mercoledì 3 settembre 2008

“La questione romagnola dopo l’Unità d’Italia”


Il 1° gennaio 1860, su suggerimento del conte di Cavour, Luigi Carlo Farini, in quel periodo“Dittatore degli ex—Ducati di Modena e Parma”, riunì nel governo delle regie Province dell’Emilia i governi provvisori di tali ex—Ducati con quelli delle ex—Legazioni pontificie diBologna, Ferrara, Forlì e Ravenna.

Si trattò, sostanzialmente, dell’atto di nascita, al di fuori di ogni partecipazione dei cittadini interessati, della Regione Emilia, successivamente chiamata Emilia e Romagna.

E, dopo i lavori dell’Assemblea costituente del 1946—47, Emilia-Romagna.


L’operazione fu prettamente politica, pilotata direttamente dalla Monarchia sabauda,assolutamente contraria alla nascita di una entità territoriale romagnola autonoma a causa delrepubblicanesimo delle popolazioni relative.

A nulla importava che i due territori (l’emiliano ed il romagnolo) non disponessero di alcuna “storia comune”.

Il dichiarato obiettivo era “distemperare nel moderatismo degli ex—Ducati e delle ex—Legazioni del nord il rivoluzionarismodei romagnoli”.

Rivoluzionarismo, peraltro, risultato assai utile alla stessa causa monarchica nelle battaglie risorgimentali.

Naturalmente, l’operazione venne aspramente criticata dalla scuola federalistica cattaneana laquale — e giustamente — trovava inconcepibile che si mettessero assieme territori del tutto estranei.

Ed analoga critica giunse dalla Commissione realizzata a Torino presso il Consiglio di Stato onde esprimere un parere di merito sulla natura ed entità dei possibili territori regionali nazionali. Infatti, dall’anno 1860 al 1864, tenne concretamente banco, ai massimi livelli politici del Paese, l’ipotesi di organizzare il nuovo Stato su basi regionalistiche.


Tale Commissione, mentre si disse d’accordo per i proposti territori regionali lombardi,piemontesi, liguri, toscani, ecc. (l’impresa garibaldina al sud non era ancora compiuta),contestò l’ipotesi emiliana, appunto, per la diversità dei due territori che si intendevano associare.Lo stesso on. Marco Minghetti di Bologna (il quale diverrà, in seguito, l’ultimo Presidente delConsiglio dei Ministri della “Destra storica”, e che in quel momento era relatore alla Camera dei Deputati del disegno di legge sulla “regionalizzazione” del Paese), espresse, sulla ipotesi emiliana, un motivato dissenso dicendo che se per la Romagna autonoma si eccepiva la limitata dimensione, risultava più comprensibile, anziché legarla all’Emilia, aggregarle del confinante territorio marchigiano.

Si trattava, evidentemente, dell’Alta Valmarecchia (che col plebiscitario referendum del 17.12.2006 ha sancito la sua democratica volontà di tornare,finalmente, in Romagna).

Nonché di territori della Valconca, anch’essi tuttora interessati al ricongiungimento con la Romagna.

Nell’anno 1864, tuttavia, il disegno regionalistico nazionale cadde, e l’Italia divenne il Paese accentrato che abbiamo conosciuto fino all’anno 1970, quando venne messo a regime il sistema regionalistico indicato dalla Costituzione repubblicana.

Il cambiamento di orientamento delle forze politiche fu motivato dalla situazione di certi territori meridionali, in quel momento in preda alla cosiddetta “guerra al banditismo”.

Lo Stato monarchico, tuttavia, utilizzò gli studi sulla delimitazione dei territori regionali per la realizzazione delle Circoscrizioni statistico—burocratiche, conosciute nella nostra giovinezza ed impropriamente definite “regioni”.

Non mollò, tuttavia, sulla realizzazione di una circoscrizioneromagnola.

La massima delle concessioni, sempre sulla testa dei cittadini di rettamenteinteressati, fu di aggiungere i termini “e Romagna” accanto alla dizione “Emilia”.

Dando, in ogni caso, involontaria testimonianza di considerare il territorio, e la complessiva popolazione,“compositi”.

La circostanza sopra precisata resta, tuttavia, molto importante, in quanto la Costituzione repubblicana ha definito l’impianto regionalistico nazionale sulla base delle vecchie circoscrizioni statistico—burocratiche dell’epoca monarchica, senza alcuna modificazione.
Aggiungendo, comunque, l’art 132, il quale indica le condizioni utili per dare vita a nuove Regioni. Ed è su quelle basi che, nel 1963, si è costituita la Regione Molise.

Fra l’altro con due gravi forzature: il non raggiungimento della popolazione di un milione di unità, il non svolgimento del Referendum popolare.

Condizioni entrambe dettate dal citato art.132.

Non è, dunque, vero che di Regione Romagna non si è parlato all’indomani dell’Unità nazionale, e che l’attuale proposizione da parte del Movimento per l’Autonomia della Romagna non dispone di solide fondamenta.

