martedì 28 ottobre 2008

Joe Biden: " Vi garantisco, arriva una super crisi".


Di Pino Cabras


Certo che suona molto strano il discorso pronunciato lo scorso 19 ottobre a Seattle da
Joe Biden, il candidato di Obama alla vicepresidenza USA. Biden profetizza con una certa enfatica disinvoltura che Barack Obama – una volta in carica come presidente - dovrà subito ballare al ritmo di una crisi internazionale di enormi proporzioni.

Lo “garantisce”, addirittura.

E aggiunge che «non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barack Obama come fece con
John Kennedy».
Ricordiamo che JFK dovette subito fronteggiare la crisi dei missili a Cuba, a un passo dal conflitto nucleare con l’URSS di Kruščëv.
Biden tiene a sottolineare davanti al pubblico lì presente: «Ricordate quel che vi ho detto in piedi qui se non ricordate nessun altra cosa che ho detto.
Badate, stiamo per avere una crisi internazionale, una crisi provocata, per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo».
Una crisi «provocata».
In inglese la parola usata da Biden è «generated». Un vocabolo che comunque rimanda a un’idea di produzione consapevole e sofisticata di un fatto.


Biden insiste: «segnatevi le mie parole, segnatevi le mie parole», mentre aggiunge che dovranno essere prese decisioni «dure» e «impopolari» in materia di politica estera. E per chi non avesse percepito ancora la gravità del tono, ricalca: «Io prometto che accadrà».
Biden sottolinea: «da studioso di storia e avendo collaborato con sette presidenti, io vi garantisco che sta per succedere».
“Garantire” è un altro concetto di grande peso e grandissime implicazioni, per il ben informato Biden. Se l’esordio della presidenza di George W. Bush fu segnato dagli eventi dell’11/9, cosa dunque è atteso - anzi, “promesso”, “garantito” – che accada nell’esordio della nuova Amministrazione?

Biden appartiene a un’
élite in possesso di informazioni privilegiate, una classe di individui che reagisce alle crisi con strumenti concettuali e materiali diversi da quelli propri del senso comune e diversi dal velo banalizzante e bugiardo dei media più importanti. Le prospettive di crisi estrema sono tante, prese da sole o in combinazione.
L’élite sa che la crisi finanziaria, ad esempio, è ben lungi dall’essersi conclusa. Così come l’11 settembre 2001 l'élite sapeva già prima degli altri che l’economia era in recessione, così già oggi guarda con sgomento alle prossime bolle della grande finanza (carte di credito e massa dei derivati
in primis).
Quale evento è pronto a farle precipitare?
Altre crisi ci parlano di Iran, di Russia e Ucraina, di Venezuela, di conflitti potenziali che - una volta scatenati – cambierebbero l’agenda mondiale.

È degli stessi giorni una dichiarazione di tenore analogo a quella di Biden, pronunciata da un fresco sostenitore di Obama, l’ex Segretario di Stato repubblicano Colin Powell, che si è spinto a prevedere un grave scenario di crisi per fine gennaio 2009.
Un altro membro dell’élite che parla, e fa quasi l’oracolo.

Come un altro ex Segretario di Stato, la democratica
Madeleine Albright, la quale a sua volta ritiene molto plausibile lo scenario di emergenza previsto da Biden, un contesto che ai suoi occhi assume le sembianze di un mega-attentato terroristico. E non è finita.
Anche il rivale repubblicano di Obama,
John McCain, cerca di decantare la necessità di mettere al comando supremo la propria esperienza proprio perché il nuovo presidente «non avrà tempo di abituarsi alla carica».

Mentre anche ai soldati USA vengono attribuiti compiti di ordine pubblico (è una tendenza planetaria), intanto che la tempesta finanziaria perfetta incombe, l’immensa potenza americana sembra essere condotta verso un profondo mutamento della sua natura. I segnali sono forti in questa direzione.

In tempi non sospetti, nel 2004, nell’osservare l’aumento eccessivo del debito che sormonta di gran lunga la solvibilità del paese, l’economista Robert Freeman si era chiesto quali possibili strategie avrebbe potuto usare l’amministrazione statunitense (“ Come How Will Bush Deal With the Deficits? Connecting the Dots to Iraq”, «
CommonDreams.org»).
La prima strategia è aumentare le imposte, specie sui redditi elevati, e pagare i creditori. Non è ciò che fa l’amministrazione Bush.

La seconda è stampare dollari. L’abuso di una tale soluzione porterebbe però a un collasso economico.

