venerdì 6 novembre 2009

A cent’anni dalla morte di Cesare Lombroso

Di Fernando Riccardi
A cent’anni dalla morte di Cesare Lombroso



Qualche settimana fa la prestigiosa Accademia Medica di Torino ha organizzato un convegno per il centenario della morte di Cesare Lombroso (1835-1909), in collaborazione con l’ateneo torinese e la regione Piemonte. Lombroso è considerato il padre dell’antropologia criminale, della psichiatria, il pioniere degli studi sulla criminologia oltre che il fondatore della polizia scientifica. Uno scienziato eminente, dunque, la cui fama si è ben presto diffusa, nella seconda metà dell’Ottocento, in ogni angolo del continente europeo. La manifestazione, alla quale i mass media hanno dato grande rilevanza, è stata organizzata dal prof. Pierluigi Baima Bollone, assurto agli onori della cronaca per i suoi elevati studi sulla Sacra Sindone. Un convegno molto ben riuscito, non c’è che dire, con relazioni ed interventi assai interessanti, ma, purtroppo, incompleto e parziale come spesso accade in occasioni di tal guisa. L’intento celebrativo, d’altro canto, non poteva essere scalfito da argomentazioni scabrose, di non facile lettura, a dir poco controverse ma, nello stesso tempo, tremendamente reali e veritiere. Non tutti sanno, infatti, che il padre dell’antropologia criminale partecipò, dopo il 1860, alla campagna di conquista piemontese dell’Italia meridionale. Lombroso, nato a Verona da una agiata famiglia ebrea, dopo essersi laureato in medicina e chirurgia all’università di Pavia, nel 1859 trovò impiego nel corpo di sanità militare dell’esercito sabaudo. Nel 1862 fu inviato in Calabria per sottoporre a visita medica i giovani meridionali che dovevano arruolarsi nell’esercito savoiardo che stava patendo le pene dell’inferno per cercare di venire a capo della violenta sollevazione contadina. Un medico della leva, quindi, uno di quelli che si incontravano fino a qualche anno fa nel corso dei fatidici tre giorni di visita. E fu proprio qui che il giovane Lombroso iniziò ad elaborare una teoria che lo fece diventare celebre in tutto il mondo. Egli, avendo a disposizione un numero pressoché illimitato di materiale umano, elaborò uno studio statistico sulla popolazione meridionale, dedicandosi ad approfondire, in particolar modo, le cause delle devianze, vere patologie ereditarie che il più delle volte portavano il soggetto a delinquere. E siccome quello era il periodo dei briganti, un vero incubo per i militari venuti dal nord a civilizzare quelle lande considerate deserte, inospitali e viste come abitate da popolazioni incivili che niente avevano di diverso dagli aborigeni dell’Africa nera, fu soprattutto su di loro che Lombroso concentrò la sua morbosa attenzione. D’altro canto, a più riprese, scrisse che “la ragione dell’inferiorità meridionale risiedeva in una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale”. Le genti meridionali, quindi, per Lombroso erano una razza inferiore. Qualcun altro, neanche un secolo dopo, si mise a teorizzare l’inferiorità razziale di un altro popolo che, ironia della sorte, quasi in una sorta di nemesi storica, era proprio quello cui lo stesso scienziato apparteneva. Il brigante, insomma, diventava tale non tanto per una sua scelta di vita o per motivazioni ideologiche, quanto per l’innata propensione a delinquere. La teoria “lombrosiana” fu capace di procurare in quel drammatico periodo guasti inenarrabili. Costituì, infatti, una sorta di giustificazione scientifica a chi massacrava impunemente le genti del sud senza curarsi minimamente della loro dignità, della loro cultura, dei loro usi e costumi. Si trattava, d’altro canto, di gente inferiore, patologicamente deviata, incapace di discernere tra il bene e il male, anzi tendenzialmente portata a delinquere. E il brigante era la massima espressione di tale inferiorità, un enorme abominio, una mala pianta che andava sradicata e distrutta senza troppo pensarci su. “I crani dei briganti catturati vennero esaminati, misurati, selezionati e studiati con attenzione da medici militari, seguaci delle teorie lombrosiane. Il tipo del meridionale rozzo, incolto e violento si affermò in quegli studi positivisti. Contribuì in maniera determinante a diffondere pregiudizi e luoghi comuni sugli italiani del Sud. La rivolta contadina post-unitaria, spogliata delle sue profonde motivazioni socio-politiche, venne semplificata in una condanna generica degli abitanti delle ex Due Sicilie. Gli