giovedì 2 dicembre 2010

L’Università degli intoccabili

Di Marco Unia

In Italia esiste da tempo una questione generazionale. I "padri" e i "nonni" hanno sviluppato una società economicamente e politcamente non sostenibile per le giovani generazioni. Anche la riforma Gelmini dell’università è la dimostrazione evidente del privilegio dei "vecchi" contro i giovani". Una casta di intoccabili che vuole fare pagare il proprio (salato) conto alla giovani studenti e lavoratori. Senza fare nessuna forma di un’autocritica

E’ tutto sbagliato e hanno sbagliato tutti. Labattaglia politica sull’Università condotta da maggioranza e opposizioni fuori e dentro il parlamento si regge, infatti, su un colossale fraintendimento. Si basa, anzi, su un errore di prospettiva, per cui si guarda (e si parla) al futuro, quando invece la questione, il tempo decisivo, è il passato. C’è infatti un’enorme vuoto di memoria storica che grava su questo dibattito e che lo condiziona rendendolo furioso e cieco. Si dimentica che quanto accadrà domani è comunque figlio, legittimo o illegittimo che dire si voglia, degli errori del passato e delle scelte compiute dalle generazioni precedenti. Generazione di docenti e ricercatori universitari che hanno contribuito in modo decisivo allo sfascio dell’Università o che, nei casi migliori, hanno assistito con indifferenza alla sua rovina. Generazioni che hanno utilizzato (o consentito che si usassero) metodi di selezione ingiusti e scriteriati della classe docente, con concorsi palesemente falsati o finti, che hanno consegnato gli incarichi di docenza quasi elusivamente ad amici, parenti, conoscenti, compagni di partito, soci di intessi. Generazioni di baroni che hanno usufruito di stipendi elevati non correlati in alcun modo a valutazioni sul merito e sull’efficienza e generazioni di ricercatori che hanno guardato al posto fisso come all’occasione per sistemarsi per tutta la vita senza dovere più rendere conto a niente e nessuno. Sono questi gli stessi professori che hanno sfruttato consapevolmente le speranze di valenti studenti utilizzandoli gratuitamente per incarichi di docenza e d’amministrazione, facendo balenare a questi disperati la possibilità di incarichi futuri. Sono questi gli stessi docenti che hanno visto trasformare in poveri e precari gli aspiranti professori e che invece che denunciare la situazione, promuovere una riforma o rendersi disponibili a qualche rinuncia hanno agito come la più conservatrice delle caste, impuntandosi su privilegi che hanno osato impunemente battezzare come diritti, irridendo chi, semplicemente per questioni di gioventù anagrafica, questi diritti non ha potuto né mai potrà goderli. Sono questi stessi professori che hanno contribuito a “snervare” la forza morale dell’Università, perché hanno insegnato che il servilismo e la capacità di sopportare umiliazioni sono i migliori e forse unici criteri per sperare in una carriera da docente.

Ma il decreto Gelmini e le controproposte avanzate dalle opposizioni non hanno il coraggio di sfidare questa casta di intoccabili. Nessuno dice che incarichi e remunerazioni dei docenti attuali vanno ridiscusse, rinegoziate, rivalutate. Nessuno dice che andrebbe introdotto un sistema di valutazione individuale dell’attività di ricerca e dell’attività didattica, che possa portare anche alla rimozione definitiva dall’incarico di un professore inefficiente o inadeguato. Non si parla della possibilità di correlare lo stipendio degli attuali cattedratici con i risultati del loro lavoro. Non si chiede loro un maggior numero di ore di presenza per la didattica e la ricerca. Non si chiede neppure di smetterla con i doppi e tripli incarichi (e con i relativi doppi tripli stipendi) per cui un professore è contemporaneamente un libero professionista, un medico e, perché no, anche un consulente. Non si osa neppure adombrare una eventuale diminuzione dei loro stipendi, per finanziare borse di studio, nuovi ricercatori, assegni di ricerca: e questo nonostante la spesa di personale raggiunga spessa quasi l’80% dei costi sostenuti dalle Università. Nulla di tutto questo avviene: il merito, l’efficienza, la flessibilità, l’aumento delle ore di lavoro sono infatti richieste che si debbono imporre solo ad operai e impiegati, alla povera massa, inutile e ignorante. Oppure sono doveri da assegnare alle generazioni future, che devono scontare la colpa ancestrale della loro stessa gioventù.

