lunedì 14 dicembre 2009

La democrazia del Gabibbo



Ubaldo Nicola



Viviamo oggi in una democrazia autoritaria? Già Rousseau preconizzava la famosa “dittatura della maggioranza”, un regime plebiscitario dove l’unica fonte di legittimità è il voto popolare.

Una volta eletti, i nostri rappresentanti possono fare quel che gli pare e piace, senza quasi nessuna forma di controllo. Proprio per scongiurare tale ipotesi, le democrazie liberali hanno sviluppato tutta una serie di pesi e contrappesi e una minuziosa frammentazione della sovranità. Oggi che anche la democrazia liberale è in crisi, quale architettura istituzionale potremmo immaginare?


Certamente non abbiamo una risposta chiara; però sappiamo che sono queste le domande che bisognerebbe porsi oggi in Italia. Ma è sintomatico che per affrontarle abbiamo dovuto ricorrere alle opere di un intellettuale francese, Pierre Rosanvallon, promotore di una proposta politica innovativa che ha voluto chiamare con l’infelice nome di controdemocrazia. L’idea è che, più che la mera divisione dei poteri, c’è in un certo senso bisogno di mettere ogni potere contro l’altro, di moltiplicare le istanze di sorveglianza sull’operato delle istituzioni, di dar supporto politico alla facoltà di critica e di denuncia. Qualcosa di simile al concetto di governance che, a differenza del government (il governo), designa una decentralizzazione del potere, una forma di sovranità diffusa e disseminata in diverse agenzie, commissioni, autorità, enti e istituzioni.

È quanto mai attuale pensare che anche la democrazia possa e debba evolversi, andare oltre il mero momento elettorale, pur senza negarne l’importanza, per realizzare forme più avanzate di partecipazione alla gestione della cosa pubblica.

E perché poi, c’è da chiedersi, populismo e antipolitica sembrano attecchire in Italia con particolare vigore? Forse perché, oltre a una sfiducia nella rappresentatività democratica, un fenomeno globale e in crescita costante negli ultimi venti anni, noi soffriamo anche per la vetustà delle istituzioni, ossia per non avere sostanzialmente intaccato l’idea cavouriana di Stato “ministeriale” nato con il Risorgimento, la cui ultima riedizione sta nel berlusconiano “Ghe pensi mi”.

Si prenda l’esempio delle autorità garanti: mentre in Italia trattano solo questioni economiche, altrove, in Francia, Inghilterra, USA e in molti altri Paesi democratici si occupano prevalentemente dei rapporti fra cittadino e istituzioni, realizzando così una funzione che si potrebbe definire “autocritica dello Stato”.

E perché, ad esempio, non introdurre anche in Italia forme di sostegno e di riconoscimento per quei cittadini “che non si fanno i fatti propri” ma denunciano civilmente le cattive pratiche di cui sono stati testimoni? Mentre un francese può rivolgersi a un’apposita autorità di garanzia, perché un italiano può solo chiamare il Gabibbo?

Ed è più che mai urgente adeguare la legislazione per difendere coloro (i cosiddetti whistleblower) che all’interno di un’azienda si prendono la briga di rendere noto ciò che non va: quante frodi si potrebbero così evitare?

Infine, perché non emulare i cugini francesi che per meglio gestire le grandi opere hanno inventato una “Legge per la democrazia della vicinanza”, che obbliga l’ammistrazione a un dibattito pubblico con i cittadini coinvolti? E questi sono solo alcuni esempi.


Fonte:
Reportonline


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Ubaldo Nicola



Viviamo oggi in una democrazia autoritaria? Già Rousseau preconizzava la famosa “dittatura della maggioranza”, un regime plebiscitario dove l’unica fonte di legittimità è il voto popolare.

Una volta eletti, i nostri rappresentanti possono fare quel che gli pare e piace, senza quasi nessuna forma di controllo. Proprio per scongiurare tale ipotesi, le democrazie liberali hanno sviluppato tutta una serie di pesi e contrappesi e una minuziosa frammentazione della sovranità. Oggi che anche la democrazia liberale è in crisi, quale architettura istituzionale potremmo immaginare?


Certamente non abbiamo una risposta chiara; però sappiamo che sono queste le domande che bisognerebbe porsi oggi in Italia. Ma è sintomatico che per affrontarle abbiamo dovuto ricorrere alle opere di un intellettuale francese, Pierre Rosanvallon, promotore di una proposta politica innovativa che ha voluto chiamare con l’infelice nome di controdemocrazia. L’idea è che, più che la mera divisione dei poteri, c’è in un certo senso bisogno di mettere ogni potere contro l’altro, di moltiplicare le istanze di sorveglianza sull’operato delle istituzioni, di dar supporto politico alla facoltà di critica e di denuncia. Qualcosa di simile al concetto di governance che, a differenza del government (il governo), designa una decentralizzazione del potere, una forma di sovranità diffusa e disseminata in diverse agenzie, commissioni, autorità, enti e istituzioni.

È quanto mai attuale pensare che anche la democrazia possa e debba evolversi, andare oltre il mero momento elettorale, pur senza negarne l’importanza, per realizzare forme più avanzate di partecipazione alla gestione della cosa pubblica.

E perché poi, c’è da chiedersi, populismo e antipolitica sembrano attecchire in Italia con particolare vigore? Forse perché, oltre a una sfiducia nella rappresentatività democratica, un fenomeno globale e in crescita costante negli ultimi venti anni, noi soffriamo anche per la vetustà delle istituzioni, ossia per non avere sostanzialmente intaccato l’idea cavouriana di Stato “ministeriale” nato con il Risorgimento, la cui ultima riedizione sta nel berlusconiano “Ghe pensi mi”.

Si prenda l’esempio delle autorità garanti: mentre in Italia trattano solo questioni economiche, altrove, in Francia, Inghilterra, USA e in molti altri Paesi democratici si occupano prevalentemente dei rapporti fra cittadino e istituzioni, realizzando così una funzione che si potrebbe definire “autocritica dello Stato”.

E perché, ad esempio, non introdurre anche in Italia forme di sostegno e di riconoscimento per quei cittadini “che non si fanno i fatti propri” ma denunciano civilmente le cattive pratiche di cui sono stati testimoni? Mentre un francese può rivolgersi a un’apposita autorità di garanzia, perché un italiano può solo chiamare il Gabibbo?

Ed è più che mai urgente adeguare la legislazione per difendere coloro (i cosiddetti whistleblower) che all’interno di un’azienda si prendono la briga di rendere noto ciò che non va: quante frodi si potrebbero così evitare?

Infine, perché non emulare i cugini francesi che per meglio gestire le grandi opere hanno inventato una “Legge per la democrazia della vicinanza”, che obbliga l’ammistrazione a un dibattito pubblico con i cittadini coinvolti? E questi sono solo alcuni esempi.


Fonte:
Reportonline


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