Una terza soluzione strategica, secondo il modello imposto dall’FMI ai cosidetti ‘paesi in via di sviluppo’, è la privatizzazione degli asset nazionali e la loro vendita all’estero. Lasciando deprezzare il dollaro, l’Amministrazione USA dà così non solo respiro alle esportazioni: ma consente anche agli investitori diretti esteri di usare i loro capitali per acquistare aziende statunitensi. Alla cinese Lenovo che a suo tempo ha acquistato il ramo hardware di IBM è andata bene. Ai petrolieri cinesi che volevano acquistare la Unocal sono stati opposti invece ostacoli politici persuasivi. Ma la pressione ‘compradora’ dall’estero aumenterà.
Una quarta strategia è una sorta di ‘soluzione bolscevica’ come quando i rivoluzionari che assunsero il potere in Russia rifiutarono di onorare i debiti dello stato zarista.

Per Robert Freeman, è una possibilità «molto più vicina di quello che possa immaginare la maggior parte dei cittadini americani». Possiamo sospettare le enormi implicazioni in termini di impoverimento generale e di fine del dollaro.
Ma secondo Freeman è una quinta strategia a essere in campo più di tutte. Freeman chiarisce:
«Come ultima risoluzione, resta il saccheggio. Quando il rimborso del debito di una nazione diviene così imponente che diventa impossibile rassicurare i creditori, questo paese deve cercare una qualche sorgente di ricchezza, non importa quale sia la fonte».
Il castello di carte starà in piedi fino a quando le banche centrali di Cina e Giappone compreranno titoli in dollari. L’alternativa è non pagarli, quei debiti. Sparigliare le carte. Giocare fino in fondo sul terreno che si domina con più mezzi di tutti, quello militare e della propaganda.
Controllando prima di tutto lo scacchiere dell’energia (altro fronte in crisi), e muovendo tutte le pedine.


Sui media italiani non c’è quasi traccia delle dichiarazioni di Biden.
Il massimo che dicono è che si tratta di un
gaffeur. Ma stavolta non sembrava una gaffe. Solo che i media avrebbero dovuto fare qualche sforzo in più per descrivere un contesto complicato. Meglio banalizzare, in attesa della tempesta.

Fonte :
Pino Cabras
Leggi tutto »

Di Pino Cabras


Certo che suona molto strano il discorso pronunciato lo scorso 19 ottobre a Seattle da
Joe Biden, il candidato di Obama alla vicepresidenza USA. Biden profetizza con una certa enfatica disinvoltura che Barack Obama – una volta in carica come presidente - dovrà subito ballare al ritmo di una crisi internazionale di enormi proporzioni.

Lo “garantisce”, addirittura.

E aggiunge che «non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barack Obama come fece con
John Kennedy».
Ricordiamo che JFK dovette subito fronteggiare la crisi dei missili a Cuba, a un passo dal conflitto nucleare con l’URSS di Kruščëv.
Biden tiene a sottolineare davanti al pubblico lì presente: «Ricordate quel che vi ho detto in piedi qui se non ricordate nessun altra cosa che ho detto.
Badate, stiamo per avere una crisi internazionale, una crisi provocata, per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo».
Una crisi «provocata».
In inglese la parola usata da Biden è «generated». Un vocabolo che comunque rimanda a un’idea di produzione consapevole e sofisticata di un fatto.


Biden insiste: «segnatevi le mie parole, segnatevi le mie parole», mentre aggiunge che dovranno essere prese decisioni «dure» e «impopolari» in materia di politica estera. E per chi non avesse percepito ancora la gravità del tono, ricalca: «Io prometto che accadrà».
Biden sottolinea: «da studioso di storia e avendo collaborato con sette presidenti, io vi garantisco che sta per succedere».
“Garantire” è un altro concetto di grande peso e grandissime implicazioni, per il ben informato Biden. Se l’esordio della presidenza di George W. Bush fu segnato dagli eventi dell’11/9, cosa dunque è atteso - anzi, “promesso”, “garantito” – che accada nell’esordio della nuova Amministrazione?

Biden appartiene a un’
élite in possesso di informazioni privilegiate, una classe di individui che reagisce alle crisi con strumenti concettuali e materiali diversi da quelli propri del senso comune e diversi dal velo banalizzante e bugiardo dei media più importanti. Le prospettive di crisi estrema sono tante, prese da sole o in combinazione.
L’élite sa che la crisi finanziaria, ad esempio, è ben lungi dall’essersi conclusa. Così come l’11 settembre 2001 l'élite sapeva già prima degli altri che l’economia era in recessione, così già oggi guarda con sgomento alle prossime bolle della grande finanza (carte di credito e massa dei derivati
in primis).
Quale evento è pronto a farle precipitare?
Altre crisi ci parlano di Iran, di Russia e Ucraina, di Venezuela, di conflitti potenziali che - una volta scatenati – cambierebbero l’agenda mondiale.

