giovedì 26 marzo 2009

Settembre 1943, i giorni della vergogna.


Esemplare per ricchezza di documentazione e qualità di interpretazione, il libro di Patricelli racconta, ricostruisce, analizza. Un giudizio pesante e condivisibile su uno dei momenti più tragici e simbolici del Novecento italiano

Di Marco Innocenti



8 settembre 1943. L'Italia è in guerra da 1.184 giorni, il fascismo è caduto da 45 e da cinque, conquistata la Sicilia, gli Alleati hanno messo piede sul continente. Si fa notte. C'è afa. Il maresciallo Badoglio, con voce neutra, ha appena annunciato l'armistizio. L'Italia, per un attimo, si illude che la guerra sia finita. Nel buio delle caserme qualche ragazzo del Sud canta sommessamente la propria nostalgia accompagnandosi con la chitarra.

Nelle città devastate dalle bombe la notte trascorre calma ma pochi dormono, con l'orecchio teso a rumori lontani. Poche ore e la luce incerta dell'alba coglie le sagome scure dei panzer di Rommel. Eccoli i tedeschi: hanno le tute mimetiche, i mitra puntati, le bombe a mano infilate negli stivali. A guardarli fanno paura. Vogliono vendicare il "tradimento". Le loro avanguardie serrano su Roma, ed è il panico. Il re, il principe Umberto, Badoglio, Ambrosio, Roatta, i generali sono in fuga, tutti insieme appassionatamente, verso Ortona, il cui molo farà da scenario a una gazzarra tragicomica da si salvi chi può. Era stato buon profeta Mussolini quando aveva scritto: «Un re che fugge è un uomo che si condanna da sé».

Il 9 settembre al Quirinale non c'è più nessuno, nemmeno i carabinieri. L'Italia reagisce come da copione e implode. L'esercito si sfalda, disperdendosi in mille anonimi rivoli. Senza fede, senza capi né ordini, con la catena di comando disarticolata dalla fuga dei vertici, si frantuma ogni equilibrio. Le prime colonne di soldati catturati dalla Wehrmacht vengono avviate alle stazioni ferroviarie con destinazione i lager nazisti. Chi riesce butta la divisa e se ne va, in un fuggi fuggi generale verso casa. Le strade si riempiono di sbandati che ricordano un gregge disfatto. Molti, però, non ce la fanno. La caccia all'uomo è moneta corrente per i tedeschi, spendibile senza formalità. La Wehrmacht si muove come sa: rastrella, intercetta i fuggiaschi, piomba sui pochi reparti che non si sono arresi e fa centinaia di migliaia di prigionieri sparando pochi colpi, ma sparandoli con ferocia.

L'adrenalina della paura scorre nelle vene del "camaleonte" Badoglio e del suo entourage. Vittorio Emanuele III sembra ancora più piccolo di quanto la natura gli abbia concesso. I capi politici e militari non sono riusciti a ingannare i tedeschi, ma hanno ingannato, sorpreso e abbandonato i loro soldati in un clima di sfascio e di terrore. Per i vertici l'8 settembre è un gioco di inganni, di opportunismi, di malafede, di irresponsabilità e di vigliaccheria: una nera pagina di storia. Per i gregari è inevitabile il crollo. Milioni di vite restano in balìa della rabbia tedesca.

La politica finge di non sporcarsi le mani mentre le uniformi dei soldati si sporcano di sangue. Si rompono i freni inibitori, anche quello della decenza. Un esercito in assetto di guerra si dissolve in poche ore. "Basta", perché la pelle innanzitutto, perché non si sa dove sia il giusto e l'ingiusto, i capi sono fuggiti, non c'è un ufficiale a dare un ordine e la guerra è perduta. Si sciolgono un esercito, un Paese, una generazione, un mondo. Tutto. Chi resisterà, seguendo la propria coscienza (Gonzaga, Bellomo, Bergamini, i difensori di Roma, la Acqui a Cefalonia) rappresenterà l'altra faccia, fortemente minoritaria, dell'8 settembre.

Quel giorno che resterà nella storia d'Italia è un dramma dalle molte sfaccettature: dal tragico al buffo, dal grottesco al sublime. Alle regole e all'ordine si sostituiscono, in una sovversione improvvisa, l'anarchia, la liberazione degli istinti, la lotta per la sopravvivenza, l'eroismo di pochi, il terrore di molti. Anni di retorica sono spazzati via in poche ore. Il cinismo e l'incapacità azzerano uno Stato in una sequenza di eventi che consegneranno l'Italia a un destino di macerie. Nel profumo dell'estate che muore, tra gli ordini urlati dei tedeschi e l'ombra lunga dei panzer, muore quello che credeva di essere un Paese vero.

Marco Patricelli ha scritto "Settembre 1943, i giorni della vergogna", un titolo che si commenta da sé, un libro esemplare per ricchezza di documentazione e qualità di interpretazione. Dall'armistizio annunciato da Badoglio alla liberazione di Mussolini da Campo Imperatore trascorrono quattro giorni, un soffio di tempo in cui muore un'Italia e ne nascono due sul palcoscenico della storia. Patricelli racconta, ricostruisce, analizza e giudica. Un giudizio pesante, assolutamente condivisibile, su uno dei momenti più tragici e simbolici del Novecento italiano.

