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La «Ferrari» del Nord, la «500» del Sud
di Lino Patruno
Gli storici professoroni che non vogliono parlare della faccia violenta del Risorgimento italiano sono in fondo i soliti noti. Sono quelli che hanno tenuto a lungo nascosto il massacro delle foibe ad opera dei comunisti di Tito (e italiani). Sono quelli che rifiutano ancora di occuparsi delle stragi dei partigiani. Sono quella baronìa che tratta da patetico e pezzente chiunque invada il suo campo, foss’anche con documenti alla mano. Perché in Italia la cultura non si confronta, detta legge. Monopolizzando cattedre e concorsi, case editrici e libri scolastici. E zittendo chiunque osi controbattere, finanche fare domande. Con tutti i dubbiosi bollati di antirisorgimentali, nostalgici, oscurantisti.
È intollerabile che sia bruciato sul rogo anche chi all’Unità ha sempre creduto pur non volendo intrupparsi nel coro trombonesco. O perché non proviene dal santuario dell’università. È successo a Indro Montanelli, troppo giornalista per poter osare scrivere di storia. Ma è successo anche allo storico Denis Mack Smith, troppo inglese per impicciarsi delle cose italiane. È successo a Gianpaolo Pansa, sinistro troppo poco ortodosso per andare a ficcare il naso nel sangue dei vinti di una Resistenza dalla dogmatica sacralità. Se poi dagli archivi non meno omertosi e faziosi escono le carte, se poi il testimone racconta, se poi all’appello mancano troppi morti ammazzati per continuare a ignorarli, cosa fanno i nostri eroi puri e duri? Persistono nel loro disprezzo.
L’esempio dei rapporti militari su certe menzogne americane in Afghanistan sembra non insegnare nulla. Oggi non si può più nascondere niente. Ci sarà sempre un blog, un facebook, uno youtube, un pirata di internet che romperà i piatti. Così per il Risorgimento sono ormai fin troppe le controstorie per continuare a considerarle spazzatura. E non è solo il Pino Aprile col suo Terroni a suscitare interrogativi sul perché di tanto successo. Ma anche storici usciti dalla morsa della Casta percorrono, udite udite, le tracce di quei dilettanti sprovveduti ma smaniosi di verità e che finora hanno predicato nel deserto. Una verità fatta non solo di squilli e fanfare su quella epopea di 150 anni fa. Ha ragione Marcello Veneziani a indignarsi verso chi così fa più male che bene al Risorgimento.
Con un sospetto. Si parlasse solo di briganti, si può dire che ogni conflitto civile è sporco. Fosse soltanto la distruzione di interi paesi al Sud, crimini di guerra ci sono in ogni guerra. Ma cominciò allora qualcosa al Sud che il Sud sconta ancora oggi, ed è questo il silenzio che deve restare silenzio perché consente di continuare ad attribuire al Sud colpe che non ha. L’economia del Sud non fu soltanto spogliata e rapinata. Ma si decise allora che lo sviluppo dovesse avvenire al Nord, che aveva «vinto» camuffando i suoi massacri dietro gli entusiastici (ma inattendibili) plebisciti per l’annessione. E che il Sud dovesse essere il grande serbatoio di manodopera a poco prezzo, e di consumo, necessario a quello sviluppo. Con lo Stato che interveniva ogni volta che al Sud la pressione saliva al fuoco della povertà.
Ogni decisione dei governi è stata da allora coerente con quel disegno, ogni legge economica ha assecondato gli interessi del Nord. Lo dicono fra l’altro storici «ufficiali» come Luigi De Rosa e Piero Bevilacqua. Lo hanno ammesso, chissà se in momento di debolezza, due ministri tutt’altro che sudisti come Tremonti e Brunetta. Ora gli studiosi sanno che così si avvia un meccanismo del sottosviluppo dal quale non si esce se non si ribalta completamente la politica seguita. Una «500» non potrà mai raggiungere una «Ferrari» se non le cambi il motore.
Vale per tutto il mondo sottosviluppato. Il classico detto: non dateci il pesce, ma la canna da pesca. Perché gli investimenti, i capannoni, gli affari si fanno dove lo sviluppo assicura il massimo profitto, cioè dove lo sviluppo c’è già. E dove non c’è, si può fare qualcosa solo se interviene lo Stato a incentivarlo. Ma finito l’incentivo, si torna come prima. Tranne rinfacciare al Sud di chiedere sempre allo Stato. Con l’aggiunta che anche i soldi dello Stato al Sud ritornano al Nord perlomeno acquistandone i prodotti.
Perciò quando si dice che il Sud vuole essere sempre assistito, bisogna rinfacciarlo a chi decise e decide ancora di ridurlo così. E quando si dice che il Sud ha scarsa iniziativa imprenditoriale, bisogna sfidare ad averla dove ogni investimento rende meno perché quella scelta a favore del Nord ha soffocato ogni tentativo di uscire dall’assistenza e di fare da sé. E quando il Nord dice che il Sud vive alle sue spalle, bisogna rispondere che in 150 anni è avvenuto tutto il contrario.
Il Sud è vittima: e questo non è vittimismo. E chi tuona che è la palla al piede del Paese, è un disonesto cui replicare che il sottosviluppo del Sud è la base dello sviluppo del Nord. Ma è proprio ciò che meno che mai gli storici professoroni ammetteranno. Perché è l’altarino che continua a tenere schiacciato il Sud.
