondo, il cui movimento finanziario è stato valutato nell'ordine di 300 miliardi di dollari l'anno.
Angelo Bruno, capo di «Cosa Nostra» di Filadelfia, socio di Carlos Marcello, il cui vero nome era Angelo Annaloro, nativo di Villalba (Caltanissetta), tre anni fa, prima di essere assassinato, ha preconizzato che entro la fine del secolo nel mondo dovranno dominare dieci grandi imprese multinazionali. «Lavoriamo - ha affermato, senza precisare se in qualità di proprietari di banche e alberghi in Inghilterra ed in Svizzera ovvero come capi di "Cosa Nostra" - per essere fra queste dieci».
Napoli e Palermo, in perfetta armonia e in totale collaborazione, sono i due principali centri di coordinamento e smistamento del traffico di stupefacenti in transito dal Mediterraneo verso l'America e verso l'Europa occidentale. Il più piccolo turbamento di questo equilibrio provoca catene interminabili di omicidi: il 1982 ha chiuso a Napoli con 263 omicidi e 76 scomparsi (lupara bianca); a Palermo gli assassinati sono stati 151, gli scomparsi 103, i mancati omicidi 24, numero in continuo aumento; vertiginoso è il numero dei drogati, anche fra i lavoratori e soprattutto fra i giovani nelle scuole.

Michele Pantaleone



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