venerdì 13 febbraio 2009

La Fedelissima


A Gaeta nel 1861 si è consumata una delle pagine più dolorose della storia d’Italia. Cento giorni infernali videro contrapposti due eserciti e due mondi profondamente diversi: uno antico, cavalleresco, pacifico, cattolico, laborioso, erede dell’antica Magna Grecia e dei suoi illustri pensatori, rispettoso dei deboli e degli oppressi, felice custode delle proprie tradizioni millenarie; l’altro moderno, ateo, crudele, violento, assetato di prede e di denaro, accanito praticante della guerra ideologica e della rappresaglia militare, padre del liberismo capitalistico e del “ mercato globale”, figlio del potere massonico internazionale.

Gaeta cadde eroicamente ed inesorabilmente sotto una gragnuola micidiale di bombe e con essa caddero gli ideali di una storia millenaria e di autonomia amministrativa che l’avevano resa libera, ricca e prospera e, soprattutto, orgogliosa del suo essere. L’assedio si concluse il 13 febbraio del 1861 in un orrendo bagno di sangue che segnò per sempre la fine di un’epoca e l’inizio di una lunga stagione di persecuzioni, emigrazioni bibliche, miserie, dittature, guerre coloniali, guerre mondiali che produssero solo morti, fame e disperazione.

Gaeta, dal 13 febbraio del 1861 alla fine della seconda guerra mondiale, ha avuto solo decadenza, mai nella sua storia era caduta così in basso. Al tempo dei romani fu luogo di villeggiatura di consoli ed imperatori, le sue terre fertili davano lavoro a migliaia di contadini, il suo mare a centinaia di pescatori. Dall’800 dopo Cristo i suoi abitanti le diedero lustro; la eressero a ducato indipendente, democratico, fino a farla diventare una delle casseforti della penisola. I Caetani diedero alla Chiesa Papi e vescovi, eressero palazzi e castelli in tutta l’Italia centrale; le navi gaetane solcavano i mari di tutto il mondo, le sue galee, a guardia del Tirreno, davano sicurezza a tutto il popolo; i saraceni che erano soliti arrembare navigli e abitati, mai calpestarono la terra di Enea. Nel 912 i saraceni furono massacrati sul Garigliano dalla Lega Campana di cui Gaeta era parte trainante. Nel 1571 da Gaeta partì la flotta che sconfisse i Turchi a Lepanto e a Gaeta ritornò vincitrice salvando la civiltà occidentale dal pericolo musulmano. Seguì un periodo floridissimo della sua economia. Con i Borbone, Gaeta, ebbe importanza seconda solo a quella della Capitale ed era la città prediletta da Ferdinando II che vi risiedeva quasi stabilmente.

Con la caduta del Regno delle Due Sicilie, i Savoia vollero punire Gaeta per la sua resistenza alle truppe del generale Cialdini; vollero punire la straordinaria resistenza della truppa napolitana e quella di tutto il popolo che stava dalla parte giusta: quella della libertà, quella dell’autonomia, dell’indipendenza. Per la fedeltà della città e per la grande resistenza operata da tutto il popolo gaetano, Gaeta fu definita la Fedelissima.

Il centenario dell’Unità d’Italia a Gaeta

Nel 1961, durante le celebrazioni dell’unità d’Italia, l’allora sindaco di Gaeta, prof. Pasquale Corbo, davanti ad una folla strabocchevole, al cospetto del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana on. Amintore Fanfani, nello spiazzo di Montesecco, tenne un memorabile discorso. Dopo i convenevoli di rito ed i salamelecchi, che, di solito si fanno alle massime autorità statali, e imposti dal rito e dal ruolo istituzionale, Corbo attaccò violentemente Cialdini, che, nel 1860, senza dichiarazione di guerra, aveva operato un violentissimo bombardamento sulla città, le cui macerie erano ancora visibili dopo cento anni:

“…Gaeta ed i gaetani- disse il sindaco- ben più vasto contributo di sangue e di eroismi dovevano dare al Risorgimento d’Italia: era scritto infatti nel destino di questa città che proprio essa dovesse pagare lo scotto più amaro e sanguinoso. Sull’antica Gaeta le artiglierie di Cialdini lanciarono quasi 57 mila bombe; sul Borgo ne caddero più di 35 mila; una pioggia di 92 mila proiettili che si proiettò su tutta la Città; nessun’altra, durante il periodo risorgimentale, potè vantare un così triste primato. Case e palazzi furono colpiti, sventrati, abbattuti; al momento della resa c’erano ovunque cadaveri, rovine, ammalati e feriti. Se gli eserciti avevano avuto un olocausto di sangue, che da parte borbonica era salito a 826 morti e 569 feriti, e da parte piemontese a 46 morti e 321 feriti, la Città di Gaeta aveva visto decimata la sua popolazione, e oltre alla rovina delle case, usciva dall’assedio con centinaia di morti e centinaia di feriti. Molte di quelle rovine esistono ancora e perciò noi non possiamo fare a meno di rievocare l’atteggiamento morale e lo spirito della città in quelle circostanze…” ( 4 anni di progresso per Gaeta, Edito dal Comune, discorso pronunciato dal sindaco della città Prof. Pasquale Corbo per le celebrazioni dell’unità d’Italia)

Prof. Corbo, si, è vero, quando lei pronunciò queste parole si era nel 1961, sono passati altri 40 anni e le macerie sono ancora lì, i beni demaniali predati dai piemontesi son rimasti di proprietà statale; i danni dell’assedio, nella sola piazzaforte, ammontarono a due milioni di lire del 1861, senza contare quelli del Borgo di Gaeta e quelli procurati ai contadini con l’abbattimento di oltre centomila ulivi e carrubi che servirono a riscaldare i savoiardi in quell’anno di freddo siberiano. Noi non abbiamo dimenticato i morti che subì l’esercito borbonico e nemmeno quelli dell’esercito piemontese, ma chi ricorda i morti subiti dalla nostra comunità? E furono centinaia come centinaia furono i feriti, ce lo ha ricordato Lei prof, Corbo, e noi le siamo grati. Un monumento sarà dedicato ad essi dalle prossime amministrazioni comunali della nostra città, di questo ne siamo sicuri.