È degli stessi giorni una dichiarazione di tenore analogo a quella di Biden, pronunciata da un fresco sostenitore di Obama, l’ex Segretario di Stato repubblicano Colin Powell, che si è spinto a prevedere un grave scenario di crisi per fine gennaio 2009.
Un altro membro dell’élite che parla, e fa quasi l’oracolo.

Come un altro ex Segretario di Stato, la democratica
Madeleine Albright, la quale a sua volta ritiene molto plausibile lo scenario di emergenza previsto da Biden, un contesto che ai suoi occhi assume le sembianze di un mega-attentato terroristico. E non è finita.
Anche il rivale repubblicano di Obama,
John McCain, cerca di decantare la necessità di mettere al comando supremo la propria esperienza proprio perché il nuovo presidente «non avrà tempo di abituarsi alla carica».

Mentre anche ai soldati USA vengono attribuiti compiti di ordine pubblico (è una tendenza planetaria), intanto che la tempesta finanziaria perfetta incombe, l’immensa potenza americana sembra essere condotta verso un profondo mutamento della sua natura. I segnali sono forti in questa direzione.

In tempi non sospetti, nel 2004, nell’osservare l’aumento eccessivo del debito che sormonta di gran lunga la solvibilità del paese, l’economista Robert Freeman si era chiesto quali possibili strategie avrebbe potuto usare l’amministrazione statunitense (“ Come How Will Bush Deal With the Deficits? Connecting the Dots to Iraq”, «
CommonDreams.org»).
La prima strategia è aumentare le imposte, specie sui redditi elevati, e pagare i creditori. Non è ciò che fa l’amministrazione Bush.

La seconda è stampare dollari. L’abuso di una tale soluzione porterebbe però a un collasso economico.

Una terza soluzione strategica, secondo il modello imposto dall’FMI ai cosidetti ‘paesi in via di sviluppo’, è la privatizzazione degli asset nazionali e la loro vendita all’estero. Lasciando deprezzare il dollaro, l’Amministrazione USA dà così non solo respiro alle esportazioni: ma consente anche agli investitori diretti esteri di usare i loro capitali per acquistare aziende statunitensi. Alla cinese Lenovo che a suo tempo ha acquistato il ramo hardware di IBM è andata bene. Ai petrolieri cinesi che volevano acquistare la Unocal sono stati opposti invece ostacoli politici persuasivi. Ma la pressione ‘compradora’ dall’estero aumenterà.
Una quarta strategia è una sorta di ‘soluzione bolscevica’ come quando i rivoluzionari che assunsero il potere in Russia rifiutarono di onorare i debiti dello stato zarista.

Per Robert Freeman, è una possibilità «molto più vicina di quello che possa immaginare la maggior parte dei cittadini americani». Possiamo sospettare le enormi implicazioni in termini di impoverimento generale e di fine del dollaro.
Ma secondo Freeman è una quinta strategia a essere in campo più di tutte. Freeman chiarisce:
«Come ultima risoluzione, resta il saccheggio. Quando il rimborso del debito di una nazione diviene così imponente che diventa impossibile rassicurare i creditori, questo paese deve cercare una qualche sorgente di ricchezza, non importa quale sia la fonte».
Il castello di carte starà in piedi fino a quando le banche centrali di Cina e Giappone compreranno titoli in dollari. L’alternativa è non pagarli, quei debiti. Sparigliare le carte. Giocare fino in fondo sul terreno che si domina con più mezzi di tutti, quello militare e della propaganda.
Controllando prima di tutto lo scacchiere dell’energia (altro fronte in crisi), e muovendo tutte le pedine.


Sui media italiani non c’è quasi traccia delle dichiarazioni di Biden.
Il massimo che dicono è che si tratta di un
gaffeur. Ma stavolta non sembrava una gaffe. Solo che i media avrebbero dovuto fare qualche sforzo in più per descrivere un contesto complicato. Meglio banalizzare, in attesa della tempesta.

Fonte :
Pino Cabras

Nessun commento:

 
[Privacy]
Design by Free WordPress Themes | Bloggerized by Lasantha - Premium Blogger Themes | Hot Sonakshi Sinha, Car Price in India