Addirittura, di Regione Romagna si è ufficialmente parlato anche in periodo fascista, pure con risultati scontati in partenza.
L’occasione fu fornita dal passaggio, nell’anno 1923, dalla Provincia di Firenze a quella di Forlì di dodici Comuni facenti parte del Mandamento di Rocca S. Casciano, e che per circa cinque secoli erano stati parte della Toscana.

A sollevare la questione con una interrogazione parlamentare fu l’on. Giovanni Braschi, originario di Mercato Saraceno, primo deputato popolare eletto in Romagna, il quale chiese di conoscere “se a completamento della riforma della Circoscrizione amministrativa-territoriale della Romagna non fosse giusto, opportuno, tempestivo consacrare le ragioni etniche, topografiche, storiche che la contraddistinguono riconoscendole il carattere regionale anche agli effetti della riforma dei servizi dell’Amministrazione dello Stato”.
Si trattò, certamente, di un atto, dato i tempi, coraggioso.

Rispose il Sottosegretario on. Giacomo Acerbo, il quale dichiarò la proposta Braschi inaccettabile per gravissimeconsiderazioni di carattere politico “dato che il sistema regionale cozza contro i principi unitari ai quali si informa il Governo nazionale”.
Il fedele discepolo ed amico di don Luigi Sturzo, e generoso figlio della nostra terra, non era uno sprovveduto e, dato il regime in auge, non poteva non immaginare la risposta ed il tono relativo.

Tuttavia, e certamente anche per la eccezionalità del momento, non ebbe dubbi nel ricordare il debito di giustizia che il Paese aveva nei confronti della Romagna.
Fra l’altro, intermini di riferimenti storici, non mi risulta che nei pochi anni nei quali il Parlamento ebbe a funzionare in periodo fascista (dal 1922 al 1926), siano state presentate altre proposte di promozione di territori al ruolo regionale.
In definitiva, la discriminazione monarchica continuò anche a notevole distanza dall’evento risorgimentale.

E direi che, incredibilmente, continua a persistere anche attualmente,
attraverso protagonisti che si dicono riformisti e progressisti.
Anche se, nei fatti, noncertamente accreditabili a tali categorie.

In questo persistente quadro, il Movimento per l’Autonomia della Romagna, disinteressatamente ed appassionatamente, raccoglie la sfida, che è anche di dignità.
E chiama, attorno a sé, senza pregiudiziali politiche ed ideologiche, che non
gli appartengono, tutti i romagnoli degni di questo attributo.

I quali sentono, parimenti, il dovere di rendere giustizia ai padri e parità di prospettive per il futuro ai figli.

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Il 1° gennaio 1860, su suggerimento del conte di Cavour, Luigi Carlo Farini, in quel periodo“Dittatore degli ex—Ducati di Modena e Parma”, riunì nel governo delle regie Province dell’Emilia i governi provvisori di tali ex—Ducati con quelli delle ex—Legazioni pontificie diBologna, Ferrara, Forlì e Ravenna.

Si trattò, sostanzialmente, dell’atto di nascita, al di fuori di ogni partecipazione dei cittadini interessati, della Regione Emilia, successivamente chiamata Emilia e Romagna.

E, dopo i lavori dell’Assemblea costituente del 1946—47, Emilia-Romagna.


L’operazione fu prettamente politica, pilotata direttamente dalla Monarchia sabauda,assolutamente contraria alla nascita di una entità territoriale romagnola autonoma a causa delrepubblicanesimo delle popolazioni relative.

A nulla importava che i due territori (l’emiliano ed il romagnolo) non disponessero di alcuna “storia comune”.

Il dichiarato obiettivo era “distemperare nel moderatismo degli ex—Ducati e delle ex—Legazioni del nord il rivoluzionarismodei romagnoli”.

Rivoluzionarismo, peraltro, risultato assai utile alla stessa causa monarchica nelle battaglie risorgimentali.

Naturalmente, l’operazione venne aspramente criticata dalla scuola federalistica cattaneana laquale — e giustamente — trovava inconcepibile che si mettessero assieme territori del tutto estranei.

Ed analoga critica giunse dalla Commissione realizzata a Torino presso il Consiglio di Stato onde esprimere un parere di merito sulla natura ed entità dei possibili territori regionali nazionali. Infatti, dall’anno 1860 al 1864, tenne concretamente banco, ai massimi livelli politici del Paese, l’ipotesi di organizzare il nuovo Stato su basi regionalistiche.


Tale Commissione, mentre si disse d’accordo per i proposti territori regionali lombardi,piemontesi, liguri, toscani, ecc. (l’impresa garibaldina al sud non era ancora compiuta),contestò l’ipotesi emiliana, appunto, per la diversità dei due territori che si intendevano associare.Lo stesso on. Marco Minghetti di Bologna (il quale diverrà, in seguito, l’ultimo Presidente delConsiglio dei Ministri della “Destra storica”, e che in quel momento era relatore alla Camera dei Deputati del disegno di legge sulla “regionalizzazione” del Paese), espresse, sulla ipotesi emiliana, un motivato dissenso dicendo che se per la Romagna autonoma si eccepiva la limitata dimensione, risultava più comprensibile, anziché legarla all’Emilia, aggregarle del confinante territorio marchigiano.