Il ruolo di Gaeta con i Borbone era rilevantissimo, e lo era ancora qualche anno dopo il 13 febbraio del 1861, poi iniziò il declino voluto da Casa Savoia:<<...in questa città, esistono i seguenti uffici e pubblici istituti: due rappresentanti di stati esteri, cioè quello di Francia e quello della Gran Bretagna; comando militare di fortezza e distretto, bagno succursale a quello centrale di Pozzuoli; reclusione e prigionia militare, comando di circondario marittimo; due camere di assicurazione marittima; ufficio postale di prima classe; ispettorato di distretto e luogotenenza delle dogane e gabelle; dogana principale; fondaco con ricevitoria delle privative; ricevitoria del registro; agenzie delle tasse dirette e del catasto; ispettorato di circondario delle scuole primarie; pretura dipendente dal tribunale civile e correzionale di Cassino; delegazione di Pubblica Sicurezza; verifica dei pesi e delle misure; ufficio telegrafico di terza classe; ufficio di sanità marittima; consorzio agrario circondariale...”( A. Amati, Dizionario corografico dell’Italia, Vol. IV, Milano, 1868,pag.8- vedi pure Luigi Cardi, Lo sviluppo urbano di Gaeta dal ‘500 al ‘900, Edito in proprio, Itri, 1979, pag. 38) Inoltre vi era una intensa vita industriale e commerciale, la flotta ammontava a circa trecento navi sempre in navigazione in tutti gli oceani del mondo, i cantieri navali davano lavoro a duemila addetti, le campagne a moltissimi contadini, 300 frantoi molivano le olive dei paesi mediterranei, fabbriche di vele, di cordame, di sapone e di pasta erano il vanto della città. 85 anni di regno dei Savoia hanno distrutto l’economia della Fedelissima, e cominciò l’emigrazione biblica come in tutto il Sud. Tra il 1884 e il 1913 ci fa sapere il prof. Cardi, nella sua opera citata, che gli espatrii furono oltre 11.000. Emigrazione da noi era una parola inesistente, nel vocabolario della nostra lingua non esisteva. Da allora non si è ancora fermata, maledetti Savoia! 2000 fucilati a Gaeta Il sindaco Corbo, nel centenario dell’unità d’Italia ha ricordato agli italiani le centinaia di morti e feriti subiti dalla città, oltre ai soldati borbonici e piemontesi immolatisi all’altare della perfidia savoiarda. Ma furono solo quelli i morti a Gaeta? No. Dopo la resa Gaeta fu un inferno. Cialdini e Persano punirono gli eroi che avevano resistito alle loro orde. Moltissimi furono fucilati, altri furono mandati nei campi di concentramento di Fenestrelle e di San Maurizio. Nei dieci anni che seguirono il 13 febbraio del 1861 i patrioti fucilati furono moltissimi. Solo in una fossa dell’attuale via Napoli se ne contarono 2000. Fino al 1960 esisteva in Gaeta, ove è situata l’attuale palestra ottagonale della scuola media Carducci, tra Viale Napoli e Via Veneto, un monumento a forma tronco-piramidale, alto due metri e cinquanta, alla cui sommità vi era una croce di ferro alta un metro. La piramide era stata costruita con pietra bianca locale levigata…e ricordava al mondo le fucilazioni colà eseguite dai piemontesi nei confronti dei partigiani meridionali, quasi tutti contadini ed operai che difendevano le loro terre e le loro fabbriche…in quel periodo erano in corso i preparativi del centenario dell’unità d’Italia ed i festeggiamenti dovevano fare capo a Torino, Gaeta e Castelfidardo. A Gaeta era in costruzione il quartiere delle scuole pubbliche…; proprio dove adesso vi è la palestra ottagonale vi era la piramide che venne abbattuta per far posto al nuovo complesso. Gli operai che l’abbatterono si trovarono di fronte ad uno spettacolo orrendo: trovarono una fossa profonda dodici metri, venti di diametro piena di scheletri. Erano i resti dei partigiani e civili di idee borboniche fucilati dai piemontesi…scavando, trovarono del calcinaccio e scavando ancora a circa un metro dal basolato trovarono ossa umane per trasportare le quali nel cimitero di Gaeta gli operai comunali impiegarono un mese; si contarono circa 2000 scheletri. I duemila scheletri che indossavano pellicce di pecora, che calzavano ciocie, bisacce a tracolla, cappotti borbonici, i cui bottoni vennero tutti trafugati in quanto d’argento vivo con giglio borbonico. L’ultimo mezzo metro della fossa era impregnato di sangue, il sangue caldo che colava dai corpi dopo le fucilazioni sommarie…”( Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 1996, pag 198) In quel periodo, chi scrive, aveva dimora presso i nonni, proprio in Via Veneto, e il vedere quel monumento abbattuto aveva destato rabbia negli animi dei ragazzi del rione in quanto la Piramide per loro era un simbolo, un punto di ritrovo. Alla Piramide ci si dava appuntamento, alla Piramide si andava per le scazzottate, alla Piramide si andava per giocare a pallone ma di sera, no, di sera, quel luogo sacro veniva rispettato e i ragazzi andavano altrove a giocare a Briganti e piemontesi. Ma i veri briganti, i veri patrioti, i partigiani del Sud erano accatastati uno sull’altro, sotto la Piramide, ma ancora per poco. Corbo li fece rimuovere tutti e diede loro cristiana sepoltura al cimitero borbonico di Gaeta. Il Risorgimento per il Sud è stato solo morte, fame, emigrazione, per Gaeta è stato asfissia, è stato morte economica, morte politica, sociale, la fame e la miseria in 85 anni di regno savoiardo la segnarono aspramente. L’assedio del 1860-61 sarà ricordato a lungo dai gaetani, la memoria storica non si cancella dai loro cuori con una lapide maligna ed ipocrita. La popolazione indigena, dopo la resa, fu costretta ad un esodo biblico: “...la città, contrariamente al proclamato avviso di Cialdini, fu privata di molti suoi importanti uffici statali, smantellati gli arsenali e molte strutture pubbliche. I cantieri navali, vanto del passato regime, che avevano costruito i primi bastimenti italiani a vapore solcando le rotte del mediterraneo, furono smobilitati e ridimensionati fino alla chiusura; i dazi e le tasse esosi sulle proprietà agricole frazionate resero impossibile la vita nei campi…l’isolamento della città, voluto quasi come punizione della sua resistenza, causò il decadimento dei traffici e del commercio; la coscrizione obbligatoria nell’esercito, che prelevava i giovani a 18 anni per restituirli alle famiglie al 25° anno, insieme ad altri motivi, ne aumentò l’esodo per sfuggire ai morsi della disoccupazione e della fame. Non si voleva poi correre il rischio dell’arruolamento per essere inviati a pacificare, colle fucilazioni indiscriminate, i nuovi”briganti” sorti a migliaia nelle terre che i <> amministravano con la legge marziale. Di nuovo tanti “ Fra’ Diavolo”, solo che questa volta non erano i francesi a dar loro la caccia, ma <> italiani…”. ( Antonio Cesarale, Trombe e tamburi, Edizioni “ le nuove scelte >>, Gaeta, 1984, pag.117)