Fonte:Il Sole 24 ore
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Esemplare per ricchezza di documentazione e qualità di interpretazione, il libro di Patricelli racconta, ricostruisce, analizza. Un giudizio pesante e condivisibile su uno dei momenti più tragici e simbolici del Novecento italiano

Di Marco Innocenti



8 settembre 1943. L'Italia è in guerra da 1.184 giorni, il fascismo è caduto da 45 e da cinque, conquistata la Sicilia, gli Alleati hanno messo piede sul continente. Si fa notte. C'è afa. Il maresciallo Badoglio, con voce neutra, ha appena annunciato l'armistizio. L'Italia, per un attimo, si illude che la guerra sia finita. Nel buio delle caserme qualche ragazzo del Sud canta sommessamente la propria nostalgia accompagnandosi con la chitarra.

Nelle città devastate dalle bombe la notte trascorre calma ma pochi dormono, con l'orecchio teso a rumori lontani. Poche ore e la luce incerta dell'alba coglie le sagome scure dei panzer di Rommel. Eccoli i tedeschi: hanno le tute mimetiche, i mitra puntati, le bombe a mano infilate negli stivali. A guardarli fanno paura. Vogliono vendicare il "tradimento". Le loro avanguardie serrano su Roma, ed è il panico. Il re, il principe Umberto, Badoglio, Ambrosio, Roatta, i generali sono in fuga, tutti insieme appassionatamente, verso Ortona, il cui molo farà da scenario a una gazzarra tragicomica da si salvi chi può. Era stato buon profeta Mussolini quando aveva scritto: «Un re che fugge è un uomo che si condanna da sé».

Il 9 settembre al Quirinale non c'è più nessuno, nemmeno i carabinieri. L'Italia reagisce come da copione e implode. L'esercito si sfalda, disperdendosi in mille anonimi rivoli. Senza fede, senza capi né ordini, con la catena di comando disarticolata dalla fuga dei vertici, si frantuma ogni equilibrio. Le prime colonne di soldati catturati dalla Wehrmacht vengono avviate alle stazioni ferroviarie con destinazione i lager nazisti. Chi riesce butta la divisa e se ne va, in un fuggi fuggi generale verso casa. Le strade si riempiono di sbandati che ricordano un gregge disfatto. Molti, però, non ce la fanno. La caccia all'uomo è moneta corrente per i tedeschi, spendibile senza formalità. La Wehrmacht si muove come sa: rastrella, intercetta i fuggiaschi, piomba sui pochi reparti che non si sono arresi e fa centinaia di migliaia di prigionieri sparando pochi colpi, ma sparandoli con ferocia.

L'adrenalina della paura scorre nelle vene del "camaleonte" Badoglio e del suo entourage. Vittorio Emanuele III sembra ancora più piccolo di quanto la natura gli abbia concesso. I capi politici e militari non sono riusciti a ingannare i tedeschi, ma hanno ingannato, sorpreso e abbandonato i loro soldati in un clima di sfascio e di terrore. Per i vertici l'8 settembre è un gioco di inganni, di opportunismi, di malafede, di irresponsabilità e di vigliaccheria: una nera pagina di storia. Per i gregari è inevitabile il crollo. Milioni di vite restano in balìa della rabbia tedesca.

La politica finge di non sporcarsi le mani mentre le uniformi dei soldati si sporcano di sangue. Si rompono i freni inibitori, anche quello della decenza. Un esercito in assetto di guerra si dissolve in poche ore. "Basta", perché la pelle innanzitutto, perché non si sa dove sia il giusto e l'ingiusto, i capi sono fuggiti, non c'è un ufficiale a dare un ordine e la guerra è perduta. Si sciolgono un esercito, un Paese, una generazione, un mondo. Tutto. Chi resisterà, seguendo la propria coscienza (Gonzaga, Bellomo, Bergamini, i difensori di Roma, la Acqui a Cefalonia) rappresenterà l'altra faccia, fortemente minoritaria, dell'8 settembre.

Quel giorno che resterà nella storia d'Italia è un dramma dalle molte sfaccettature: dal tragico al buffo, dal grottesco al sublime. Alle regole e all'ordine si sostituiscono, in una sovversione improvvisa, l'anarchia, la liberazione degli istinti, la lotta per la sopravvivenza, l'eroismo di pochi, il terrore di molti. Anni di retorica sono spazzati via in poche ore. Il cinismo e l'incapacità azzerano uno Stato in una sequenza di eventi che consegneranno l'Italia a un destino di macerie. Nel profumo dell'estate che muore, tra gli ordini urlati dei tedeschi e l'ombra lunga dei panzer, muore quello che credeva di essere un Paese vero.

Marco Patricelli ha scritto "Settembre 1943, i giorni della vergogna", un titolo che si commenta da sé, un libro esemplare per ricchezza di documentazione e qualità di interpretazione. Dall'armistizio annunciato da Badoglio alla liberazione di Mussolini da Campo Imperatore trascorrono quattro giorni, un soffio di tempo in cui muore un'Italia e ne nascono due sul palcoscenico della storia. Patricelli racconta, ricostruisce, analizza e giudica. Un giudizio pesante, assolutamente condivisibile, su uno dei momenti più tragici e simbolici del Novecento italiano.

Fonte:Il Sole 24 ore

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