La riforma Gelmini e le reazioni politiche (e sociali) alla sua proposta di legge segnalano la mentalità conservatrice che pervade il nostro paese. Indicano l’esistenza nell’Università (ma anche nella società) di una “gerontocrazia” dominante, che premia e conserva i privilegi di chi può esibire titoli di anzianità. Le scelte compiute sul sistema formativo superiore dimostrano pertanto l’esistenza di un tabù, che è quello dei diritti acquisiti, che non può essere messo in discussione: e questo nonostante tali diritti siano stati conquistati spesso in modo poco trasparente, poco meritevole, senza averne appunto realmente diritto. Le reazioni politiche alle proteste dimostrano inoltre l’irresponsabilità delle generazioni precedenti, che hanno avvallato un sistema universitario economicamente (e moralmente) non sostenibile, e che si dimostrano indifferenti alle ricadute sulle generazioni future, a cui hanno consegnato il problema e la necessità della sua soluzione. L’insieme delle riforme approvate o che si intende approvare in questo paese - ad esempio quelle sulla scuola primaria e secondaria e quelle sul mercato del lavoro - rendono evidente la trasformazione culturale e semantica della parola “diritto” che ammanta di nobiltà “privilegi” diventati insostenibili e che alimentano la formazione di una società disuguale, che punisce sempre di più i giovani.

L’Italia si è ormai trasformata in una nazione che a tutti i livelli - politici, sociali, culturali - dimostra una palese mancanza di solidarietà tra generazioni, perché i “vecchi” non sono disponibili a rinegoziare la loro situazione con i giovani, non sono interessati a sedersi allo stesso tavolo di confronto senza pontificare da una cattedra, senza porre come preambolo di ogni discorso l’intangibilità di ciò che si è acquisito nel passato.

Il problema italiano è quindi, in modo ricorrente, un problema di memoria, di articolata indagine storica e di capacità di sviluppare una seria autocritica. Occorrerebbe infatti una seria valutazione di ciò che è avvenuto nel recente passato per formulare proposte di riforma della società che producano giustizia e uguaglianza sociale. E’ troppo facile (e ingiusto) risolvere i problemi ricorrendo al motto “scurdammoce o’ passato” e voltando pagina. Si devono stabilire le responsabilità storiche, fare ammenda dei propri errori, rendersi disponibili a correggere le ingiustizie che si sono prodotte e su questa base costruire una proposta di futuro, che diversamente è un salto nel vuoto e un buco nero dove lanciare le nuove generazioni. Agli “anziani” italiani si dovrebbe insegnare la responsabilità. Responsabilità che non significa solo avere dei privilegi, ma assumersi degli oneri per permettere alle giovani generazioni di avere un futuro migliore. Nel nostro strambo paese invece ai giovani si chiedono sacrifici e responsabilità, ai loro padri e nonni si danno ricchezze e privilegi.

Fonte:Agoravox

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Di Marco Unia

In Italia esiste da tempo una questione generazionale. I "padri" e i "nonni" hanno sviluppato una società economicamente e politcamente non sostenibile per le giovani generazioni. Anche la riforma Gelmini dell’università è la dimostrazione evidente del privilegio dei "vecchi" contro i giovani". Una casta di intoccabili che vuole fare pagare il proprio (salato) conto alla giovani studenti e lavoratori. Senza fare nessuna forma di un’autocritica

E’ tutto sbagliato e hanno sbagliato tutti. Labattaglia politica sull’Università condotta da maggioranza e opposizioni fuori e dentro il parlamento si regge, infatti, su un colossale fraintendimento. Si basa, anzi, su un errore di prospettiva, per cui si guarda (e si parla) al futuro, quando invece la questione, il tempo decisivo, è il passato. C’è infatti un’enorme vuoto di memoria storica che grava su questo dibattito e che lo condiziona rendendolo furioso e cieco. Si dimentica che quanto accadrà domani è comunque figlio, legittimo o illegittimo che dire si voglia, degli errori del passato e delle scelte compiute dalle generazioni precedenti. Generazione di docenti e ricercatori universitari che hanno contribuito in modo decisivo allo sfascio dell’Università o che, nei casi migliori, hanno assistito con indifferenza alla sua rovina. Generazioni che hanno utilizzato (o consentito che si usassero) metodi di selezione ingiusti e scriteriati della classe docente, con concorsi palesemente falsati o finti, che hanno consegnato gli incarichi di docenza quasi elusivamente ad amici, parenti, conoscenti, compagni di partito, soci di intessi. Generazioni di baroni che hanno usufruito di stipendi elevati non correlati in alcun modo a valutazioni sul merito e sull’efficienza e generazioni di ricercatori che hanno guardato al posto fisso come all’occasione per sistemarsi per tutta la vita senza dovere più rendere conto a niente e nessuno. Sono questi gli stessi professori che hanno sfruttato consapevolmente le speranze di valenti studenti utilizzandoli gratuitamente per incarichi di docenza e d’amministrazione, facendo balenare a questi disperati la possibilità di incarichi futuri. Sono questi gli stessi docenti che hanno visto trasformare in poveri e precari gli aspiranti professori e che invece che denunciare la situazione, promuovere una riforma o rendersi disponibili a qualche rinuncia hanno agito come la più conservatrice delle caste, impuntandosi su privilegi che hanno osato impunemente battezzare come diritti, irridendo chi, semplicemente per questioni di gioventù anagrafica, questi diritti non ha potuto né mai potrà goderli. Sono questi stessi professori che hanno contribuito a “snervare” la forza morale dell’Università, perché hanno insegnato che il servilismo e la capacità di sopportare umiliazioni sono i migliori e forse unici criteri per sperare in una carriera da docente.