Maria Carolina Corbo, in un interessante studio sui censimenti della città, ci fa sapere che:<< …i dati del 1861 mostrano la città profondamente segnata dall’ultima dolorosa vicenda vissuta; c’è un pauroso declino economico, le condizioni di vita appaiono più dure che mai, la popolazione in parte si è allontanata…nel 1901 la città sembra scomparire al ritmo di poderose ondate migratorie: in loco sono rimasti poco più di 15.000 abitanti e già 10.000 circa son partiti per sempre nel giro di trenta anni…”( Maria Carolina Corbo, Alcune osservazioni sui censimenti generali della popolazione di Gaeta dal 1871 al 1971, Proprietà letteraria riservata, Gaeta, 1979 ) Ma l’emigrazione non si è mai arrestata. Gaeta ha un primato, dal suo porto partì il primo emigrante del Regno delle Due Sicilie per non farne più ritorno. Francesco II di Borbone, partì il 14 febbraio del 1861 dopo aver difeso eroicamente il Sud. Noi tutti lo ricorderemo sempre. Onore a quest’uomo ritenuto da molti fiacco e molle, era solo un ragazzo e aveva in sé l’orgoglio degli eroi. Un giorno Gaeta gli dedicherà una piazza ed i suoi abitanti gli erigeranno una statua, molti ancora oggi lo ricordano col grido :<<>>.

Il risorgimento? Solo un sogno

Durante le manifestazioni del centenario dell’unità d’Italia svoltesi nella città martoriata e martire, nel 1961, il sindaco della città Prof. Pasquale Corbo, rivolgendosi al presidente del Consiglio Amintore Fanfani, senza peli sulla lingua come era suo costume, crudamente, continuò ad attaccare il regime savoiardo, ritenendolo il responsabile principe della decadenza della città:<<>>. D’allora Gaeta ha vissuto periodi tristissimi di abbandono e di miseria; la Città è stata umiliata in tutti i modi, e dal ruolo di fortezza chiave passò a quello di sede di carcere militare, sicchè il suo nome, che era stato unito a sentimenti di gloriosa ammirazione, incominciò a diventare sinonimo di penoso luogo di espiazione. La gloriosa fortezza diventò sinistra parola di minaccia. La città, che per oltre tre quarti non apparteneva più ai gaetani a cui era stata espropriata nei secoli ai fini di erigere le necessarie opere fortificatorie, continuò a restare demaniale…Gaeta fu costretta alla vita più grama e ad una emigrazione massiccia, partirono in quegli anni migliaia di nostri concittadini...” ( 4 anni di progresso per Gaeta, edito dal comune di Gaeta, stralcio del discorso pronunciato per le celebrazioni dell’unità d’Italia dall’allora sindaco della città Prof. Pasquale Corbo)

