sabato 20 febbraio 2016

IN RICORDO DI UMBERTO ECO



Di Giovanni Cutolo
Nel 1964, appena arrivato a San Paolo del Brasile, ebbi la fortuna di conoscere Italo Bianchi, scenografo della mitica Vera Cruz, la casa cinematografica brasiliana che aveva aperto al Brasile le strade del cinema vincendo nel 1953 un premio al Festival di Cannes con il film O cangaceiro. Dopo qualche tempo Bianchi mi mise tra le mani Opera Aperta di Umberto Eco suggerendomi di leggerlo, cosa che feci rapidamente senza capirci molto. Rimasi però folgorato dal brano seguente, che mi fece molto riflettere e mi avrebbe cambiato la vita:
Chiaro che a questo punto la categoria dell’alienazione non definisce più soltanto una forma di relazione tra individui basata su una certa struttura della società, ma tutta una serie di rapporti intrattenuti tra uomo e uomo, uomo e oggetti, uomo e istituzioni, uomo e convenzioni sociali, uomo e universo mitico, uomo e linguaggio. (...) A tale titolo allora noi, per il fatto stesso di vivere, lavorando, producendo cose ed entrando in relazione con altri, siamo nell’alienazione. (...) Noi produciamo la macchina; la macchina ci opprime con una realtà inumana e può renderci sgradevole il rapporto con essa, il rapporto che abbiamo col mondo grazie ad essa. L’industrial design sembra risolvere il problema: fonde bellezza e utilità e ci restituisce una macchina umanizzata, a misura d’uomo. Un frullino, un coltello, una macchina da scrivere che esprime le sue possibilità d’uso in una serie di rapporti gradevoli, che invita la mano a toccarla, accarezzarla, usarla; ecco una soluzione.
Questo brano, intitolato Del modo di formare come impegno sulla realtà si trova nell’ultimo saggio del libro, saggio incluso da Eco nella seconda edizione del 1963, mentre invece non appariva nella prima, apparsa nel 1962. Avevo letto da qualche parte che tradurre un testo è il modo migliore per capirlo, così decisi di tradurre il libro in brasiliano sperando in tal modo di riuscire a decriptare il testo, imparando al tempo stesso il portoghese. Effettivamente lo imparai rapidamente e, grazie ai buoni uffici di Haroldo De Campos, la mia traduzione ebbe la fortuna di essere letta e pubblicata da Jacò Guinsburg (Umberto Eco, Obra Aberta, Editora perspectiva, San Paolo, 1969). Con la sua ignara complicità Umberto Eco, mi offrì lo spunto per cominciare il mio viaggio nel design. Un viaggio che dura oramai da oltre quarant’anni.
Cinquant’anni dopo, nel febbraio del 2014 andai a trovare Umberto Eco per chiedergli di scrivere la prefazione del mio ultimo libro, il Breviario di Formazione. Qualche mese dopo, per l’esattezza il 3 di maggio, ricevetti un messaggio e-mail nel quale Eco mi diceva di come fosse infastidito dalle continue richieste di prefazioni e, conseguentemente, della sua strenua difesa contro quella che definiva come “la lebbra delle prefazioni”. Nel contempo però mi gratificava oltremisura scrivendo “il libretto mi è piaciuto e si legge bene, tanto da chiedermi perché sei così autoflagellatorio da pensare che non possa funzionare senza l’avallo di qualcun altro, come se Dante avesse avuto bisogno della prefazione di Guido Cavalcanti.” E continuava osservando che: “Se dovessimo fare un dibattito farei alcune obiezioni su un eccesso di ottimismo neo-razionalista: come si salveranno coloro che non possono comperarsi una Breuer e dormono su una panchina stile Piacentini?”. Non ho problemi a confessare che non ho saputo resistere al legittimo compiacimento procuratomi da queste parole, sicché ho deciso di non pubblicare il suo breve testo come prefazione bensì come “autoflagellazione”. Una autoflagellazione della quale sono estremamente orgoglioso.
Grazie mille Umberto e a presto!