Ma il decreto Gelmini e le controproposte avanzate dalle opposizioni non hanno il coraggio di sfidare questa casta di intoccabili. Nessuno dice che incarichi e remunerazioni dei docenti attuali vanno ridiscusse, rinegoziate, rivalutate. Nessuno dice che andrebbe introdotto un sistema di valutazione individuale dell’attività di ricerca e dell’attività didattica, che possa portare anche alla rimozione definitiva dall’incarico di un professore inefficiente o inadeguato. Non si parla della possibilità di correlare lo stipendio degli attuali cattedratici con i risultati del loro lavoro. Non si chiede loro un maggior numero di ore di presenza per la didattica e la ricerca. Non si chiede neppure di smetterla con i doppi e tripli incarichi (e con i relativi doppi tripli stipendi) per cui un professore è contemporaneamente un libero professionista, un medico e, perché no, anche un consulente. Non si osa neppure adombrare una eventuale diminuzione dei loro stipendi, per finanziare borse di studio, nuovi ricercatori, assegni di ricerca: e questo nonostante la spesa di personale raggiunga spessa quasi l’80% dei costi sostenuti dalle Università. Nulla di tutto questo avviene: il merito, l’efficienza, la flessibilità, l’aumento delle ore di lavoro sono infatti richieste che si debbono imporre solo ad operai e impiegati, alla povera massa, inutile e ignorante. Oppure sono doveri da assegnare alle generazioni future, che devono scontare la colpa ancestrale della loro stessa gioventù.

La riforma Gelmini e le reazioni politiche (e sociali) alla sua proposta di legge segnalano la mentalità conservatrice che pervade il nostro paese. Indicano l’esistenza nell’Università (ma anche nella società) di una “gerontocrazia” dominante, che premia e conserva i privilegi di chi può esibire titoli di anzianità. Le scelte compiute sul sistema formativo superiore dimostrano pertanto l’esistenza di un tabù, che è quello dei diritti acquisiti, che non può essere messo in discussione: e questo nonostante tali diritti siano stati conquistati spesso in modo poco trasparente, poco meritevole, senza averne appunto realmente diritto. Le reazioni politiche alle proteste dimostrano inoltre l’irresponsabilità delle generazioni precedenti, che hanno avvallato un sistema universitario economicamente (e moralmente) non sostenibile, e che si dimostrano indifferenti alle ricadute sulle generazioni future, a cui hanno consegnato il problema e la necessità della sua soluzione. L’insieme delle riforme approvate o che si intende approvare in questo paese - ad esempio quelle sulla scuola primaria e secondaria e quelle sul mercato del lavoro - rendono evidente la trasformazione culturale e semantica della parola “diritto” che ammanta di nobiltà “privilegi” diventati insostenibili e che alimentano la formazione di una società disuguale, che punisce sempre di più i giovani.

L’Italia si è ormai trasformata in una nazione che a tutti i livelli - politici, sociali, culturali - dimostra una palese mancanza di solidarietà tra generazioni, perché i “vecchi” non sono disponibili a rinegoziare la loro situazione con i giovani, non sono interessati a sedersi allo stesso tavolo di confronto senza pontificare da una cattedra, senza porre come preambolo di ogni discorso l’intangibilità di ciò che si è acquisito nel passato.