Lo stato siamo noi

Gaeta, sotto i Savoia, era diventata la città che non c’è, una mera espressione geografica. Cialdini e soci l’hanno scannata. Il suo territorio, esteso per 2.847 ettari, per oltre due terzi non è amministrabile da parte dei suoi cittadini in quanto sotto la giurisdizione demaniale. Il Comune, per far utilizzare strade, scuole ed impianti sportivi ai gaetani è costretto a pagare il pizzo allo Stato; vorremmo sapere se il comune di Milano o quello di Torino pagano per piazza Duomo o per piazza San Carlo. Non ci risulta. Di tutto il centro storico dell’antica città è rimasto ai gaetani solo Piazza Commestibili, per chi non lo sapesse è quella dove al centro c’è il leone marmoreo che rappresenta la grandiosità di Gaeta nei secoli. Il resto è tutta proprietà di Cialdini, di Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Enrico Cosenz, di Menabrea, di Mazzini: eh già! Sono tutti edifici pubblici costruiti dai Borbone e intitolati a coloro che hanno massacrato la città. Il Prof. Corbo è un gaetano verace, nel bene e nel male, forse l’unico sindaco, dopo Ianni, ad aver capito che la città era ancora preda dei piemontesi. Il primo fatto destituire dal potere savoiardo ed il secondo da quello massonico: s’era preso la briga di distruggere ciò che non era riuscito a Cialdini e a Persano: i bastioni dell’Annunziata, quelli del Castrone Sant’Antonio e quelli dell’Avanzata. Noi siamo stati sempre critici per quell’operazione, ma dopo anni, cercando di immedesimarci nel pensare del Sindaco, nella rabbia che doveva avere in corpo Pasquale Corbo, uomo di grande cultura e storico, uomo di grande carattere, capiamo. Quei bastioni rappresentavano il potere coloniale Statale, l’asservimento totale, Gaeta era nelle mani dei militari e del demanio, nella fortezza non vi erano più i Borbone ma i piemontesi e l’unico modo per riprendersi la città, era l’apertura di un varco, di una breccia che desse luce e potere a chi era stato eletto democraticamente. Corbo cadde in disgrazia ma nessun altro sindaco ha saputo combattere il Demanio statale che, oggi, ha messo in vendita tutti i gioielli che i Borbone ci hanno lasciato integri. I Borbone pagavano alla città l’essere fortezza, le casse del comune erano sempre piene, cinque grana ( la famosa tassa di stallaggio) al giorno per ogni militare di stanza a Gaeta rendevano floride le sue finanze, oggi la città, per poter far passeggiare e studiare i suoi cittadini, deve pagare il pizzo allo Stato essendo demianiali quei luoghi. Che differenza! Corbo sapeva tutto questo e non usava pagare il pizzo allo Stato, qualcuno, pare, sembra aver udito dalla sua bocca:” lo Stato siamo noi” e aveva ragione.

Madre di tutti non più matrigna per molti

A Gaeta molti ricordano il sindaco Corbo, sia per le opere pubbliche dalla sua amministrazione realizzate e sia per la sua cultura; amministratore tenace e decisionista, non disdegnava le considerazioni dell’opposizione dura dei comunisti Mariano Mandolesi e Gigino Dell’Anno, e del socialista Archita Danaro; lavoravano tutti per il bene ed il benessere della città, sempre con lealtà ed onestà assoluta. Ebbene, quel giorno erano tutti sul palco, quel giorno in cui si celebrava il centenario dell’unità d’Italia, di fronte al Presidente del Consiglio Fanfani e alle massime autorità dello Stato, il Prof. Corbo così finì il suo coraggioso discorso:” ...Ed infine, Signor Presidente, mi permetta di parlare a nome di tutte le città del nostro Meridione, in qualità di Sindaco di Gaeta, che per il suo generoso tributo di sangue e di sacrificio, per la sua insostituibile missione di civiltà e di storia, è stata sempre ed è considerata la porta del Sud d’Italia. A nome di questo Sud, fucina inesausta di nobili intelletti e di cuori generosi, io formulo l’auspicio ed il voto, nel giorno solenne che celebra i cento anni trascorsi dall’unità con la Patria, che le popolazioni meridionali possano finalmente concludere, sotto l’impulso del Governo Democratico e repubblicano, il loro millenario travaglio. Noi vogliamo concludere, Signor Presidente, l’opera di chi attuò nel sogno e nella pratica il Risorgimento d’Italia: facciamo sì che la Patria sia veramente la la Madre di tutti, e non più matrigna per molti; diamo a tutti una certezza, e non più soltanto speranza, di lavoro e di benessere; concludiamo cioè, lealmente e liberamente, quel moto risorgimentale che non voleva essere soltanto l’attuazione dell’unità territoriale e politica, ma soprattutto dell’unità morale, sociale e spirituale degli italiani. Auspicio che è già una certezza essendo formulato alla Sua presenza, Signor Presidente, e di tutte le altre responsabili ed illuminate autorità; ma soprattutto di fronte a questo popolo meraviglioso che è testimonianza di un solo cuore che palpita per gli stessi ideali e da Gaeta in questo giorno memorabile per le memorie del passato e per le speranze del futuro, io rilancio l’antico grido dei nostri avi, che già risuonò in ogni vicenda lieta e dolorosa, e che oggi risuoni in ogni cuore nella fede di un avvenire migliore: Viva l’Italia!”

Prof. Corbo, le sue parole sono ancora attuali. L’Italia, per il Sud, è ancora matrigna e non madre; l’Italia, per il Sud , in parte è ancora patria lontana, patria che fa emigrare i suoi figli, patria che non ha risolto la problematica della ricchezza di una sola parte del suo territorio, di quella patria che non vuole risolverla perché i Savoia hanno costruito artatamente un’economia padana a spese della colonia Sud; l’Italia è nostra patria quando ci chiamano a morire per guerre che non ci riguardano, l’Italia è nostra patria quando mandano i Meridionali a lavorare all’estero, senza protezione alcuna e senza assistenza; l’Italia è nostra patria quando sfruttano le risorse del Sud come il petrolio, o quando sfruttano da 140 anni le rimesse dei nostri emigranti assistendo il Nord padano. L’Italia non è nostra patria quando tutta l’economia è nelle mani degli imprenditori del Nord, quando andiamo a comprare merce nei supermercati, tutti del Nord, tutti nelle mani del capitale nordista; l’Italia non è la nostra patria quando vendono i nostri beni demaniali, i nostri gioielli lasciatici dai Borbone in eredità perenne. L’Italia non è la nostra patria quando le concessioni di qualunque tipo finiscono nelle mani massoniche degli imprenditori del Nord. Hanno distrutto il nostro apparato industriale, hanno distrutto la nostra economia, le nostre banche inglobate da quelle padane e nordiste, i mass media quasi tutti nelle mani del Nord. Volevano distruggere la nostra identità. Non ci sono riusciti, la memoria storica sta tornando, il Sud ha intrapreso la via maestra tracciata a San Leucio dai Borbone.