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di Lino Patruno
Gli storici professoroni che non vogliono parlare della faccia violenta del Risorgimento italiano sono in fondo i soliti noti. Sono quelli che hanno tenuto a lungo nascosto il massacro delle foibe ad opera dei comunisti di Tito (e italiani). Sono quelli che rifiutano ancora di occuparsi delle stragi dei partigiani. Sono quella baronìa che tratta da patetico e pezzente chiunque invada il suo campo, foss’anche con documenti alla mano. Perché in Italia la cultura non si confronta, detta legge. Monopolizzando cattedre e concorsi, case editrici e libri scolastici. E zittendo chiunque osi controbattere, finanche fare domande. Con tutti i dubbiosi bollati di antirisorgimentali, nostalgici, oscurantisti.
È intollerabile che sia bruciato sul rogo anche chi all’Unità ha sempre creduto pur non volendo intrupparsi nel coro trombonesco. O perché non proviene dal santuario dell’università. È successo a Indro Montanelli, troppo giornalista per poter osare scrivere di storia. Ma è successo anche allo storico Denis Mack Smith, troppo inglese per impicciarsi delle cose italiane. È successo a Gianpaolo Pansa, sinistro troppo poco ortodosso per andare a ficcare il naso nel sangue dei vinti di una Resistenza dalla dogmatica sacralità. Se poi dagli archivi non meno omertosi e faziosi escono le carte, se poi il testimone racconta, se poi all’appello mancano troppi morti ammazzati per continuare a ignorarli, cosa fanno i nostri eroi puri e duri? Persistono nel loro disprezzo.
L’esempio dei rapporti militari su certe menzogne americane in Afghanistan sembra non insegnare nulla. Oggi non si può più nascondere niente. Ci sarà sempre un blog, un facebook, uno youtube, un pirata di internet che romperà i piatti. Così per il Risorgimento sono ormai fin troppe le controstorie per continuare a considerarle spazzatura. E non è solo il Pino Aprile col suo Terroni a suscitare interrogativi sul perché di tanto successo. Ma anche storici usciti dalla morsa della Casta percorrono, udite udite, le tracce di quei dilettanti sprovveduti ma smaniosi di verità e che finora hanno predicato nel deserto. Una verità fatta non solo di squilli e fanfare su quella epopea di 150 anni fa. Ha ragione Marcello Veneziani a indignarsi verso chi così fa più male che bene al Risorgimento.
Con un sospetto. Si parlasse solo di briganti, si può dire che ogni conflitto civile è sporco. Fosse soltanto la distruzione di interi paesi al Sud, crimini di guerra ci sono in ogni guerra. Ma cominciò allora qualcosa al Sud che il Sud sconta ancora oggi, ed è questo il silenzio che deve restare silenzio perché consente di continuare ad attribuire al Sud colpe che non ha. L’economia del Sud non fu soltanto spogliata e rapinata. Ma si decise allora che lo sviluppo dovesse avvenire al Nord, che aveva «vinto» camuffando i suoi massacri dietro gli entusiastici (ma inattendibili) plebisciti per l’annessione. E che il Sud dovesse essere il grande serbatoio di manodopera a poco prezzo, e di consumo, necessario a quello sviluppo. Con lo Stato che interveniva ogni volta che al Sud la pressione saliva al fuoco della povertà.
Ogni decisione dei governi è stata da allora coerente con quel disegno, ogni legge economica ha assecondato gli interessi del Nord. Lo dicono fra l’altro storici «ufficiali» come Luigi De Rosa e Piero Bevilacqua. Lo hanno ammesso, chissà se in momento di debolezza, due ministri tutt’altro che sudisti come Tremonti e Brunetta. Ora gli studiosi sanno che così si avvia un meccanismo del sottosviluppo dal quale non si esce se non si ribalta completamente la politica seguita. Una «500» non potrà mai raggiungere una «Ferrari» se non le cambi il motore.
Vale per tutto il mondo sottosviluppato. Il classico detto: non dateci il pesce, ma la canna da pesca. Perché gli investimenti, i capannoni, gli affari si fanno dove lo sviluppo assicura il massimo profitto, cioè dove lo sviluppo c’è già. E dove non c’è, si può fare qualcosa solo se interviene lo Stato a incentivarlo. Ma finito l’incentivo, si torna come prima. Tranne rinfacciare al Sud di chiedere sempre allo Stato. Con l’aggiunta che anche i soldi dello Stato al Sud ritornano al Nord perlomeno acquistandone i prodotti.
Perciò quando si dice che il Sud vuole essere sempre assistito, bisogna rinfacciarlo a chi decise e decide ancora di ridurlo così. E quando si dice che il Sud ha scarsa iniziativa imprenditoriale, bisogna sfidare ad averla dove ogni investimento rende meno perché quella scelta a favore del Nord ha soffocato ogni tentativo di uscire dall’assistenza e di fare da sé. E quando il Nord dice che il Sud vive alle sue spalle, bisogna rispondere che in 150 anni è avvenuto tutto il contrario.
Il Sud è vittima: e questo non è vittimismo. E chi tuona che è la palla al piede del Paese, è un disonesto cui replicare che il sottosviluppo del Sud è la base dello sviluppo del Nord. Ma è proprio ciò che meno che mai gli storici professoroni ammetteranno. Perché è l’altarino che continua a tenere schiacciato il Sud.
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