Il problema italiano è quindi, in modo ricorrente, un problema di memoria, di articolata indagine storica e di capacità di sviluppare una seria autocritica. Occorrerebbe infatti una seria valutazione di ciò che è avvenuto nel recente passato per formulare proposte di riforma della società che producano giustizia e uguaglianza sociale. E’ troppo facile (e ingiusto) risolvere i problemi ricorrendo al motto “scurdammoce o’ passato” e voltando pagina. Si devono stabilire le responsabilità storiche, fare ammenda dei propri errori, rendersi disponibili a correggere le ingiustizie che si sono prodotte e su questa base costruire una proposta di futuro, che diversamente è un salto nel vuoto e un buco nero dove lanciare le nuove generazioni. Agli “anziani” italiani si dovrebbe insegnare la responsabilità. Responsabilità che non significa solo avere dei privilegi, ma assumersi degli oneri per permettere alle giovani generazioni di avere un futuro migliore. Nel nostro strambo paese invece ai giovani si chiedono sacrifici e responsabilità, ai loro padri e nonni si danno ricchezze e privilegi.

Fonte:Agoravox

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1 commento:

Anonimo ha detto...

Il terzo polo prende forma!

Occhi puntati sul 14 dicembre. E allora tutti contro Berlusconi! Si gioca tutto sulla (s)fiducia al governo. Al centro del vertice tenutosi tra Udc, Fli e Api la verifica dei margini di un accordo sulla mozione di sfiducia al governo annunciata dal partito di Pierferdinando Casini. All’incontro, che si è svolto nello studio del presidente della Camera, c'erano anche Lorenzo Cesa, segretario nazionale dell’Udc, Bruno Tabacci dell’Api e Italo Bocchino, capogruppo alla Camera di Fli. Conclusosi da poco il politburo, la triade (Gianfranco Fini, Francesco Rutelli e Pier Ferdinando Casini) avrebbe raggiunto un’intesa di massima per presentare un documento insieme. Il terzo polo marcia verso una mozione comune per sfiduciare il governo e andare al governo senza passare per le urne! Pallottoliere alla mano, ai 36 deputati di Fli (escluso Gianfranco Fini presidente della Camera) si aggiungono i 35 voti dell’Udc di Casini, i 6 dell’Api di Rutelli, i 5 dell’Mpa guidati da Lombardo e i 3 Libem di Tanoni (complessivamente sono 85). A questi, poi, bisogna sommare i due deputati del gruppo misto, che hanno dichiarato di votare la sfiducia: l’esponente del Pri Giorgio La Malfa e l’ex azzurro Paolo Guzzanti. In totale, dunque, si arriva a quota 87. Giochi fatti, dunque! Ma prima di ufficializzare la mossa si terranno una serie di incontri, così, tanto per salvare la faccia e apparire un pò più democratici del partito 'padronale' del Cavaliere. Questione di facciata, non certo di sostanza (chiedete a Storace cosa ne pensa di Fini e della democrazia interna del partito ai tempi di MSI e AN)! Fini, così, vedrà i gruppi di Fli per comunicare la decisione (già presa senza di loro) e valutarla (!?) con i suoi. Al termine del vertice tra Fli, Udc, Api, Ld e Mpa a Montecitorio, Rutelli ha lasciato intendere che l’intesa è vicina: “La riunione di questa mattina è andata molto bene, c’è un’ampia convergenza tra di noi, non mi fate dire altro”. E Casini ha confermato: “L’incontro è andato benissimo”. Sembra la triade degli sfigati, in cerca di rivalsa: Fini che prima annega nelle acque di Fiuggi un partito (MSI), ne crea uno nuovo di zecca (AN), poi lo distrugge per fonderlo con un altro partito (FI) nel secondo polo (PDL) e oggi lo separa di nuovo per Futuro e Libertà: Gianfry, che ha perso la trebisonda appresso alla Tulliani, da delfino di Giorgio Almirante rischia di fare il baccalà a mollo; Rutelli nato da una costola di Pannella e cresciuto(!?) all'ombra prima di D'Alema, poi di Veltroni, l'eterno ragazzino, la giovane(!?) promessa che non riesce a... mantenere, spera di farlo adesso: la speranza è l'ultima a morire, ma per l'ex sindaco di Roma è eutanasia politica allo stato puro quella di farsi portare per mano, dal gatto (Gianfry) e dalla volpe (Casini), per rimettersi sotto l'ombra dell'albero dei miracoli; infine lui, Pierferdy Casini, l'erede nudo di Andreotti, Fanfani, Forlani, Gava, Cirino Pomicino, che si ritrova in mano, in tempo di euro, uno scudo... 'crociato' che non serve più nenache a racimolare i voti delle vecchiette e di qualche parroco di campagna, lui che ha sposato in seconde nozze la figlia di Caltagirone - palazzinaro e editore romano, suoi tutti i cantieri della capitale, suo "Il Messaggero", insomma, un aspirante Berlusconi! - per fare carriera politica, anche se per vocazione è panettiere nato: "da Pierferdy il Mago dei 2forni"!

 
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