Tratto dal libro di Antonio Ciano “Le stragi e gli eccidi dei Savoia” Esecutori e mandanti
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A Gaeta nel 1861 si è consumata una delle pagine più dolorose della storia d’Italia. Cento giorni infernali videro contrapposti due eserciti e due mondi profondamente diversi: uno antico, cavalleresco, pacifico, cattolico, laborioso, erede dell’antica Magna Grecia e dei suoi illustri pensatori, rispettoso dei deboli e degli oppressi, felice custode delle proprie tradizioni millenarie; l’altro moderno, ateo, crudele, violento, assetato di prede e di denaro, accanito praticante della guerra ideologica e della rappresaglia militare, padre del liberismo capitalistico e del “ mercato globale”, figlio del potere massonico internazionale.

Gaeta cadde eroicamente ed inesorabilmente sotto una gragnuola micidiale di bombe e con essa caddero gli ideali di una storia millenaria e di autonomia amministrativa che l’avevano resa libera, ricca e prospera e, soprattutto, orgogliosa del suo essere. L’assedio si concluse il 13 febbraio del 1861 in un orrendo bagno di sangue che segnò per sempre la fine di un’epoca e l’inizio di una lunga stagione di persecuzioni, emigrazioni bibliche, miserie, dittature, guerre coloniali, guerre mondiali che produssero solo morti, fame e disperazione.

Gaeta, dal 13 febbraio del 1861 alla fine della seconda guerra mondiale, ha avuto solo decadenza, mai nella sua storia era caduta così in basso. Al tempo dei romani fu luogo di villeggiatura di consoli ed imperatori, le sue terre fertili davano lavoro a migliaia di contadini, il suo mare a centinaia di pescatori. Dall’800 dopo Cristo i suoi abitanti le diedero lustro; la eressero a ducato indipendente, democratico, fino a farla diventare una delle casseforti della penisola. I Caetani diedero alla Chiesa Papi e vescovi, eressero palazzi e castelli in tutta l’Italia centrale; le navi gaetane solcavano i mari di tutto il mondo, le sue galee, a guardia del Tirreno, davano sicurezza a tutto il popolo; i saraceni che erano soliti arrembare navigli e abitati, mai calpestarono la terra di Enea. Nel 912 i saraceni furono massacrati sul Garigliano dalla Lega Campana di cui Gaeta era parte trainante. Nel 1571 da Gaeta partì la flotta che sconfisse i Turchi a Lepanto e a Gaeta ritornò vincitrice salvando la civiltà occidentale dal pericolo musulmano. Seguì un periodo floridissimo della sua economia. Con i Borbone, Gaeta, ebbe importanza seconda solo a quella della Capitale ed era la città prediletta da Ferdinando II che vi risiedeva quasi stabilmente.

Con la caduta del Regno delle Due Sicilie, i Savoia vollero punire Gaeta per la sua resistenza alle truppe del generale Cialdini; vollero punire la straordinaria resistenza della truppa napolitana e quella di tutto il popolo che stava dalla parte giusta: quella della libertà, quella dell’autonomia, dell’indipendenza. Per la fedeltà della città e per la grande resistenza operata da tutto il popolo gaetano, Gaeta fu definita la Fedelissima.

Il centenario dell’Unità d’Italia a Gaeta

Nel 1961, durante le celebrazioni dell’unità d’Italia, l’allora sindaco di Gaeta, prof. Pasquale Corbo, davanti ad una folla strabocchevole, al cospetto del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana on. Amintore Fanfani, nello spiazzo di Montesecco, tenne un memorabile discorso. Dopo i convenevoli di rito ed i salamelecchi, che, di solito si fanno alle massime autorità statali, e imposti dal rito e dal ruolo istituzionale, Corbo attaccò violentemente Cialdini, che, nel 1860, senza dichiarazione di guerra, aveva operato un violentissimo bombardamento sulla città, le cui macerie erano ancora visibili dopo cento anni:

“…Gaeta ed i gaetani- disse il sindaco- ben più vasto contributo di sangue e di eroismi dovevano dare al Risorgimento d’Italia: era scritto infatti nel destino di questa città che proprio essa dovesse pagare lo scotto più amaro e sanguinoso. Sull’antica Gaeta le artiglierie di Cialdini lanciarono quasi 57 mila bombe; sul Borgo ne caddero più di 35 mila; una pioggia di 92 mila proiettili che si proiettò su tutta la Città; nessun’altra, durante il periodo risorgimentale, potè vantare un così triste primato. Case e palazzi furono colpiti, sventrati, abbattuti; al momento della resa c’erano ovunque cadaveri, rovine, ammalati e feriti. Se gli eserciti avevano avuto un olocausto di sangue, che da parte borbonica era salito a 826 morti e 569 feriti, e da parte piemontese a 46 morti e 321 feriti, la Città di Gaeta aveva visto decimata la sua popolazione, e oltre alla rovina delle case, usciva dall’assedio con centinaia di morti e centinaia di feriti. Molte di quelle rovine esistono ancora e perciò noi non possiamo fare a meno di rievocare l’atteggiamento morale e lo spirito della città in quelle circostanze…” ( 4 anni di progresso per Gaeta, Edito dal Comune, discorso pronunciato dal sindaco della città Prof. Pasquale Corbo per le celebrazioni dell’unità d’Italia)

Prof. Corbo, si, è vero, quando lei pronunciò queste parole si era nel 1961, sono passati altri 40 anni e le macerie sono ancora lì, i beni demaniali predati dai piemontesi son rimasti di proprietà statale; i danni dell’assedio, nella sola piazzaforte, ammontarono a due milioni di lire del 1861, senza contare quelli del Borgo di Gaeta e quelli procurati ai contadini con l’abbattimento di oltre centomila ulivi e carrubi che servirono a riscaldare i savoiardi in quell’anno di freddo siberiano. Noi non abbiamo dimenticato i morti che subì l’esercito borbonico e nemmeno quelli dell’esercito piemontese, ma chi ricorda i morti subiti dalla nostra comunità? E furono centinaia come centinaia furono i feriti, ce lo ha ricordato Lei prof, Corbo, e noi le siamo grati. Un monumento sarà dedicato ad essi dalle prossime amministrazioni comunali della nostra città, di questo ne siamo sicuri.