unici che avevano reso difficile l’unità d’Italia e l’annessione al Piemonte. La ribellione venne spiegata in un unico modo: l’inferiorità culturale di quella gente che non riusciva ad apprezzare la civiltà e il progresso che le erano stati offerti. E gli studi, così come le fotografie, ebbero anche l’obiettivo di dimostrare quella teoria. Arretratezza, ignoranza, violenza innata”. Così sintetizza magistralmente Gigi Di Fiore in una sua recente pubblicazione. Lombroso e i suoi numerosi seguaci, quindi, erano riusciti a trovare la quadratura del cerchio: i briganti erano tali per una loro indiscussa inferiorità razziale che li portava a scatenare i più bassi e brutali istinti. Persino a respingere con gli schioppi in pugno e con il coltello tra i denti i benefattori del nord venuti a portare civiltà, progresso e benessere ai derelitti fratelli del meridione. Una cosa inaudita che trovava il suo preciso fondamento scientifico nella inferiorità, oggi si direbbe genetica, della gente del sud. Di cui il brigante costituiva l’esempio più evidente e lampante.
Analizzando meticolosamente, con tanto di centimetro e pinze, la testa di un brigante, Lombroso ebbe ad annotare: “Vedendo quel cranio mi sembrò di avere un’illuminazione sul problema della natura del criminale; un essere attivo che riproduce nella sua persona gli istinti feroci dell’umanità primitiva e degli animali inferiori... L’insensibilità al dolore, la vista estremamente acuta, il tatuaggio, la pigrizia eccessiva, l’amore per le orge, la brama irresistibile per il male in sé, il desiderio di spegnere non solo la vita della vittima ma anche di mutilare il cadavere, di squarciare la sua carne e di bere il suo sangue”. Lombroso, dunque, aveva individuato, in base ai suoi eccelsi studi, nei quali la misurazione centimetrica del cranio aveva una fondamentale importanza, il normotipo del brigante. Un essere inferiore incline al misfatto, un primitivo dotato di istinti bestiali e assolutamente privo di raziocinio. Una teoria aberrante, mostruosa, delirante che pure ebbe uno straordinario successo tanto da elevare Cesare Lombroso a padre indiscusso dell’antropologia criminale. Ma anche questa, a ben vedere, fu una cosa assolutamente voluta e, se vogliamo, anche astutamente architettata. Si voleva e si doveva togliere qualsiasi giustificazione politica, ideologica e sociale alla rivolta che infiammava in ogni angolo le regioni del sud. I cui protagonisti erano soltanto degli uomini inferiori che rispondevano ai loro più rozzi e incontrollabili istinti e contro i quali si doveva procedere con la più spietata repressione. Quelli, d’altronde, non erano uomini ma vere e proprie bestie. E con le bestie, si sa, non c’è bisogno di andare tanto per il sottile. Compiuto il suo capolavoro esaminando e misurando teste recise di briganti ancora grondanti di sangue (parecchi di quei macabri trofei, conservati in teche di vetro ripiene di formalina, sono ancora conservati negli scaffali del museo criminologico di Torino che porta il suo nome), Lombroso tornò al nord a godere della fama e dei generosi appannaggi che la geniale “teoria dell’uomo delinquente”, basata sull’atavismo, ossia sulla ricomparsa periodica nel delinquente dei caratteri ancestrali dell’uomo primitivo, violento, brutale e selvaggio, gli procurò abbondantemente. Nel 1866 fu nominato professore ordinario presso l’università di Pavia. Cinque anni dopo gli fu affidata la direzione del manicomio di Pesaro, l’ambiente ideale per proseguire e perfezionare i sui studi improntanti ad una lucida follia.
Si spense all’età di 74 anni, a Torino, stroncato da un attacco apoplettico. Anche la sua testa, con una strana espressione corrucciata, è conservata, e non poteva essere altrimenti, nel “Museo Lombroso” di Torino inaugurato nel lontano 1898 ma oggi inspiegabilmente interdetto al pubblico. A cento anni esatti dalla sua morte è giusto e legittimo ricordare i suoi studi pioneristici sull’antropologia criminale. Altrettanto legittimo, però, sarebbe far denotare i guasti incommensurabili che derivarono dall’applicazione pratica delle sue teorie. Difficile dire se Cesare Lombroso abbia agito o meno in malafede. Forse fu solo uno scienziato stravagante, originale e un po’ folle. Una cosa però è certa: fu in totale malafede chi si servì a piene mani dei suoi studi per giustificare i più brutali istinti di aggressione. Quelli sì che furono delinquenti. I veri briganti, a ben vedere, furono proprio loro.