Si trattava, evidentemente, dell’Alta Valmarecchia (che col plebiscitario referendum del 17.12.2006 ha sancito la sua democratica volontà di tornare,finalmente, in Romagna).

Nonché di territori della Valconca, anch’essi tuttora interessati al ricongiungimento con la Romagna.

Nell’anno 1864, tuttavia, il disegno regionalistico nazionale cadde, e l’Italia divenne il Paese accentrato che abbiamo conosciuto fino all’anno 1970, quando venne messo a regime il sistema regionalistico indicato dalla Costituzione repubblicana.

Il cambiamento di orientamento delle forze politiche fu motivato dalla situazione di certi territori meridionali, in quel momento in preda alla cosiddetta “guerra al banditismo”.

Lo Stato monarchico, tuttavia, utilizzò gli studi sulla delimitazione dei territori regionali per la realizzazione delle Circoscrizioni statistico—burocratiche, conosciute nella nostra giovinezza ed impropriamente definite “regioni”.

Non mollò, tuttavia, sulla realizzazione di una circoscrizioneromagnola.

La massima delle concessioni, sempre sulla testa dei cittadini di rettamenteinteressati, fu di aggiungere i termini “e Romagna” accanto alla dizione “Emilia”.

Dando, in ogni caso, involontaria testimonianza di considerare il territorio, e la complessiva popolazione,“compositi”.

La circostanza sopra precisata resta, tuttavia, molto importante, in quanto la Costituzione repubblicana ha definito l’impianto regionalistico nazionale sulla base delle vecchie circoscrizioni statistico—burocratiche dell’epoca monarchica, senza alcuna modificazione.
Aggiungendo, comunque, l’art 132, il quale indica le condizioni utili per dare vita a nuove Regioni. Ed è su quelle basi che, nel 1963, si è costituita la Regione Molise.

Fra l’altro con due gravi forzature: il non raggiungimento della popolazione di un milione di unità, il non svolgimento del Referendum popolare.

Condizioni entrambe dettate dal citato art.132.

Non è, dunque, vero che di Regione Romagna non si è parlato all’indomani dell’Unità nazionale, e che l’attuale proposizione da parte del Movimento per l’Autonomia della Romagna non dispone di solide fondamenta.

Addirittura, di Regione Romagna si è ufficialmente parlato anche in periodo fascista, pure con risultati scontati in partenza.
L’occasione fu fornita dal passaggio, nell’anno 1923, dalla Provincia di Firenze a quella di Forlì di dodici Comuni facenti parte del Mandamento di Rocca S. Casciano, e che per circa cinque secoli erano stati parte della Toscana.

A sollevare la questione con una interrogazione parlamentare fu l’on. Giovanni Braschi, originario di Mercato Saraceno, primo deputato popolare eletto in Romagna, il quale chiese di conoscere “se a completamento della riforma della Circoscrizione amministrativa-territoriale della Romagna non fosse giusto, opportuno, tempestivo consacrare le ragioni etniche, topografiche, storiche che la contraddistinguono riconoscendole il carattere regionale anche agli effetti della riforma dei servizi dell’Amministrazione dello Stato”.
Si trattò, certamente, di un atto, dato i tempi, coraggioso.

Rispose il Sottosegretario on. Giacomo Acerbo, il quale dichiarò la proposta Braschi inaccettabile per gravissimeconsiderazioni di carattere politico “dato che il sistema regionale cozza contro i principi unitari ai quali si informa il Governo nazionale”.
Il fedele discepolo ed amico di don Luigi Sturzo, e generoso figlio della nostra terra, non era uno sprovveduto e, dato il regime in auge, non poteva non immaginare la risposta ed il tono relativo.

Tuttavia, e certamente anche per la eccezionalità del momento, non ebbe dubbi nel ricordare il debito di giustizia che il Paese aveva nei confronti della Romagna.
Fra l’altro, intermini di riferimenti storici, non mi risulta che nei pochi anni nei quali il Parlamento ebbe a funzionare in periodo fascista (dal 1922 al 1926), siano state presentate altre proposte di promozione di territori al ruolo regionale.
In definitiva, la discriminazione monarchica continuò anche a notevole distanza dall’evento risorgimentale.

E direi che, incredibilmente, continua a persistere anche attualmente,
attraverso protagonisti che si dicono riformisti e progressisti.
Anche se, nei fatti, noncertamente accreditabili a tali categorie.

In questo persistente quadro, il Movimento per l’Autonomia della Romagna, disinteressatamente ed appassionatamente, raccoglie la sfida, che è anche di dignità.
E chiama, attorno a sé, senza pregiudiziali politiche ed ideologiche, che non
gli appartengono, tutti i romagnoli degni di questo attributo.

I quali sentono, parimenti, il dovere di rendere giustizia ai padri e parità di prospettive per il futuro ai figli.

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