Il ruolo di Gaeta con i Borbone era rilevantissimo, e lo era ancora qualche anno dopo il 13 febbraio del 1861, poi iniziò il declino voluto da Casa Savoia:<<...in questa città, esistono i seguenti uffici e pubblici istituti: due rappresentanti di stati esteri, cioè quello di Francia e quello della Gran Bretagna; comando militare di fortezza e distretto, bagno succursale a quello centrale di Pozzuoli; reclusione e prigionia militare, comando di circondario marittimo; due camere di assicurazione marittima; ufficio postale di prima classe; ispettorato di distretto e luogotenenza delle dogane e gabelle; dogana principale; fondaco con ricevitoria delle privative; ricevitoria del registro; agenzie delle tasse dirette e del catasto; ispettorato di circondario delle scuole primarie; pretura dipendente dal tribunale civile e correzionale di Cassino; delegazione di Pubblica Sicurezza; verifica dei pesi e delle misure; ufficio telegrafico di terza classe; ufficio di sanità marittima; consorzio agrario circondariale...”( A. Amati, Dizionario corografico dell’Italia, Vol. IV, Milano, 1868,pag.8- vedi pure Luigi Cardi, Lo sviluppo urbano di Gaeta dal ‘500 al ‘900, Edito in proprio, Itri, 1979, pag. 38) Inoltre vi era una intensa vita industriale e commerciale, la flotta ammontava a circa trecento navi sempre in navigazione in tutti gli oceani del mondo, i cantieri navali davano lavoro a duemila addetti, le campagne a moltissimi contadini, 300 frantoi molivano le olive dei paesi mediterranei, fabbriche di vele, di cordame, di sapone e di pasta erano il vanto della città. 85 anni di regno dei Savoia hanno distrutto l’economia della Fedelissima, e cominciò l’emigrazione biblica come in tutto il Sud. Tra il 1884 e il 1913 ci fa sapere il prof. Cardi, nella sua opera citata, che gli espatrii furono oltre 11.000. Emigrazione da noi era una parola inesistente, nel vocabolario della nostra lingua non esisteva. Da allora non si è ancora fermata, maledetti Savoia! 2000 fucilati a Gaeta Il sindaco Corbo, nel centenario dell’unità d’Italia ha ricordato agli italiani le centinaia di morti e feriti subiti dalla città, oltre ai soldati borbonici e piemontesi immolatisi all’altare della perfidia savoiarda. Ma furono solo quelli i morti a Gaeta? No. Dopo la resa Gaeta fu un inferno. Cialdini e Persano punirono gli eroi che avevano resistito alle loro orde. Moltissimi furono fucilati, altri furono mandati nei campi di concentramento di Fenestrelle e di San Maurizio. Nei dieci anni che seguirono il 13 febbraio del 1861 i patrioti fucilati furono moltissimi. Solo in una fossa dell’attuale via Napoli se ne contarono 2000. Fino al 1960 esisteva in Gaeta, ove è situata l’attuale palestra ottagonale della scuola media Carducci, tra Viale Napoli e Via Veneto, un monumento a forma tronco-piramidale, alto due metri e cinquanta, alla cui sommità vi era una croce di ferro alta un metro. La piramide era stata costruita con pietra bianca locale levigata…e ricordava al mondo le fucilazioni colà eseguite dai piemontesi nei confronti dei partigiani meridionali, quasi tutti contadini ed operai che difendevano le loro terre e le loro fabbriche…in quel periodo erano in corso i preparativi del centenario dell’unità d’Italia ed i festeggiamenti dovevano fare capo a Torino, Gaeta e Castelfidardo. A Gaeta era in costruzione il quartiere delle scuole pubbliche…; proprio dove adesso vi è la palestra ottagonale vi era la piramide che venne abbattuta per far posto al nuovo complesso. Gli operai che l’abbatterono si trovarono di fronte ad uno spettacolo orrendo: trovarono una fossa profonda dodici metri, venti di diametro piena di scheletri. Erano i resti dei partigiani e civili di idee borboniche fucilati dai piemontesi…scavando, trovarono del calcinaccio e scavando ancora a circa un metro dal basolato trovarono ossa umane per trasportare le quali nel cimitero di Gaeta gli operai comunali impiegarono un mese; si contarono circa 2000 scheletri. I duemila scheletri che indossavano pellicce di pecora, che calzavano ciocie, bisacce a tracolla, cappotti borbonici, i cui bottoni vennero tutti trafugati in quanto d’argento vivo con giglio borbonico. L’ultimo mezzo metro della fossa era impregnato di sangue, il sangue caldo che colava dai corpi dopo le fucilazioni sommarie…”( Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 1996, pag 198) In quel periodo, chi scrive, aveva dimora presso i nonni, proprio in Via Veneto, e il vedere quel monumento abbattuto aveva destato rabbia negli animi dei ragazzi del rione in quanto la Piramide per loro era un simbolo, un punto di ritrovo. Alla Piramide ci si dava appuntamento, alla Piramide si andava per le scazzottate, alla Piramide si andava per giocare a pallone ma di sera, no, di sera, quel luogo sacro veniva rispettato e i ragazzi andavano altrove a giocare a Briganti e piemontesi. Ma i veri briganti, i veri patrioti, i partigiani del Sud erano accatastati uno sull’altro, sotto la Piramide, ma ancora per poco. Corbo li fece rimuovere tutti e diede loro cristiana sepoltura al cimitero borbonico di Gaeta. Il Risorgimento per il Sud è stato solo morte, fame, emigrazione, per Gaeta è stato asfissia, è stato morte economica, morte politica, sociale, la fame e la miseria in 85 anni di regno savoiardo la segnarono aspramente. L’assedio del 1860-61 sarà ricordato a lungo dai gaetani, la memoria storica non si cancella dai loro cuori con una lapide maligna ed ipocrita. La popolazione indigena, dopo la resa, fu costretta ad un esodo biblico: “...la città, contrariamente al proclamato avviso di Cialdini, fu privata di molti suoi importanti uffici statali, smantellati gli arsenali e molte strutture pubbliche. I cantieri navali, vanto del passato regime, che avevano costruito i primi bastimenti italiani a vapore solcando le rotte del mediterraneo, furono smobilitati e ridimensionati fino alla chiusura; i dazi e le tasse esosi sulle proprietà agricole frazionate resero impossibile la vita nei campi…l’isolamento della città, voluto quasi come punizione della sua resistenza, causò il decadimento dei traffici e del commercio; la coscrizione obbligatoria nell’esercito, che prelevava i giovani a 18 anni per restituirli alle famiglie al 25° anno, insieme ad altri motivi, ne aumentò l’esodo per sfuggire ai morsi della disoccupazione e della fame. Non si voleva poi correre il rischio dell’arruolamento per essere inviati a pacificare, colle fucilazioni indiscriminate, i nuovi”briganti” sorti a migliaia nelle terre che i <> amministravano con la legge marziale. Di nuovo tanti “ Fra’ Diavolo”, solo che questa volta non erano i francesi a dar loro la caccia, ma <> italiani…”. ( Antonio Cesarale, Trombe e tamburi, Edizioni “ le nuove scelte >>, Gaeta, 1984, pag.117)