Fonte:Rinascita

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Di Fernando Riccardi
A cent’anni dalla morte di Cesare Lombroso



Qualche settimana fa la prestigiosa Accademia Medica di Torino ha organizzato un convegno per il centenario della morte di Cesare Lombroso (1835-1909), in collaborazione con l’ateneo torinese e la regione Piemonte. Lombroso è considerato il padre dell’antropologia criminale, della psichiatria, il pioniere degli studi sulla criminologia oltre che il fondatore della polizia scientifica. Uno scienziato eminente, dunque, la cui fama si è ben presto diffusa, nella seconda metà dell’Ottocento, in ogni angolo del continente europeo. La manifestazione, alla quale i mass media hanno dato grande rilevanza, è stata organizzata dal prof. Pierluigi Baima Bollone, assurto agli onori della cronaca per i suoi elevati studi sulla Sacra Sindone. Un convegno molto ben riuscito, non c’è che dire, con relazioni ed interventi assai interessanti, ma, purtroppo, incompleto e parziale come spesso accade in occasioni di tal guisa. L’intento celebrativo, d’altro canto, non poteva essere scalfito da argomentazioni scabrose, di non facile lettura, a dir poco controverse ma, nello stesso tempo, tremendamente reali e veritiere. Non tutti sanno, infatti, che il padre dell’antropologia criminale partecipò, dopo il 1860, alla campagna di conquista piemontese dell’Italia meridionale. Lombroso, nato a Verona da una agiata famiglia ebrea, dopo essersi laureato in medicina e chirurgia all’università di Pavia, nel 1859 trovò impiego nel corpo di sanità militare dell’esercito sabaudo. Nel 1862 fu inviato in Calabria per sottoporre a visita medica i giovani meridionali che dovevano arruolarsi nell’esercito savoiardo che stava patendo le pene dell’inferno per cercare di venire a capo della violenta sollevazione contadina. Un medico della leva, quindi, uno di quelli che si incontravano fino a qualche anno fa nel corso dei fatidici tre giorni di visita. E fu proprio qui che il giovane Lombroso iniziò ad elaborare una teoria che lo fece diventare celebre in tutto il mondo. Egli, avendo a disposizione un numero pressoché illimitato di materiale umano, elaborò uno studio statistico sulla popolazione meridionale, dedicandosi ad approfondire, in particolar modo, le cause delle devianze, vere patologie ereditarie che il più delle volte portavano il soggetto a delinquere. E siccome quello era il periodo dei briganti, un vero incubo per i militari venuti dal nord a civilizzare quelle lande considerate deserte, inospitali e viste come abitate da popolazioni incivili che niente avevano di diverso dagli aborigeni dell’Africa nera, fu soprattutto su di loro che Lombroso concentrò la sua morbosa attenzione. D’altro canto, a più riprese, scrisse che “la ragione dell’inferiorità meridionale risiedeva in una costituzionale e irreparabile inferiorità razziale”. Le genti meridionali, quindi, per Lombroso erano una razza inferiore. Qualcun altro, neanche un secolo dopo, si mise a teorizzare l’inferiorità razziale di un altro popolo che, ironia della sorte, quasi in una sorta di nemesi storica, era proprio quello cui lo stesso scienziato apparteneva. Il brigante, insomma, diventava tale non tanto per una sua scelta di vita o per motivazioni ideologiche, quanto per l’innata propensione a delinquere. La teoria “lombrosiana” fu capace di procurare in quel drammatico periodo guasti inenarrabili. Costituì, infatti, una sorta di giustificazione scientifica a chi massacrava impunemente le genti del sud senza curarsi minimamente della loro dignità, della loro cultura, dei loro usi e costumi. Si trattava, d’altro canto, di gente inferiore, patologicamente deviata, incapace di discernere tra il bene e il male, anzi tendenzialmente portata a delinquere. E il brigante era la massima espressione di tale inferiorità, un enorme abominio, una mala pianta che andava sradicata e distrutta senza troppo pensarci su. “I crani dei briganti catturati vennero esaminati, misurati, selezionati e studiati con attenzione da medici militari, seguaci delle teorie lombrosiane. Il tipo del meridionale rozzo, incolto e violento si affermò in quegli studi positivisti. Contribuì in maniera determinante a diffondere pregiudizi e luoghi comuni sugli italiani del Sud. La rivolta contadina post-unitaria, spogliata delle sue profonde motivazioni socio-politiche, venne semplificata in una condanna generica degli abitanti delle ex Due Sicilie. Gli unici che avevano reso difficile l’unità