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Di Giovanni Cutolo
Nel 1964, appena arrivato a San Paolo del Brasile, ebbi la fortuna di conoscere Italo Bianchi, scenografo della mitica Vera Cruz, la casa cinematografica brasiliana che aveva aperto al Brasile le strade del cinema vincendo nel 1953 un premio al Festival di Cannes con il film O cangaceiro. Dopo qualche tempo Bianchi mi mise tra le mani Opera Aperta di Umberto Eco suggerendomi di leggerlo, cosa che feci rapidamente senza capirci molto. Rimasi però folgorato dal brano seguente, che mi fece molto riflettere e mi avrebbe cambiato la vita:
Chiaro che a questo punto la categoria dell’alienazione non definisce più soltanto una forma di relazione tra individui basata su una certa struttura della società, ma tutta una serie di rapporti intrattenuti tra uomo e uomo, uomo e oggetti, uomo e istituzioni, uomo e convenzioni sociali, uomo e universo mitico, uomo e linguaggio. (...) A tale titolo allora noi, per il fatto stesso di vivere, lavorando, producendo cose ed entrando in relazione con altri, siamo nell’alienazione. (...) Noi produciamo la macchina; la macchina ci opprime con una realtà inumana e può renderci sgradevole il rapporto con essa, il rapporto che abbiamo col mondo grazie ad essa. L’industrial design sembra risolvere il problema: fonde bellezza e utilità e ci restituisce una macchina umanizzata, a misura d’uomo. Un frullino, un coltello, una macchina da scrivere che esprime le sue possibilità d’uso in una serie di rapporti gradevoli, che invita la mano a toccarla, accarezzarla, usarla; ecco una soluzione.
Questo brano, intitolato Del modo di formare come impegno sulla realtà si trova nell’ultimo saggio del libro, saggio incluso da Eco nella seconda edizione del 1963, mentre invece non appariva nella prima, apparsa nel 1962. Avevo letto da qualche parte che tradurre un testo è il modo migliore per capirlo, così decisi di tradurre il libro in brasiliano sperando in tal modo di riuscire a decriptare il testo, imparando al tempo stesso il portoghese. Effettivamente lo imparai rapidamente e, grazie ai buoni uffici di Haroldo De Campos, la mia traduzione ebbe la fortuna di essere letta e pubblicata da Jacò Guinsburg (Umberto Eco, Obra Aberta, Editora perspectiva, San Paolo, 1969). Con la sua ignara complicità Umberto Eco, mi offrì lo spunto per cominciare il mio viaggio nel design. Un viaggio che dura oramai da oltre quarant’anni.
Cinquant’anni dopo, nel febbraio del 2014 andai a trovare Umberto Eco per chiedergli di scrivere la prefazione del mio ultimo libro, il Breviario di Formazione. Qualche mese dopo, per l’esattezza il 3 di maggio, ricevetti un messaggio e-mail nel quale Eco mi diceva di come fosse infastidito dalle continue richieste di prefazioni e, conseguentemente, della sua strenua difesa contro quella che definiva come “la lebbra delle prefazioni”. Nel contempo però mi gratificava oltremisura scrivendo “il libretto mi è piaciuto e si legge bene, tanto da chiedermi perché sei così autoflagellatorio da pensare che non possa funzionare senza l’avallo di qualcun altro, come se Dante avesse avuto bisogno della prefazione di Guido Cavalcanti.” E continuava osservando che: “Se dovessimo fare un dibattito farei alcune obiezioni su un eccesso di ottimismo neo-razionalista: come si salveranno coloro che non possono comperarsi una Breuer e dormono su una panchina stile Piacentini?”. Non ho problemi a confessare che non ho saputo resistere al legittimo compiacimento procuratomi da queste parole, sicché ho deciso di non pubblicare il suo breve testo come prefazione bensì come “autoflagellazione”. Una autoflagellazione della quale sono estremamente orgoglioso.
Grazie mille Umberto e a presto!



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