Maria Carolina Corbo, in un interessante studio sui censimenti della città, ci fa sapere che:<< …i dati del 1861 mostrano la città profondamente segnata dall’ultima dolorosa vicenda vissuta; c’è un pauroso declino economico, le condizioni di vita appaiono più dure che mai, la popolazione in parte si è allontanata…nel 1901 la città sembra scomparire al ritmo di poderose ondate migratorie: in loco sono rimasti poco più di 15.000 abitanti e già 10.000 circa son partiti per sempre nel giro di trenta anni…”( Maria Carolina Corbo, Alcune osservazioni sui censimenti generali della popolazione di Gaeta dal 1871 al 1971, Proprietà letteraria riservata, Gaeta, 1979 ) Ma l’emigrazione non si è mai arrestata. Gaeta ha un primato, dal suo porto partì il primo emigrante del Regno delle Due Sicilie per non farne più ritorno. Francesco II di Borbone, partì il 14 febbraio del 1861 dopo aver difeso eroicamente il Sud. Noi tutti lo ricorderemo sempre. Onore a quest’uomo ritenuto da molti fiacco e molle, era solo un ragazzo e aveva in sé l’orgoglio degli eroi. Un giorno Gaeta gli dedicherà una piazza ed i suoi abitanti gli erigeranno una statua, molti ancora oggi lo ricordano col grido :<<>>.

Il risorgimento? Solo un sogno

Durante le manifestazioni del centenario dell’unità d’Italia svoltesi nella città martoriata e martire, nel 1961, il sindaco della città Prof. Pasquale Corbo, rivolgendosi al presidente del Consiglio Amintore Fanfani, senza peli sulla lingua come era suo costume, crudamente, continuò ad attaccare il regime savoiardo, ritenendolo il responsabile principe della decadenza della città:<<>>. D’allora Gaeta ha vissuto periodi tristissimi di abbandono e di miseria; la Città è stata umiliata in tutti i modi, e dal ruolo di fortezza chiave passò a quello di sede di carcere militare, sicchè il suo nome, che era stato unito a sentimenti di gloriosa ammirazione, incominciò a diventare sinonimo di penoso luogo di espiazione. La gloriosa fortezza diventò sinistra parola di minaccia. La città, che per oltre tre quarti non apparteneva più ai gaetani a cui era stata espropriata nei secoli ai fini di erigere le necessarie opere fortificatorie, continuò a restare demaniale…Gaeta fu costretta alla vita più grama e ad una emigrazione massiccia, partirono in quegli anni migliaia di nostri concittadini...” ( 4 anni di progresso per Gaeta, edito dal comune di Gaeta, stralcio del discorso pronunciato per le celebrazioni dell’unità d’Italia dall’allora sindaco della città Prof. Pasquale Corbo)