d’Italia e l’annessione al Piemonte. La ribellione venne spiegata in un unico modo: l’inferiorità culturale di quella gente che non riusciva ad apprezzare la civiltà e il progresso che le erano stati offerti. E gli studi, così come le fotografie, ebbero anche l’obiettivo di dimostrare quella teoria. Arretratezza, ignoranza, violenza innata”. Così sintetizza magistralmente Gigi Di Fiore in una sua recente pubblicazione. Lombroso e i suoi numerosi seguaci, quindi, erano riusciti a trovare la quadratura del cerchio: i briganti erano tali per una loro indiscussa inferiorità razziale che li portava a scatenare i più bassi e brutali istinti. Persino a respingere con gli schioppi in pugno e con il coltello tra i denti i benefattori del nord venuti a portare civiltà, progresso e benessere ai derelitti fratelli del meridione. Una cosa inaudita che trovava il suo preciso fondamento scientifico nella inferiorità, oggi si direbbe genetica, della gente del sud. Di cui il brigante costituiva l’esempio più evidente e lampante.
Analizzando meticolosamente, con tanto di centimetro e pinze, la testa di un brigante, Lombroso ebbe ad annotare: “Vedendo quel cranio mi sembrò di avere un’illuminazione sul problema della natura del criminale; un essere attivo che riproduce nella sua persona gli istinti feroci dell’umanità primitiva e degli animali inferiori... L’insensibilità al dolore, la vista estremamente acuta, il tatuaggio, la pigrizia eccessiva, l’amore per le orge, la brama irresistibile per il male in sé, il desiderio di spegnere non solo la vita della vittima ma anche di mutilare il cadavere, di squarciare la sua carne e di bere il suo sangue”. Lombroso, dunque, aveva individuato, in base ai suoi eccelsi studi, nei quali la misurazione centimetrica del cranio aveva una fondamentale importanza, il normotipo del brigante. Un essere inferiore incline al misfatto, un primitivo dotato di istinti bestiali e assolutamente privo di raziocinio. Una teoria aberrante, mostruosa, delirante che pure ebbe uno straordinario successo tanto da elevare Cesare Lombroso a padre indiscusso dell’antropologia criminale. Ma anche questa, a ben vedere, fu una cosa assolutamente voluta e, se vogliamo, anche astutamente architettata. Si voleva e si doveva togliere qualsiasi giustificazione politica, ideologica e sociale alla rivolta che infiammava in ogni angolo le regioni del sud. I cui protagonisti erano soltanto degli uomini inferiori che rispondevano ai loro più rozzi e incontrollabili istinti e contro i quali si doveva procedere con la più spietata repressione. Quelli, d’altronde, non erano uomini ma vere e proprie bestie. E con le bestie, si sa, non c’è bisogno di andare tanto per il sottile. Compiuto il suo capolavoro esaminando e misurando teste recise di briganti ancora grondanti di sangue (parecchi di quei macabri trofei, conservati in teche di vetro ripiene di formalina, sono ancora conservati negli scaffali del museo criminologico di Torino che porta il suo nome), Lombroso tornò al nord a godere della fama e dei generosi appannaggi che la geniale “teoria dell’uomo delinquente”, basata sull’atavismo, ossia sulla ricomparsa periodica nel delinquente dei caratteri ancestrali dell’uomo primitivo, violento, brutale e selvaggio, gli procurò abbondantemente. Nel 1866 fu nominato professore ordinario presso l’università di Pavia. Cinque anni dopo gli fu affidata la direzione del manicomio di Pesaro, l’ambiente ideale per proseguire e perfezionare i sui studi improntanti ad una lucida follia.
Si spense all’età di 74 anni, a Torino, stroncato da un attacco apoplettico. Anche la sua testa, con una strana espressione corrucciata, è conservata, e non poteva essere altrimenti, nel “Museo Lombroso” di Torino inaugurato nel lontano 1898 ma oggi inspiegabilmente interdetto al pubblico. A cento anni esatti dalla sua morte è giusto e legittimo ricordare i suoi studi pioneristici sull’antropologia criminale. Altrettanto legittimo, però, sarebbe far denotare i guasti incommensurabili che derivarono dall’applicazione pratica delle sue teorie. Difficile dire se Cesare Lombroso abbia agito o meno in malafede. Forse fu solo uno scienziato stravagante, originale e un po’ folle. Una cosa però è certa: fu in totale malafede chi si servì a piene mani dei suoi studi per giustificare i più brutali istinti di aggressione. Quelli sì che furono delinquenti. I veri briganti, a ben vedere, furono proprio loro.

Fonte:Rinascita

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