Lo stato siamo noi

Gaeta, sotto i Savoia, era diventata la città che non c’è, una mera espressione geografica. Cialdini e soci l’hanno scannata. Il suo territorio, esteso per 2.847 ettari, per oltre due terzi non è amministrabile da parte dei suoi cittadini in quanto sotto la giurisdizione demaniale. Il Comune, per far utilizzare strade, scuole ed impianti sportivi ai gaetani è costretto a pagare il pizzo allo Stato; vorremmo sapere se il comune di Milano o quello di Torino pagano per piazza Duomo o per piazza San Carlo. Non ci risulta. Di tutto il centro storico dell’antica città è rimasto ai gaetani solo Piazza Commestibili, per chi non lo sapesse è quella dove al centro c’è il leone marmoreo che rappresenta la grandiosità di Gaeta nei secoli. Il resto è tutta proprietà di Cialdini, di Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Enrico Cosenz, di Menabrea, di Mazzini: eh già! Sono tutti edifici pubblici costruiti dai Borbone e intitolati a coloro che hanno massacrato la città. Il Prof. Corbo è un gaetano verace, nel bene e nel male, forse l’unico sindaco, dopo Ianni, ad aver capito che la città era ancora preda dei piemontesi. Il primo fatto destituire dal potere savoiardo ed il secondo da quello massonico: s’era preso la briga di distruggere ciò che non era riuscito a Cialdini e a Persano: i bastioni dell’Annunziata, quelli del Castrone Sant’Antonio e quelli dell’Avanzata. Noi siamo stati sempre critici per quell’operazione, ma dopo anni, cercando di immedesimarci nel pensare del Sindaco, nella rabbia che doveva avere in corpo Pasquale Corbo, uomo di grande cultura e storico, uomo di grande carattere, capiamo. Quei bastioni rappresentavano il potere coloniale Statale, l’asservimento totale, Gaeta era nelle mani dei militari e del demanio, nella fortezza non vi erano più i Borbone ma i piemontesi e l’unico modo per riprendersi la città, era l’apertura di un varco, di una breccia che desse luce e potere a chi era stato eletto democraticamente. Corbo cadde in disgrazia ma nessun altro sindaco ha saputo combattere il Demanio statale che, oggi, ha messo in vendita tutti i gioielli che i Borbone ci hanno lasciato integri. I Borbone pagavano alla città l’essere fortezza, le casse del comune erano sempre piene, cinque grana ( la famosa tassa di stallaggio) al giorno per ogni militare di stanza a Gaeta rendevano floride le sue finanze, oggi la città, per poter far passeggiare e studiare i suoi cittadini, deve pagare il pizzo allo Stato essendo demianiali quei luoghi. Che differenza! Corbo sapeva tutto questo e non usava pagare il pizzo allo Stato, qualcuno, pare, sembra aver udito dalla sua bocca:” lo Stato siamo noi” e aveva ragione.

Madre di tutti non più matrigna per molti

A Gaeta molti ricordano il sindaco Corbo, sia per le opere pubbliche dalla sua amministrazione realizzate e sia per la sua cultura; amministratore tenace e decisionista, non disdegnava le considerazioni dell’opposizione dura dei comunisti Mariano Mandolesi e Gigino Dell’Anno, e del socialista Archita Danaro; lavoravano tutti per il bene ed il benessere della città, sempre con lealtà ed onestà assoluta. Ebbene, quel giorno erano tutti sul palco, quel giorno in cui si celebrava il centenario dell’unità d’Italia, di fronte al Presidente del Consiglio Fanfani e alle massime autorità dello Stato, il Prof. Corbo così finì il suo coraggioso discorso:” ...Ed infine, Signor Presidente, mi permetta di parlare a nome di tutte le città del nostro Meridione, in qualità di Sindaco di Gaeta, che per il suo generoso tributo di sangue e di sacrificio, per la sua insostituibile missione di civiltà e di storia, è stata sempre ed è considerata la porta del Sud d’Italia. A nome di questo Sud, fucina inesausta di nobili intelletti e di cuori generosi, io formulo l’auspicio ed il voto, nel giorno solenne che celebra i cento anni trascorsi dall’unità con la Patria, che le popolazioni meridionali possano finalmente concludere, sotto l’impulso del Governo Democratico e repubblicano, il loro millenario travaglio. Noi vogliamo concludere, Signor Presidente, l’opera di chi attuò nel sogno e nella pratica il Risorgimento d’Italia: facciamo sì che la Patria sia veramente la la Madre di tutti, e non più matrigna per molti; diamo a tutti una certezza, e non più soltanto speranza, di lavoro e di benessere; concludiamo cioè, lealmente e liberamente, quel moto risorgimentale che non voleva essere soltanto l’attuazione dell’unità territoriale e politica, ma soprattutto dell’unità morale, sociale e spirituale degli italiani. Auspicio che è già una certezza essendo formulato alla Sua presenza, Signor Presidente, e di tutte le altre responsabili ed illuminate autorità; ma soprattutto di fronte a questo popolo meraviglioso che è testimonianza di un solo cuore che palpita per gli stessi ideali e da Gaeta in questo giorno memorabile per le memorie del passato e per le speranze del futuro, io rilancio l’antico grido dei nostri avi, che già risuonò in ogni vicenda lieta e dolorosa, e che oggi risuoni in ogni cuore nella fede di un avvenire migliore: Viva l’Italia!”

Prof. Corbo, le sue parole sono ancora attuali. L’Italia, per il Sud, è ancora matrigna e non madre; l’Italia, per il Sud , in parte è ancora patria lontana, patria che fa emigrare i suoi figli, patria che non ha risolto la problematica della ricchezza di una sola parte del suo territorio, di quella patria che non vuole risolverla perché i Savoia hanno costruito artatamente un’economia padana a spese della colonia Sud; l’Italia è nostra patria quando ci chiamano a morire per guerre che non ci riguardano, l’Italia è nostra patria quando mandano i Meridionali a lavorare all’estero, senza protezione alcuna e senza assistenza; l’Italia è nostra patria quando sfruttano le risorse del Sud come il petrolio, o quando sfruttano da 140 anni le rimesse dei nostri emigranti assistendo il Nord padano. L’Italia non è nostra patria quando tutta l’economia è nelle mani degli imprenditori del Nord, quando andiamo a comprare merce nei supermercati, tutti del Nord, tutti nelle mani del capitale nordista; l’Italia non è la nostra patria quando vendono i nostri beni demaniali, i nostri gioielli lasciatici dai Borbone in eredità perenne. L’Italia non è la nostra patria quando le concessioni di qualunque tipo finiscono nelle mani massoniche degli imprenditori del Nord. Hanno distrutto il nostro apparato industriale, hanno distrutto la nostra economia, le nostre banche inglobate da quelle padane e nordiste, i mass media quasi tutti nelle mani del Nord. Volevano distruggere la nostra identità. Non ci sono riusciti, la memoria storica sta tornando, il Sud ha intrapreso la via maestra tracciata a San Leucio dai Borbone.

Tratto dal libro di Antonio Ciano “Le stragi e gli eccidi dei Savoia” Esecutori e mandanti

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